Nella penombra di una taverna della bassa romagnola, tra un bicchiere di lambrusco e una bestemmia trattenuta a metà, un vecchio comunista racconta perché – secondo lui – il futuro della sinistra è già passato.
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La taverna è bassa di soffitto, mattoni a vista, un tavolone segnato da decenni di carte e gomiti. Fuori c’è la nebbia della bassa romagnola, quella che ti entra nelle ossa. Davanti a noi una bottiglia di lambrusco già a metà. Giorgio tiene il berettino da baseball calato sulla fronte, la faccia rubiconda, le mani grosse da uno che ha passato la vita più a lavorare che a spiegare. Ottantaquattro anni, ex tracciatore in una officina di carpenteria pesante. Quinta elementare, dice lui, “ma mica per scelta”. Autodidatta di marxismo da sezione di partito, uno che il dopoguerra non l’ha studiato: l’ha attraversato.
Giorgio, partiamo da qui: che aria tira, secondo te, per la sinistra nel 2026?
“Che aria vuoi che tiri? È finita da un pezzo. Solo che loro non se ne sono accorti. Io la politica l’ho vista nascere dalle macerie, capisci? Fame, campi, zappa, scarpe bucate. Poi la fabbrica, il sindacato, il partito. Lì sì che c’era aria. Oggi c’è deodorante.”
Beve un sorso, si pulisce la bocca con il dorso della mano.
“Il 2026 non sarà un bel niente per la sinistra perché non sa più chi è. E quando non sai chi sei, non sai nemmeno dove vai. Io mi sono fermato alla Bolognina, te lo dico chiaro. Dopo, buio. Il PDS? Mai visto. Per me il Partito Comunista ha chiuso lì, come una saracinesca.”
Hai vissuto il ’68, l’autunno caldo, gli anni di piombo. Che differenza vedi con oggi?
“Che allora c’era conflitto vero. Sporco, duro, anche sbagliato a volte. Ma vero. Oggi è tutta rappresentazione. Nel ’69 rischiavamo il posto, la galera, qualche volta la pelle. Adesso rischiano un talk show andato male.”
Sorride amaro.
“Io ero in officina dodici ore al giorno. Tracciavo lamiere grandi come muri. La sera sezione di partito. Ci davano da leggere Marx, Lenin, Gramsci. Non capivo tutto, eh. Ma capivo da che parte stavo. Oggi leggono i sondaggi.”
Tu dici spesso che il mito antifascista vi ha tenuti insieme. Oggi non funziona più?
“Il mito antifascista era una cosa seria. Veniva da gente morta, non da hashtag. Mio padre nei campi, io ragazzino, fame vera. Il fascismo lo conoscevamo sulla pelle. Oggi lo usano come spaventapasseri perché non hanno altro da dire.”
Si accende una sigaretta, nonostante il cartello di divieto.
“Guarda che io resto antifascista, fino all’osso. Ma non puoi campare ottant’anni di rendita. Se non parli di lavoro, di salari, di dignità, la gente se ne frega dei tuoi appelli morali.”
Su certi giornali si dice che il 2026 sarà nero per la sinistra tra referendum, riforme e leadership mancante. Sei d’accordo?
“Ogni giornalista fa il suo mestiere, ma spesso scrivono per quelli là. Ma su una cosa c’hanno ragione: la sinistra non ha un capo. E non perché glielo impedisce qualcuno, ma perché nessuno è capace di prendersi la responsabilità.”
Batte il dito sul tavolo.
“Noi il capo lo sceglievamo prima, e poi si andava a morire insieme, politicamente parlando. Adesso li scegli dopo, se vinci. Ma se perdi, non è colpa di nessuno.”
Premierato, riforma della magistratura, referendum: tutto questo come lo leggi?
“Io non sono un costituzionalista, per carità. Ma vedo una cosa semplice: la sinistra si mette sempre dalla parte delle istituzioni contro la gente. Magistrati, tecnici, professori. Mai una volta che dica: ‘Forse abbiamo sbagliato noi’.”
Beve ancora.
“E poi fanno una gran confusione tra difendere la Costituzione e difendere le abitudini. Noi negli anni Settanta volevamo cambiare lo Stato, mica imbalsamarlo.”
La tua vita personale è stata tutt’altro che lineare: uno dei primi divorziati del paese, famiglia salvata – dici tu – da un prete. Come convive tutto questo con il tuo essere comunista?
“Male, ma convive. Io sono uno pieno di contraddizioni. Mi sono separato quando non si separava nessuno. Ho fatto soffrire gente, pure me stesso. Un prete mi ha aiutato più di tanti compagni. E allora? La vita non sta nei manuali.”
Sorride, per la prima volta con dolcezza.
“La sinistra invece pretende di essere pura. Ma la purezza non è di questo mondo. È per questo che perde.”
Se dovessi dire una cosa sola a un dirigente della sinistra di oggi?
“Di scendere dal palco. Di venire qui, in una taverna, ad ascoltare uno come me senza prendere appunti per Twitter. E di ricordarsi che la politica non è un’identità, è un conflitto.”
Si alza, prende la bottiglia.
“Il 2026 non sarà un bell’anno per loro. Ma non perché vince la destra. Perché loro hanno smesso di capire perché esistono.”
Fuori la nebbia è ancora più fitta. Dentro, il lambrusco è finito. E Giorgio, vecchio comunista senza partito, resta seduto come un reperto vivo di una storia che la sinistra ha deciso di archiviare, senza nemmeno leggerla fino in fondo.




