Mrs. Dalloway fu pubblicato a Londra nel 1925 e segna una cesura nell’ambito del filone narrativo inglese tradizionale, adottando la tecnica del flusso di coscienza (stream of consciousness).

Il romanzo aveva avuto una fase di gestazione durata alcuni anni e, sembra, iniziata dopo la lettura dell’Ulisse di Joyce che era stato accolto dall’autrice con una certa perplessità. Le analogie si colgono abbastanza facilmente: unità di luogo – Londra – e di tempo – i fatti narrati, tipici della quotidianità, si svolgono nell’arco di una sola giornata. Woolf non viene tuttavia meno al proprio programma ideale e teorico che vedrebbe l’opera del romanziere completo quella che riesce a bilanciare l’aspetto “psicologico” con quello “poetico”. Sui romanzieri che interpretano più compiutamente il primo aspetto (James, Dostoevskij, Proust) Woolf si mostra sempre piuttosto prudente. Il romanzo dovrebbe mettere chi legge al confronto con il reale, ma contemporaneamente tramite la mediazione dello stile, pone tra noi e la realtà una barriera. Il bilanciamento di cui si è fatto cenno è consistito per Virginia Woolf, durante tutto l’arco della sua carriera, nell’alternare alle sue opere maggiormente poetiche altre più dense di oggettività.

Il romanzo Mrs. Dalloway emerge in effetti come opera di sintesi da alcuni racconti – leggendo il Diariosi rintracciano i passi più significativi di questo processo – incentrati sulla figura della Signora Clarissa Dalloway. Specifica la Woolf che nella prima versione il personaggio di Septimus non esisteva. Septimus Warren Smith è un uomo travolto e sconvolto dall’esperienza brutale e traumatica della guerra. La sua follia dapprima incipiente e poi progressiva lo porta al suicidio sotto gli occhi della moglie Rezia, spensierata italiana conosciuta da Septimus a Milano durante il conflitto bellico. Clarissa Dalloway – la cui giornata viene descritta mentre è intenta ai preparativi per il ricevimento organizzato per la sera – riceve la visita di Peter Walsh, di ritorno dalle Indie; Peter è un amore giovanile, respinto per approdare al matrimonio con Richard Dalloway, certamente portatore di maggiore sicurezza e inserimento sociale.

Questa visita suscita nella signora Dalloway un flusso di ricordi e di riflessioni sulla propria vita e, forse soprattutto, di interrogativi rimasti senza risposta. Abbiamo poi l’incontro tra Richard Dalloway e Lady Bruton, dama ricca e prepotente ma con posizione decisamente prestigiosa e influente. L’occhio critico e di disprezzo per la società ricca e frivola viene dalla signorina Kilman, amica e insegnante di storia della figlia di Clarissa, Elisabeth. La signorina Kilman è rigidamente cattolica, il suo atteggiamento critico è affascinante agli occhi di Elisabeth, ma del tutto incomprensibile a quelli di Clarissa, che non conosce margini di diversità rispetto all’ambiente che si è costruita attorno e che le è indispensabile per vivere. La signorina Kilman, pur invitata, non parteciperà al ricevimento. Al momento della festa, un meritato successo per Clarissa Dalloway, tutto è perfetto e l’arrivo dei prestigiosi ospiti è ancora occasione per aggiungere su ogni personaggio un ultimo tocco descrittivo da parte dell’autrice, sempre attraverso gli occhi della sua protagonista.

Tutto si svolge nell’arco di una giornata, ma i livelli della narrazione sono molteplici e passato e presente tendono a sovrapporsi senza mai confondersi. Il monologo interiore conduce a una dilatazione del tempo nel quale si collocano gli episodi vissuti nell’attualità del momento insieme a quelli richiamati alla memoria e, spesso, anche a quelli immaginati come frutto di una riflessione sul passato.

Il processo astrattivo è però sempre bilanciato dall’abilità nella descrizione di Londra e delle sue strade. Il notissimo incipit del romanzo «La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei» ci comunica che il percorso per le strade di Londra ha un fine, una meta. Ma questo percorso è continuamente interrotto da deviazioni secondarie, vicoli e anfratti che si frappongono tra l’obiettivo pensato e la mente di Clarissa stessa. Il dipanarsi per le vie londinesi sembra parallelo al corso dei suoi pensieri, dei suoi ricordi; così si concretizza quel “flusso di coscienza” al quale ho fatto cenno e che percorre, se pure in maniera molto diversa, anche il personaggio di Septimus. Per entrambi, e per ragioni opposte, il futuro sembra non contare affatto, sovrastato come è dalle traumatiche aperture sui ricordi.

Attraverso la sempre magistrale descrizione dei personaggi che intersecano questi passaggi – oltre a quelli già citati val la pena ricordare almeno la figura di Sir William Bradshaw, il medico che conflittualmente cura Septimus – si giunge all’incontro delle linee, forse principali, della narrazione, quella del reduce che non riesce a metabolizzare le brutture belliche e quella della donna di mondo, apparentemente vacua e superficiale. Ma queste linee, di sanità e follia, di vita e di morte, non sono così nette e la loro contrapposizione astratta è relativa e tortuosa.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.
Lucy ne aveva fin che ne voleva, del lavoro. C’era da levare le porte dai cardini; e per questo dovevano venire gli uomini di Rumpelmayer. “E che mattinata!” pensava Clarissa Dalloway “fresca, pare fatta apposta per dei bimbi su una spiaggia.”
Che voglia matta di saltare! Così ella s’era sentita a Bourton: quando, col lieve cigolar di cardini che ancora le pareva di sentire, aveva spalancato le porte-finestre e s’era tuffata nell’aria aperta. Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa di questa era quell’altra aria, di buon mattino; come il palpito di un’onda; il bacio di un’onda; gelida e pungente eppure (per la fanciulla di diciott’anni ch’ella era allora) solenne: là alla finestra aperta, ella provava infatti un presagio di qualcosa di terribile ch’era lì lì per accadere; e guardava ai fiori, agli alberi ove s’annidavano spire di fumo, alle cornacchie che si libravano alte, e ricadevano; e rimaneva trasognata, fino a che udiva la voce di Peter Walsh: “Fate la poetica in mezzo ai cavoli?” – così aveva detto? – oppure: “Preferisco gli uomini ai cavolfiori” – aveva detto così? Doveva averlo detto una certa mattina a colazione, quando lei era uscita sul terrazzo… Peter Walsh! Sarebbe tornato dall’India quanto prima, a giugno o a luglio, ella non rammentava più, ché le sue lettere erano disastrosamente monotone. Erano i suoi motti che vi si imprimevano in mente; i suoi occhi, il suo temperino, il suo sorriso, la sua orsaggine e, quando milioni d’altre cose erano interamente svanite – strano davvero! – poche parole, come quelle a proposito dei cavolfiori.

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