Gli ubriachi

di
Salvatore Di Giacomo

tempo di lettura: 10 minuti


Quanto se n’avessero cacciato in corpo, dalle dieci di sera ch’erano arrivati sino alla mezzanotte vicina, lo sapeva soltanto il garzone del vinaio che all’ultimo, appena adocchiò don Michele che metteva la mano in saccoccia, s’accostò alla tavola come a volerci passare sopra lo strofinaccio.

— Quanto si paga? – disse don Michele, cominciando a contare i soldi.

Il garzone strofinando lo straccio sulle chiazze di vino si faceva il conto a memoria. E dopo un momento, senza levar gli occhi, rispose:

— Tanto; quarantotto soldi e la vostra buona grazia.

Vi fu un silenzio. L’altro rimaneva stupefatto. Aveva messo sulla tavola il mucchietto dei soldi e contemplava il garzone con gli occhi lagrimosi.

— Quarantotto soldi…. – mormorò, – quarantotto soldi!… Cioè…. fanno due lire….

— E otto soldi, – disse il garzone, – ci ho messo anche i sedani che avete mangiato.

— È troppo giusto, – sospirò don Michele.

Si mise a contar daccapo. Ora si frugava per trovar due soldi che mancavano. Rovistava nelle saccocce del panciotto, rovesciandone infuori la fodera, col petto stretto al taglio della tavola. Miche di pane secco, pezzettini di tabacco, delle medagline di rame, un mozziconcello di matita gli cadevano innanzi senza che i soldi ne venissero fuori. Lui, cercando ancora, s’impazientiva, con le mani tremanti che non avevano forza nelle dita.

— Dove li ho messi? – borbottava fra sè e sè, guardando, con le labbra strette, ne’ travicelli del soffitto come a volerli interrogare.

Dal banco, accarezzandosi il mento con la mano rossa ed enfiata, il vinaio ci pigliava gusto, ammiccando al garzone che ronzava con lo straccio fra mani e tirava, per ridere, a far scomparire di su la tavola il mucchietto de’ soldi.

— Guardate, – diceva don Michele, volgendosi attorno, – questa è nuova. Uno da un momento all’altro non si trova più il denaro addosso!…

Così dovette ridursi a svegliare il compagno che dormiva come se niente fosse, con le mani aperte sulle cosce e il naso fra lo sparato del soprabito.

— Eh? – fece quello, provando ad acconciarsi sulla panchetta. – Che è successo? Sognavo ch’era successo il tremuoto…

Vi fu una risata fra tutti. Lui guardava in giro, un po’ incollerito, un po’ mortificato. Lentamente, reggendosi allo spigolo della tavola, si chinò a raccattare il cappello che gli era caduto per terra e ci aveva messo un piede sopra come se fosse un cencio. Senza pensare a ripulirlo lo guardò a lungo con una attenzione stupida, girandolo da ogni verso. Poi se lo mise sul capo e disse:

— Ce ne andiamo?

— Un momento, – rispose don Michele, – qui mancano due soldi.

L’altro non capiva; s’era levato a stento, afferrandosi alla tavola con una mano, armeggiando con l’altra a casaccio come se cercasse qualcosa, a rischio di cavar un occhio alla bimba del vinaio che gli era venuta a ridere accosto. Poi ricadde a sedere e dette in un gran sospirone, allungandosi traverso.

— Sentite, compare, – ribatteva don Michele con la voce smozzicata, – ci vogliono due soldi…. Li avete due soldi…. eh?

— Che cosa? – borbottava l’altro senza muoversi.

— Due soldi…. per aggiustare il conto del vino…. E poi ce ne andiamo….

Il poveraccio gli fece cenno che gli frugasse addosso. Smaniava pel vino che gli saliva alla gola e non aveva forza di movere un dito. Alla fine, come Dio volle, don Michele riuscì a pigliargli quattro soldi dalla saccoccia dei calzoni, sudando come un cavallo. In quell’afa, nel romorìo di voci di cui lo stordiva l’unità chiassona e continua, il vino gli montava al capo co’ suoi fumi caldi e tremolanti. La cantina gli pareva soffocante, senz’aria, troppo illuminata e troppo irritante. Gli occhi gli s’imbambolavano, a ogni momento se li asciugava con la pezzuola, che su le gote accese gli metteva un dolce senso di frescura. L’altro, un cocchiere da nolo, che a prima sera avea messo dentro cavallo e carrozza, non trovava pace, ora che il sonno gli era stato spezzato così d’un subito.

— Sentite a me, – consigliava don Michele, – andiamocene a casa.

— Ora? – balbettò il cocchiere, – ma è presto.

— Scherzate? È mezzanotte…. Sì, è presto!… È mezzanotte, – diceva don Michele, facendo per reggersi in piedi. – E se non volete venire – minacciò, perdendo la pazienza – me ne vado solo e buonanotte.

Ma fuori, sotto alla porta aspettò che uscisse, appoggiandosi con le spalle allo stipite. L’altro, dopo un momento, venne fuori anche lui, aiutato dal garzone che se lo menava innanzi a spintoni puntandogli una mano fra le spalle.

— Don…. Michele!… – chiamò il cocchiere.

— Son qua, – disse lui, mentre nell’aria fresca gli battevano i denti e dei brividi gli salivano pel corpo, – mettetevi a braccetto.

Traballando gli prese il braccio e se lo ficcò a forza sotto al suo, serrandolo come meglio poteva fare. Il cocchiere, col cappello che gli era cascato su gli occhi, barcollava ch’era un piacere.

— Per dove…. andiamo? – mormorò.

— Di qua, sempre diritto…

Pigliarono per Foria, sfregandosi ai muri come gli asini. A ogni passo falso andavano a battere nelle porte chiuse delle botteghe. Innanzi a loro la via larga s’apriva, allungandosi a perdita di vista, biancheggiando sotto alla luce giallastra de’ fanali.

Era stato lunedì del carnevale e la gente in tutta quella giornata s’era sbizzarrita a buttarsi in faccia il gesso, come se non avesse fatto altro in tutta la vita. Gran bella porcheria! Ora in quella polveraccia bianca, che appena la si smoveva faceva venir la tosse a stianti, s’affondava sino alla caviglia come sulla via nuova. Alle botteghe le insegne erano screziate di bianco e pareva che di sopra ci fosse cascata su a goccioli la calce d’una imbiancatura alla facciata del palazzo. Qua e là, quando meno ci pensavano, a’ due compari si parava innanzi un mucchio di polvere e di spazzatura che li sviava, spingendoli l’uno addosso all’altro, nello stringersi che facevano.

Il cocchiere, cotto come un pulcino, s’era messo a parlar da solo e diceva un mondo di scioccherie, guardando per terra. Di colpo, trascinandosi dietro don Michele, si chinò e prese una manata di gesso.

— I coriandoli!… – borbottò con voce rauca. – Oggi è carnovale…. Ah! caspita!

— Nossignore, – protestava don Michele, che s’accorse della mala parata. – È finito carnovale…. È finito.

— Oggi…. è carnovale, – rideva il cocchiere, barcollando.

E d’un subito gli sgusciò di sotto al braccio, levando il pugno. Don Michele fu colpito in faccia, alla mascella. Il gesso gli scese giù pel colletto nella camicia, lasciandogli sopra la spalla una gran macchia bianca.

Il cocchiere rideva a rantoli. S’era accoccolato in mezzo al marciapiedi con le mani sui ginocchi, e si godeva la bravata.

— Questa non si fa, – disse don Michele passando sulla faccia la manica del soprabito, – lasciate stare il gesso che fa male agli occhi….

L’altro, raddrizzandosi, pigliava nell’ubbriachezza un’aria spavalda. Gli s’accostò barcollando e, col fiato puzzolente, le braccia penzoloni, gli si venne a metter sotto al muso:

— Ebbene, – borbottava, – vi siete offeso?… Vi siete offeso?…

— Andiamo, – fece don Michele, tornando a stringerselo sotto al braccio.

Quello si lasciò fare, mormorando. Tirarono innanzi fermandosi a ogni quattro passi, ragionando ognuno per suo conto. Nella via deserta don Michele, senza saper come, si mise a raccontare le prodezze della sua gioventù, affastellando bugie come più gli capitavano. Il cocchiere ascoltava, interrompendolo a monosillabi.

— Una volta, – diceva don Michele, – io quando facevo il soldato…. Se sapeste che fatti potrei dire…. Vi ricordate la guerra di Crimea? Mio padre ci stette…. Sentite il fatto del re di Russia coll’ambasciatore della Francia…. Sentite, voi?…

E come l’altro mugolava senza rispondere, seguitò:

— Il re di Russia aveva detto non so che parole d’offesa…. Venne l’ambasciatore e disse: Maestà vi voglio far vedere una cosa…. Va bene, disse il re di Russia, andiamo a vedere…. Voi sentite?

— Sissignore, – balbettò il cocchiere.

— L’ambasciatore se lo portò a braccetto al porto di mare e gli mostrò tanti bastimenti tutti pieni di soldati…. e tenevano i cannoni pronti e le miccie accese…. Compare, voi sentite?

— Sicuro, – rispose il cocchiere, – e poi?

— Perchè se non mi sentite è inutile parlare, – disse don Michele. – Disse l’ambasciatore: Maestà se vi movete spariamo tutti i cannoni contro la città.

— Sangue di Bacco! – urlò il cocchiere, interessandosi. – Bene…. e poi?

— Disse il re di Prussia: Ora venite con me, all’ambasciatore. E se lo portò a palazzo reale. Là c’erano più di centomila cannoni pronti a far fuoco e…. state a sentire…. lui disse all’ambasciatore: Vedi questi cannoni?… Sì, Maestà…. Sai che sei solo?… Sì, Maestà…. Ebbene, disse il re di Prussia, ora spara….

Seguì una parolaccia a cui fece eco un’esclamazione del cocchiere.

— Evviva! Bravo! – gridava costui, entusiasmandosi. – Così gli disse? Evviva! Evviva!…

— Che vi pare? – disse don Michele.

— Evviva il re di Prussia! – urlò il cocchiere con le braccia levate.

— Zitto…. per carità!… Mi volete far arrestare? – mormorava don Michele.

— Bella parola! bella parola! – gridava il cocchiere, trascinandoselo dietro. – Evviva!…

Fece due passi e cadde.

— Ah! compare! – esclamò don Michele, tirandolo per un braccio. – Non vi buttate per terra….

— Aiutatemi, – borbottava il cocchiere, brancicando.

Passavano delle signore; due che stavano a braccetto chiacchierando, si trassero indietro spaventate, e misero dei piccoli strilli di terrore. Poi scapparono, guardandosi indietro, come se li avessero alle spalle.

— Ah! mio Dio! mio Dio! – piagnucolava una, tenendosi stretta per mano una bimba incappucciata che le cacciava il capo fra le sottane.

Dei signori che le accompagnavano correvano dietro, rassicurandole. – Ah, davvero, era una cosa abbastanza sconvenevole veder degli uomini che si gettano per terra, in mezzo a una via pubblica, per dove la gente passa all’uscire del teatro! – E come il più giovanotto si dava assai da fare, e strepitava per la paura che s’eran pigliata le donne, e a forza voleva chiamare una guardia, un vecchietto che andava con loro disse che lasciasse stare, perchè era l’ultimo giorno di carnevale e per un anno si sarebbe rimasti in pace.

Laggiù, sotto una bottega, i due continuavano a questionare come se stessero a casa loro. Da lontano le signore si voltavano ancora a guardarli, affrettando il passo. Era una macchia nera che a volte si moveva comicamente sul gran bianco del marciapiedi, e a volte, nel silenzio, un’esclamazione rauca che metteva loro i brividi addosso.

Il cocchiere s’era steso addirittura a terra e non voleva saperne di tornare a casa. Tutto il corpo gli si era intorpidito, balbettava parole confuse e rotte, con la lingua grossa che gli pesava, girando il capo da ogni verso. Don Michele, poveretto, perdeva il fiato a volerlo persuadere. Gli si chinava all’orecchio, lo tirava pel braccio, impietosendosi.

— Ah! compare, – lamentava, – che m’avete fatto, compare mio!…

Provò a sollevarlo e gli cadde sulla pancia. Il cocchiere mise un urlo di dolore, bestemmiò sottovoce e non si mosse più.

Don Michele, annaspando con le mani nella polvere, s’afferrò alla colonnina del fanale per rimettersi in piedi.

— L’ho ammazzato…. – mormorò. E fu preso da un terrore improvviso.

Gli tornò accosto e lo scosse, dolcemente.

— Compare…. compare…. v’ho fatto male?

L’altro sospirava; ora il vino gli diventava nero, tanto che, di colpo, si mise a piangere come un vitello.

— Gli ho fatto male, – balbettò don Michele, udendolo singhiozzare a quel modo che faceva proprio compassione.

Poi, all’improvviso, fu preso da un impeto d’egoismo.

— Ora me ne vado e lo lascio solo, – pensò, guardandolo mentre si lamentava ancora e balbettava nel pianto.

Così, pian pianino, s’allontanò, voltandosi indietro a ogni passo. Ora nella strada si faceva un silenzio profondo; lui s’aspettava da un momento all’altro di vedersi capitare addosso i carabinieri. Per questo rasentava i muri, cercando l’oscurità e l’appoggio. A volte uscendo dal buio la sua ombra si disegnava a terra, dondolandosi come la campana del Carmine quando suona a morto. Allo svolto, nel chiarore d’un fanale che gli faceva veder doppio, inciampò, sbattendo le mani all’aria.

Poi daccapo rientrò nel buio che per buon tratto si fondeva su i muri, nel vicoletto. Parlava solo, pensando ancora al compare abbandonato laggiù in mezzo alla via.

— Io? – mormorava, figurandosi di dover rispondere del cocchiere a qualcuno. – Ma io non lo conosco!… Com’è vero Dio non lo conosco…. Lui è caduto e s’è fatto male…. Come si chiama?… E se io non lo conosco?… Che vi posso dire?… È stata una disgrazia…. è caduto e s’è fatto male…. È ubriaco…. È un porco…. Ha bevuto quattro litri…. Così ha detto lui…. Chi ne sa niente? Signor brigadiere…. Se mi credete…. Sull’onore della mia famiglia….

Si fermò, parlando a un muro, nell’ombra. Ora il silenzio era grande, nessuno passava. Si tolse il cappello, salutando; poi fece spallucce e si rimise in cammino. E continuò a negare:

— Non lo conosco! Ma a forza mi dev’esser compare?… Ma se io non lo conosco!…

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Gli ubriachi
AUTORE: Salvatore Di Giacomo

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle napolitane / di Salvatore Di Giacomo ; prefazione di Benedetto Croce - Milano : F.lli Treves, 1919 - XI, 324 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici