La scuola dell’esperienza
di
Pietro Thouar
tempo di lettura: 19 minuti
I
Io conterò cose vere, e colpe solite pur troppo, ed una egregia virtù di oscura donnicciuola; ma tacerò i nomi veri ed i luoghi, sostituendone altri immaginati, non tanto per sottrarre al biasimo chi lo ha meritato, quanto per rispettare la modestia di chi è degno di molta lode.
Riccardo, figliuolo unico di agiati possidenti nel remoto castello di Montevago in Toscana, fu da essi mandato giovinetto alla capitale perché ivi imparasse, come dicevano, le buone creanze, e in ogni più lodato sapere s’ammaestrasse. Gli fecero copioso corredo di biancherie e di vesti, gli impinguarono di belle monete la scarsellina, molto lo raccomandarono ad una famiglia con cui avevano lontana parentela e antica amicizia; e di nulla temendo, perché il figliuolo mostrava indole buona e perché erano gente semplice e ignara delle arti corruttrici di una società depravata, si tennero contenti del fatto loro.
Godevano i poveretti in leggere e rileggere le buone nuove che i parenti davano loro dell’amato Riccardo e le descrizioni che questi faceva delle belle cose vedute, degli studi a cui con tutto l’animo si poneva, dei divertimenti che a ricompensa della durata fatica ei s’andava prendendo.
Quando poi al sopraggiungere delle feste di Pasqua e al tempo delle vacanze autunnali Riccardo tornava a casa, era per tutti una gioia da non si dire. Il padre e la madre piangevano di consolazione a vederlo sano, florido, allegro, vestito con eleganza, svelto e garbato, rimanevano estatici a udirlo parlare con eloquenza di tante e tante cose; sfoderare una dottrina che pareva loro prodigiosa.
Il castaldo applaudiva a tutto quello che i padroni ammiravano nel signorino; e la vecchia fantesca, l’amorosa Marianna, ne gongolava.
Questa donna che aveva già passato la settantina, era entrata in quella casa fin dalla sua fanciullezza quando vivevano i nonni di Riccardo, aveva veduto nascere il padrone, era stata per così dire, la di lui seconda madre, tenendolo in collo e assistendolo nei primi suoi passi, e nelle malattie; e quando ei prese moglie fu fatta cameriera della sposa; e quando nacque il sospirato primogenito ebbe per lui le stesse cure, lo stesso affetto che pel padre. Potete figurarvi se i genitori di Riccardo le volevano bene e se ella lo meritava, sì per l’affettuosa ricordanza dei vecchi padroni buon’anima, sì pei servigi da lei resi ai giovani e per tutte l’eccellenti qualità che aveva.
Sebbene fosse affatto incolta, perché nata e cresciuta in un misero villaggio dove niun altra persona che il parroco sapeva leggere e scrivere, tuttavia per la naturale svegliatezza d’ingegno era capace di fare egregiamente le parti di esperimentata massaia; e perciò a lei avevano sempre lasciato tutte quelle cure domestiche per le quali non fosse proprio necessaria la opera del padrone. Ella aveva le chiavi della guardaroba, della cantina, della credenza, di tutto, ella, da sé medesima, dopo aver visto lavorare una sarta, aveva imparato a tagliare e cucire le vesti da donna e da uomo; ella abilissima a stirare, a rimendare, a cucire la biancheria; e con tutto ciò non aveva mai sdegnato di continuare le sue prime e più ordinarie faccende di far da cucina, di fare il pane, di fare il bucato, di aver cura dell’orto, del pollaio, d’ogni cosa. Insomma la era, si suol dire, una di quelle donne impagabili che sanno far tutto, che mai si stancano, che nulla pretendono, che s’affezionano alla famiglia dei padroni come se fossero dello stesso sangue. E con tanti meriti era modesta, sempre sottomessa ai superiori, amorevole con l’inferiori, di poche parole, discreta a segno che fino il tenue stipendio a lei destinato lasciava bene spesso nelle mani del padrone. Non aveva al tempo della infanzia di Riccardo, altri parenti che una sorella; e questa che era stata cameriera di una ricca signora, essendosi anch’ella meritata la stima e l’affetto della padrona, aveva avuto, alla morte di lei, un lascito di qualche valore ed una pensione. Ma poco di poi morì anche la cameriera, ed ogni suo avere pervenne alla sorella. Così la Marianna possedeva un capitaletto in denari ed in gioie, ed era non solamente larga dispensatrice delle elemosine dei padroni sì ai poveri del villaggio che a quelli della campagna, ma faceva bene spesso occulte e fiorite elemosine anche del suo, e tutti, chi la conosceva, le volevano, com’è naturale, un gran bene.
Anche Riccardo amava senza dubbio la Marianna; ma in parte per l’assuefazione, che negli animi più gentili soltanto serba sempre alle cose tutto intero il lor pregio, in parte a motivo della giovanile spensieratezza, e sopratutto per le lunghe assenze da casa e per le nuove cose vedute, ei non la sapeva estimare abbastanza, non si ricordava dei servigi da lei fatti alla sua famiglia e a lui medesimo; insomma, a poco a poco, giunse a tenerla in conto di poco più che di semplice fantesca.
Ella se ne accorgeva e se ne affliggeva in segreto; ma non lasciava per questo di essergli affezionata, come quando lo teneva in collo, e di dar mano ai genitori in tutte le più affettuose cure che avevano per lui e quand’era lontano e quando tornava a passar qualche giorno in famiglia. E ormai senza di lei, che cosa avrebbero potuto fare? Tanto più che ambedue erano buoni sì veramente, ma non accorti né operosi gran fatto, forse appunto perché avevano sempre avuto in casa quella singolare ed esperta esistenza della Marianna; ed oltre a ciò la madre, essendo di temperamento gracilissimo e di malferma salute, passava il più del tempo tra il letto e il lettuccio, ed il marito, di null’altro sollecito che della coltivazione delle sue terre e dei piaceri della caccia, ogni rimanente cura lasciava al castaldo e alla Marianna.
Da tutto questo avveniva che i semplici genitori di Riccardo non potessero giudicare se l’educazione e la istruzione acquistata dal figliuolo nella capitale, fossero, per così dire, di buona lega. Rimanevano subito presi delle belle apparenze e con esse appagavano quella vanità che li aveva consigliati a mandarlo a dirozzarsi nella capitale, perché ormai a parer loro, aveva tanto di patrimonio da poter fare il signore per tutto, e menar donna di qualche illustre casata.
La Marianna, a dir vero, dopo le prime visite di Riccardo a Montevago, incominciò a non bevere grosso quanto i genitori sul conto dei costumi e del sapere del padroncino; ma, poveretta, non le dava il cuore d’affliggerli con qualche dubbio molesto; e temeva anche d’ingannarsi, e rampognava sé medesima del volere ella, inesperta quale si reputava, giudicare dei portamenti e degli studi di un giovane educato in Firenze.
Fatto è che intanto Riccardo aveva incominciato a spendere fuori di casa molto più di quello che ai genitori in sulle prime fosse paruto potergli abbisognare; le sue visite a Montevago si andavano man mano diradando e appena giunto lassù non vedeva l’ora di tornarsene, com’ei diceva, ai diletti suoi studi, sicché ricevuto il gruzzolo dei denari, voltava le spalle alla rustica dimora degli antenati; e non si addimostrava più, quale un tempo, tutto giulivo ed affabile, ma sì era taciturno, burbero, e qualche volta sgarbato e insolente.
Non istette molto la madre ad accorgersi di questo mutamento del giovine; e se ne afflisse prima tra sé e sé, poi con la Marianna la quale si studiava di confortarla, sebbene da maggior timore fosse angustiata. Nel padre durava sempre l’effetto delle apparenze che lo avevano affascinato lusingando la sua ambizioncella di provinciale denaroso, e smaniante di veder salita in signoria la famiglia. Per la qual cosa egli attribuiva la taciturnità del figliuolo ai più gravi pensieri del giovine che gli sembrava oramai addivenuto un’arca di scienza, credeva che i modi altieri e sprezzanti fossero naturale conseguenza dell’essersi egli assuefatto a vivere con persone d’alto affare; e non si meravigliava poi tanto delle spese fuor di misura cresciute, figurandosi che non ci volesse meno ad un giovine per apparecchiarsi amici illustri e protettori potenti che lo aiutassero a suo tempo a conseguire impieghi ed onorificenze nello Stato.
Misero padre, se avesse potuto sapere quali fossero le vere cagioni dei pensieri, delle spese, dell’alterigia del figliuolo! E meno male per quella famiglia, se giungendo il padre a conoscere il vero, avesse avuto capacità, forza, tempo, di riparare gli errori di uno scapestrato quale pur troppo era divenuto Riccardo!
Così è, Riccardo, sedotto subito dai godimenti della capitale s’era abbandonato a quelli senza riflettere a nulla, senza potersi moderare; i parenti che lo avevano ospitato crederono di far bene lasciandolo in sulle prime sfogarsi a sua posta, e quando vollero frenarlo era ormai troppo tardi: indi parte per mal consigliata compassione dei parenti, parte perché erano alquanto venali, e non volevano perdere il guadagno della buona dozzina pagata loro dal ricco provincialetto, lasciaron correre, e nascosero al padre lo scioperato vivere del figliuolo, e si unirono a questi nell’ingannarlo con false notizie dei suoi portamenti.
(Continua)
II
Gli studi del male arrivato giovine consistevano dunque nell’andare ai teatri, alle feste, ai caffè, ai passeggi; suoi amici furono i giovani sfaccendati, gli zerbini, i parassiti in erba, i più sciocchi, i più spavaldi che fossero tra i signoretti della Capitale. E quando fu in età da potersi imbrancare coi libertini matricolati ed in guanti bianchi, presto divenne emulo dei più sfrontati tra essi, e vittima dei più malvagi, lasciandosi perfino miseramente signoreggiare dalla funesta passione del giuoco. Ed ecco i tardi rimorsi, le dispettose invidie, i debiti, e perduta la stima di sé medesimo, e la serenità dell’animo, e spento in lui ogni onesto e gentile affetto.
Quando i suoi errori lo avevano già ridotto a sì mal termine che sarebbe stato impossibile occultare ogni cosa, il cielo ebbe forse compassione della sua madre infelice, volle risparmiarle il dolore di veder confirmati i suoi timori, perché una malattia più grave delle altre le tolse in pochi giorni la vita. Riccardo non giunse in tempo a Montevago per dare l’ultimo addio alla moribonda sua madre: certe corse di cavalli che appunto allora venivano fatte con grandi apparecchi e sfoggio di lusso e scommesse di molto valore, e per le quali egli era in faccende gl’impedirono di accorrere lassù appena ebbene avuto la dolorosa notizia. Trovò il misero padre fuori di sé dall’afflizione: sparse insieme con lui lacrime sincere: per poco il dolor filiale ravvivò nel suo cuore i sopiti affetti; la voce della coscienza si fece udire a rampognarlo della vita scioperata e colpevole fino allora tenuta, dello scellerato inganno con cui tradiva sì crudelmente le speranze di quel troppo semplice e troppo credulo padre. Ma fu un lampo; le lettere dei malvagi seduttori che temevano di perdere la facile preda lo distolsero subito dai buoni proponimenti; e lasciando il padre sempre oppresso da inconsolabile angoscia tornò alla città! La vecchia Marianna, a motivo degli strapazzi sofferti, delle notti vegliate per assistere la padrona, aveva dovuto cedere al volere del medico, e mettersi in letto; e sebbene all’arrivo di Riccardo avesse voluto levarsi, le forze le erano mancate; appena posto piede in terra s’era svenuta… Ma che? Riccardo s’era forse dimenticato affatto di lei; o non sentì nulla quando il castaldo od altri ne ragionaremo o non si curò di averne contezza, e tornò via senza averla veduta.
La buona Marianna che non poteva figurarsi tanto ingrata e inumana dimenticanza, s’immaginò che fosse dipeso dall’impeto del dolore, e si contentò di dire tra sé: povero giovane, va compatito!
Era d’estate; Riccardo aveva fatto disegno d’andare con alcuni dei suoi nobili amici a visitare un luogo di bagni, dei più celebrati in Europa, dove i forestieri accorrono da ogni parte non già per cura della salute, ma per cercarvi nuovi spassi, per provarsi a cacciare la noia che perseguita per tutto chi è troppo avido dei piaceri. L’elegante provinciale aveva bisogno di dare l’ultima mano alla sua educazione signorile; ci voleva la istruzione del viaggiare; alla scuola degli stranieri soltanto avrebbe potuto fare sparire del tutto quella po’ di ruvida scorza di terrazzano che gli era rimasta. Il che significava, nella lingua arcana di que’ tali amici, che essi volevano avere il merlotto in loro piena balìa per finire di strappargli tutte le penne. La morte della madre fu nuovo argomento ad affrettare la sua partenza, perché, dicevano gl’ipocriti scellerati, il povero figliuolo ha bisogno di svagarsi; dobbiamo toglierlo all’aspetto desolante di un lutto di famiglia; aiutarlo a vincere l’afflizione d’una sventura irreparabile. Gli stessi pretesti degl’insensibili e dei codardi che fuggono all’aspetto della disgrazia perché il loro troppo tenero cuore non reggerebbe a tali prove!
Riccardo scrisse al padre una lettera piena di così fatte ipocrisie e gli chiese i danari pel lungo viaggio consigliatoli sopratutto come ci diceva, dai medici. Il pover uomo, abbandonato e tradito, non indugiò a fare la volontà del figliuolo, e certa buona somma di denari da lui destinati a migliorare i poderi con nuove coltivazioni, servì invece ad affrettare la rovina del figliuolo, ad empire le tasche dei libertini che lo conducevano sull’orlo del precipizio.
Le prime visite di Riccardo al casino di giuoco dei famosi bagni, gli addivennero altremodo funeste perché due o tre volte vinse rilevanti somme, e i suoi pregi di bello aspetto, di squisiti modi, e massime, e piuttosto quello solo, di fortunato giocatore gli procacciarono nuove invidiate amicizie di gentiluomini e di gentildonne.
Come abbandonare un luogo dove aveva incontrato tante buone venture, dove aveva acquistato così splendida gloria? Fu degli ultimi a partire dai bagni, e per compiere secondo ogni buona regola il suo noviziato, dové lasciare sul campo della onorata lotta le armi conquistate e le proprie, perdere, cioè, in pochi minuti i denari vinti ed i suoi senza che gli rimanesse un picciolo per pagare i debiti e per tornare a casa. Faceva capitale degli amici che lo avevano con tanta cortesia disarmato, ma essi erano già velocemente portati sulle morbide poltrone dei primi posti nelle carrozze a vapore, quali a levante quali a ponente.
Com’egli aveva lasciato la casa paterna senza mandar nemmeno un saluto alla vecchia Marianna, così coloro s’erano dileguati dal suo cospetto senza dirgli a rivederci né addio. Sapevano che la fattoria di Montevago era smunta e che non vi era da mettere a sacco altri fondi, e quindi non si curavano più dei fatti suoi. Il miserabile provincialetto rimase solo. Ma io sbaglio; ritrovò presto compagnia, i suoi fratelli di sventura, quelli che erano rimasti spogliati con lui, e che facevano capitale sul suo aiuto, e ve n’era d’ogni nazione. Sconsigliati! l’uno si affidava nell’altro, ma tutti doverono rassegnarsi a provvedere alla meglio da sé medesimi ai propri casi.
Quanto a Riccardo scrisse subito al padre chiedendo con grande istanza molti denari, e allegando infinite e straordinarie occorrenze. Intanto dava buone speranze ad alcuno dei più tribolati tra i suoi colleghi. Ahimè! le speranze svanirono presto. Venne la risposta: ma era una lettera col sigillo nero, scritta di mano d’altri; era il procuratore che gli annunziava la morte improvvisa del padre, che lo esortava a tornar subito a casa, e gli mandava solo quel tanto che potesse essergli strettamente necessario a pagare i debiti e a fare il viaggio, avvisandolo che il patrimonio era quasi al verde. Questa lettera fu per Riccardo una testa di Medusa. Prima un impeto di sincero dolore per la morte del padre poi un abbattimento mortale all’udire il resto. I mal arrivati compagni capirono abbastanza da quel pallore, da quella immobilità, da quel silenzio, e un dopo l’altro se ne andarono a capo basso, con le mani in mano…
Tal dopo lunga e faticosa caccia
Tornansi mesti ed anelanti i cani
Che la fera perduta abbian di traccia.
Non così il locandiere, il quale imperterrito rimase lì ad aspettare la spiegazione di quel cambiamento di scena. Ma non era per lui un caso nuovo, e mentre faceva portare a Riccardo un bicchier d’acqua per aiutarlo a riaversi, si disponeva a contentarsi di esser pagato in parte con la valigia et reliqua del suo ospite. Non avrebbe avuto uno scrupolo al mondo, il valentuomo, di veder partire a piedi e in farsetto dalla sua locanda sontuosa colui che vi era giunto con tutto il corredo di un milordino. Al chiudere delle bagnature s’era già ritrovato più volte a simili metamorfosi.
Ma Riccardo poté pagare lo scotto, non senza la tara peraltro, che in tali estremi l’oste sapeva fare di necessità virtù, ed ecco il nostro afflitto e sventurato giovane rannicchiarsi nei terzi posti della strada ferrata e venir via nel più stretto incognito col tettino del berretto sugli occhi e il naso nascosto dal bavero del paletot.
Giunse a Firenze; s’abboccò col procuratore, che era sì veramente, mi dispiace che sia necessario notarlo, un procuratore onesto; ebbe la conferma di tutte le dolorose notizie contenute nella lettera; e fece proposito di metter giudizio per non aversi a trovare costretto di finire la sua educazione in un ospizio di poveri.
Avrebbe potuto mettersi ad imparare qualche cosa per guadagnarsi onestamente un tozzo di pane; ma gli parve troppo dura e difficil cosa, egli che non aveva mai fatto altro fino allora che baloccarsi da giovinetto e scorrere di divertimento in divertimento da giovane.
In sulle prime si rassegnò al suo stato, serbò qualche misura nelle spese, si contentò di parere il signorotto di prima, astenendosi dalle occasioni di mostrarlo col fatto; ma appena che il procuratore ebbe sistemato le sue faccende, in guisa che qualche assegnamento gli rimaneva, tornò a cedere alle solite tentazioni, ricadde nelle insidie tesegli dai falsi amici, e il non sapere che cosa fare di sé l’ozio, la noia, l’ambizione, lo trascinarono passo a passo a far getto anche di quel poco che gli era rimasto.
Ogni volta che i suoi modici assegnamenti erano in poco d’ora svaniti, scriveva al castaldo gli mandasse denari a ogni costo; vendesse le raccolte in erba, cercasse imprestiti, si disfacesse anche di qualche campo. Non valevano le esortazioni del procuratore, non le rimostranze del castaldo, non le evidenti prove della estrema ruina alla quale andava incontro. Alla fine i debiti nuovi che in niun modo poterono esser pagati lo costrinsero a fuggire e nascondersi a Montevago, altrimenti avrebbe dovuto passare dalla soglia della bottega di caffè nella carcere dei debitori insolventi.
Arrivò a Montevago, che pareva più morto che vivo; si chiuse in una stanza, e stette lì qualche giorno senza voler parlare nemmeno col castaldo. La Marianna ne pativa e studiava occultamente ogni modo di consolarlo; ma tutto era inutile.
Una sera, dopo l’arrivo d’una lettera del procuratore, Riccardo chiamò il castaldo, e prese a parlargli dello stato veramente deplorabile in cui si trovava.
— Prevedo di dover perdere ogni cosa — diceva. — Bisognerà vendere le ultime zolle che mi erano rimaste; e perfino questa casa… Pensate un po’ ai casi vostri, quanto a me… quanto a me, so io come finirla…
Ed aveva gli occhi stralunati, il viso più pallido del solito… faceva compassione a vederlo.
— Io — rispondeva il castaldo… — che cosa vuole che io faccia? Son vecchio; ma un po’ di forza mi rimane; anderò a opra dai contadini, e vedrò di cercarmi un posto di garzone in qualche fattoria… Ma quella povera donna della Marianna! È più vecchia di me, e si troverà ridotta a chiedere l’elemosina.
— La Marianna! E che cosa volete che io pensi alla Marianna? Si contenti d’aver mangiato a ufo per tanti anni alle nostre spalle. Che bisogno v’era egli di tenerla in casa? È stata una carità che abbiamo fatto finché si poteva. Ora ci pensino altri…
— Signore! — esclamò allora il castaldo facendosi animo — che cosa dic’ella? E non si rammenta dei servigi resi da questa donna alla sua famiglia ed a lei stesso? Pazienza se la non potrà impedire che questa povera vecchia si ritrovi senza tetto e senza pane; ma la non la tenga in quel conto che dalle sue parole parrebbe se la non vuol commettere una crudeltà e un’ingiustizia.
— Ella ci ha servito, ed è stata pagata. Basta così.
— No signore, non basta. La mi costringe dunque a palesarle che quando la mi chiedeva denari, quando la mi ordinava di vendere e vendere, ed io non avevo né quattrini né roba, la Marianna che mi vedeva in così brutto impegno e si affliggeva del suo stato, la Marianna, si signore, mi dava parte dei suoi quattrinelli, e così me li ha poi dati tutti, e si è spogliata per lei, e non voleva che io lo palesassi a nessuno. Ho taciuto finché ho potuto. Ma ora… Oh! ora non posso più stare zitto!
A queste parole Riccardo rimase profondamente commosso e pentito della sua vera ingratitudine. Stette muto alcun tempo cuoprendosi con ambe le mani la faccia su cui sentiva le fiamme del rossore. Poi, lasciandosi cadere sopra una sedia, esclamò: — Io sono scellerato! Ma come rimediarvi? Chiama la Marianna; io non ho nemmeno fiato di muovere un passo per andare in cerca di lei! Chiamala, che io le chieda perdono.
Il castaldo voleva dissuaderlo per timore che la Marianna lo rampognasse d’aver tradito il segreto; ma Riccardo si mostrò talmente commosso che alla fine il buon uomo credé fosse meglio obbedirlo. Andò in cerca della Marianna. Ma la vecchia non era in casa. Girò pel castello, non la trovò in nessun luogo; ne domandò a quanti poté, ma senza cavarne costrutto. Da ultimo un vetturale che tornava dal Borgo gli disse che due ore prima l’aveva veduta con un bastone sulla strada di Firenze qualche miglio distante dal castello.
Niuno sapeva immaginare perché la Marianna, che non si era mai dilungata un miglio da Montevago, si fosse posta in viaggio, e senza dir nulla a nessuno. Riccardo più che mai afflitto da questo caso, e costretto a tenersi nascosto, si sarebbe dato alla disperazione.
Il castaldo mandò alcuni contadini sulle tracce della vecchia; tornarono senza notizie di lei. Aspettarono un giorno, due, tre, e la Marianna non si vedeva. Il castaldo aveva già fatto proposito di andare a Firenze, quando allora giunse una lettera del procuratore, con la quale faceva sapere che la vecchia Marianna era in Firenze, in arresto per vagabonda e accattona e per sospetto di furto! La generosa vecchia aveva saputo che il suo padrone correva rischio d’esser messo in carcere per debiti. Ed ella tolto seco un antico gioiello di molto prezzo, l’ultimo suo rifugio, il miglior capo della eredità della sorella, era andata nascostamente a Firenze in cerca del procuratore di Riccardo, e con la speranza di liberare il padrone dalla carcere vendendo quella gemma. Ma la povera donna non era pratica della città, e aveva dovuto domandare a questo e a quello della casa del procuratore. Fu vista a quel modo stanca, polverosa, raminga dai Giandarmi. La interrogarono per chiederle conto dei fatti suoi; ed ella in parte per amor di nascondere il segreto del suo padrone, in parte per naturale temenza, non volle e non seppe dare discarico sufficiente. Allora la condussero al delegato, le trovarono involta con gran cura in un fazzoletto la preziosa gemma, e persistendo ella a tacere il motivo della sua venuta, fece nascere il sospetto che il gioiello fosse stato da lei rapito… Ma il delegato mosso da un sentimento d’umanità per la misera vecchia, e travedendo da alcune sue ingenue risposte che avrebbe potuto essere innocente, la indusse a confessargli che andava in cerca del tal procuratore; e allora ella acconsentì di palesare ad esso il motivo. Con tutto ciò era necessario che Riccardo si recasse immediatamente a Firenze per attestare della onestà della Marianna. Il procuratore aveva provveduto al modo che il suo cliente potesse andarvi senza pericolo. Egli non indugiò un minuto. La Marianna fu liberata; il suo generoso sacrifizio fu palese a Riccardo e al procuratore soltanto; e il valor del gioiello bastò a salvare dalla carcere e dall’estrema ruina lo sventurato.
La Marianna aveva sopportato quella grave peripezia con la intrepidezza di chi si espone ad un rischio per fare una buona azione, e se anco avesse sofferto più di quello che immaginare si possa, la contentezza d’aver raggiunto il suo fine le fece dimenticare ogni cosa. Solo le dispiaceva che, per cagione della sua inesperienza, non le fosse riescito di tenere occulto al suo amato padrone il servizio che aveva voluto fargli.
Per Riccardo poi fu una lezione troppo tarda, è vero, quanto al restaurare le sue sostanze ormai andate in dileguo, ma in tempo, ed era quello che più importava, in tempo, per farlo divenire un uomo onesto. Vendé tutto quello che gli era rimasto; finì di pagare i debiti; assicurò una pensioncella alla Marianna, senza ch’ella il sapesse, e rimase a fare il copista nello studio del procuratore. Il castaldo, per opera di questi, ebbe un impiego di sotto-fattore, e poté anch’egli assicurarsi un pane per la vecchiaia.
Se questa lezione potrà giovare anche a qualche sconsigliato giovinetto che fosse nel rischio di commettere gli stessi falli di Riccardo, non sarà vano averne narrata la storia, sventuratamente è da temere che molti si lascino come lui sedurre dai falsi piaceri, e traviare dai pessimi esempi, mentre niuno di essi potrà essere certo d’incontrare il soccorso d’una donna generosa e virtuosa quanto la buona Marianna.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La scuola dell’esperienza
AUTORE: Pietro Thouar
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti