La sarta delle bambole
di
Charles Dickens
tempo di lettura: 29 minuti
I
Vicino al piccolo paese che porta il nome di Millbank, e appunto nel sobborgo di quella grande capitale che è Londra, v’è una strada stretta chiamata Via della Chiesa, e una piazza, che si chiama Piazza Smith. In quella strada e su quella piazza vi sono molte case che rendono ben poco, e in una di esse abitava appunto la donnina piccina piccina di cui vi narrerò la storia.
Essa aveva quasi quarant’anni nel tempo di cui parlo, e il suo vero uomo era Fanny Cleaver, ma era tanto gobba, aveva le gambe tanto stravolte; ed era alta appena come una bimba di sei o sette anni, e per questo si era messa da sé il nome di Giannina Scricciolo e così la chiamavano tutti. Piccina e zoppicante com’era, con quel visino strano, ma non brutto, coi grandi occhioni grigi, somigliava moltissimo l’uccellino vispo e solitario di cui aveva preso il nome.
La mamma di Giannina era morta da un pezzo ed il babbo era un vero ubriacone. Non potete figurarvi che specie di sventura sia per una famiglia, ricca o povera, di avere il babbo che ha il vizio di ubriacarsi; ma potete ben capire quanto soffrisse la povera Giannina, sola al mondo, senza amici all’infuori del suo buon cuore, della bella mente e delle abili manine. Che cosa può mettersi a fare per vivere una creaturina tanto infelice?
Essa scrisse un giorno a stampatello con una penna ben forte, su un pezzo di cartone bianco: Si affitta una camera, e appese quel cartello fuori della finestra, ma dovette aspettare più di quattro ore prima che qualcuno andasse a bussare all’uscio. Finalmente quello si spalancò, spinto dalla parte di fuori, e chi entrava nello stretto ingresso, vide attraverso all’uscio del salottino, Giannina Scricciolo seduta in un antico seggiolone, dinanzi ad una tavola da lavoro. Giannina guardava la bella signorina che stava sulla soglia di casa. — Non posso venirle incontro — le disse — perché sono gobba ed ho certe gambe tutte storte che fanno pietà, ma sono la padrona di casa, signora, e la prego di restar servita.
— Ha una camera da appigionare? — domandò la signorina. — Io mi chiamo Lizzie Hexam, e prenderei volentieri la sua camera.
— Sì, sì — disse Giannina tenendo fra i denti un pezzetto di cartone. — Si accomodi, ma prima vuol forse veder la camera? Non posso accompagnarla, perché sono tutta storpia, come vede.
Lizzie Hexam chiuse la porta e si mise a sedere. Per qualche istante essa fissò con sguardo compassionevole quella creaturina, che, lesta lesta ingommava col pennello i pezzettini di cartone sul legno sottile, già tagliato prima in più modi. Sulla tavola vi erano le cesoie, un piccolo temperino ben affilato e molti pezzi di velluto, di seta e di nastro di vari colori.
— Le sarei grata se sapesse dirmi qual mestiere esercito — disse la donnina guardando furbescamente la sua visitatrice di sottocchi.
— Fa i guancialini per le spille?
Giannina accennò col capo di no.
— Che cosa faccio? — domandò di nuovo.
— Fa i pulisci-penne?
— No! no! mi dica che cosa faccio? Scommetto che non lo indovinerà mai! — disse ridendo Giannina.
— Fa qualche Lavoro in paglia, ma non so dirle quale — rispose Lizzie appoggiandosi ad un angolo della tavola.
— Vada pei lavori in paglia! — esclamò Giannina — ma aspetti che glielo dirò io. Faccio guancialini e pulisci-penne, ma soltanto per uso mio; invece mi servo della paglia pel mio mestiere. Ora via, mi dica che cosa faccio colla paglia?
— Ne fa dei cappelli? — domandò Lizzie dopo aver riflettuto alcuni istanti.
— Sì, ne faccio cappelli elegantissimi per le signore… — disse Giannina con alterigia — per le signore bambole. Se vuol saperlo io sono sarta da bambole — e introducendo la manina in una tasca stretta stretta cavò fuori una carta e mostrandola a Lizzie: — Ecco legga!
Lizzie prese la carta e lesse:
Signorina Giannina Scricciolo
Sarta da Bambole
Va alle case.
— Spero che il suo mestiere renda bene? — domandò Lizzie sorridendo alla donnina.
— No, mi pagano male e spesso mi manca il tempo. La settimana passata una bambola che servo si maritò e per farle il corredo dovetti lavorare giorno e notte, ma creda pure, quegli strapazzi mi fanno male di molto, sono tanto gobba e stravolta! Eppoi bisogna che tenga sempre dietro alle mode per la biancheria e per i vestiti e quelle benedette mode cambiano ogni momento. Un’altra bambola che servo ha tre figlie, tutte e tre ambiziose da mandare in rovina qualunque marito.
Giannina rideva parlando e ogni tanto strizzava gli occhi a Lizzie e muoveva il mento come se mento e occhi lavorassero insieme ai vestiti delle bambole.
— È sempre tanto occupata? — domandò Lizzie guardando con ammirazione quei ditini piccini piccini che tagliavano, ingommavano e cucivano senza tregua.
— Ora non è nulla, anzi — rispose Giannina — perché ieri l’altro ho finito molti abiti da bruno grave per una bambola, che servo pure e che ha perduto il suo canarino.
Posò il lavoro, prese la gruccia che era appoggiata alla tavola e disse:
— Venga! le voglio far vedere la camera; non è grande davvero, ma è molto bellina, eppoi, gliela do per poco!
Salirono una scaletta segreta, stretta e breve e quando Giannina fu in cima, aperse un usciolino, ed entrò in una camera che pareva uno scatolino, tanto era piccina; ma era tutta pulita come uno specchio, la finestra dirimpetto alla porta aveva le tende bianche di bucato.
Lizzie la prese subito in affitto e ritornò insieme colla donnina nel salotto.
— È sola tutto il giorno? — le domandò — Non conosce punti ragazzi del vicinato.
— No davvero! — disse Giannina gettando un piccolo grido come se si fosse punta coll’ago. — Come può venire a me a parlare dei ragazzi? Io non li posso soffrire. So quanto sono birichini e crudeli! — Pronunziò queste parole col pugno alzato, in atto di minaccia e cogli occhi chiusi. — Corrono sempre addosso, spaventano e non sanno far altro che divertirsi, litigarsi, picchiarsi e burlarsi di tutti. E non è tutto! — aggiunse alzando come prima il piccolo pugno. — Chiamano le persone dal buco della serratura e fanno il verso ai gobbi ed agli storpi. Le dirò che cosa farei loro se potessi: ci sono delle porte nere alla chiesa dalla parte della piazza, quelle porte nere mettono nelle cantine buie. Aprirei una di quelle porte e ce li rinchiuderei tutti, eppoi dal buco della serratura soffierei dentro del pepe.
La donnina dovette chetarsi perché non aveva più fiato.
— Come farebbe a soffiare il pepe dal foro? — domandò Lizzie.
— Le pare già di sentirmi starnutire e spalanca gli occhi come se li burlassi attraverso al buco della serratura, nello stesso modo che essi burlano le persone. No no! ragazzi non ne voglio.
La nuova inquilina della piccola sarta capì benissimo che i ragazzi del vicinato, che erano sani e robusti e potevano divertirsi tutto il giorno, non si mostravano punto buoni e compassionevoli per la povera Giannina Scricciolo, che doveva soffrir tanto e lottare tanto per vivere.
In pochi giorni le due fanciulle fecero amicizia, Lizzie aveva diciotto anni e lavorava in una sartoria di marina dove venivano fatti molti e molti abiti per marinari.
Durante il giorno Lizzie era sempre a lavorare e Giannina sedeva al solito dinanzi alla tavola nel salottino, meno che quando, zoppicando ed appoggiata sulle grucce doveva andare dalla merciaia, e alle botteghe delle bambole o a casa dei molti baloccaj che serviva. Verso sera, quando cessava di lavorare, la piccola sarta si sdraiava nella poltrona colle braccia incrociate sul petto e cantava con voce dolce e malinconica attendendo Lizzie, la quale doveva tornare in breve dal laboratorio di Millbank e affrettava il passo per arrivare più presto in Via della Chiesa, alla casuccia dove era attesa con impazienza dalla piccola padrona che le voleva tanto bene.
— Ben tornata Lizzie — Mizzie — Vizzie — diceva Giannina cessando di cantare — che cosa c’è di nuovo alle porte?
— Che cosa c’è di nuovo alle porte? — ripeteva Lizzie introducendo la mano negli abbondanti capelli che crescevano lunghi e fitti sul capo della piccola sarta delle bambole. Se questa voleva prendere il thè, Lizzie sbrogliava il tavolino da lavoro, perché a quello Giannina sedeva più comodamente che davanti alla tavola da pranzo. Dopo cena, Lizzie prendeva Giannina colla poltrona e tutto e la portava vicina alla finestra perché potesse vedere la piazza, il tramonto e la città dall’altro lato. Qualche volta veniva un signore a far visita, uno di quelli che fornivano lavoro alla piccola sarta e che prendeva interesse a lei, oppure che aveva da ordinarle qualche cosa.
— Posso dire che queste sieno le ore migliori di tutta la giornata — disse Giannina una sera mentre era seduta nella penombra: poi continuò in tono dolce e affettuoso: — Qualche volta Lizzie quando son qui sola sola a lavorare nell’estate mi pare di sentire il profumo dei fiori. Non è un posto fiorito, lo sai, anzi tutt’altro. Eppure allorché lavoro tutto è profumo dintorno a me, come se sedessi fra migliaia di fiori. Sento l’odore delle rose e mi pare di vederle a mucchi, a mazzi fiorite dintorno a me e che non abbia che ad allungar la mano per coglierle. Odoro la maggese bianca e rossa delle siepi, eppure ho veduto così pochi fiori in vita mia, cara Lizzie — Mizzie — Vizzie!
— Deve farti molto piacere, mia buona Giannina.
— Sì, così parmi. E sento anche gli uccelli. Oh! — gridano essi! — guarda quella creaturina, posiamoci sulla sua mano. Senti come cantano?
E mentre Giannina parlava spalancava gli occhi, stendeva la mano, fissando Lizzie. Questa rimaneva silenziosa alcuni istanti, mentre il cuore battevagli a balzi.
Giannina — disse con voce diversa: — Ecco il mio bambino che torna a casa; il mio bambino cattivo che mi dà tanta pena!
Giannina parlava di quell’ubriacone di suo padre. Lo chiamava sempre il suo bambino. Il nome di “padre” era duro a pronunziarsi per la povera Giannina quando doveva accompagnarlo da rimproveri. Quello di “bambino” parevale le desse maggior pazienza per sopportare le sue pene.
— Non vorrei che tu vedessi il mio bambino — disse Giannina, e Lizzie salì in camera sua.
(Continua)
II
— Eccomi, Giannina mia! — disse tartagliando il vecchio mentre posava gli occhi sulla donnina seduta nella poltrona. E Giannina non pareva mai così piccina come quando era sola col padre. — Eccomi Giannina Scricciolo, la migliore delle figlie.
— Andate via! — esclamò la donnina con voce aspra e dura, mostrando il dolore e la vergogna che provava. — Andate nel vostro cantuccio. — E allungava le mani come se volesse impedirgli di avvicinarsi.
Quel babbo non era punto necessario a sua figlia. Le faceva soltanto provare immensa vergogna e dolore quando se lo vedeva dinanzi agli occhi colle gote coperte di macchie gialle e di macchie rosse scure, e le vesti così logore e stracciate che pareva impossibile gli potessero stare addosso. Allorché egli voleva mettersi la mano negli scarsi capelli grigi, faceva ogni sorta di movimenti prima di riuscire a toccarsi la testa.
Pensate che dolore di vedere un uomo rovinato in quel modo e di dover dire a sé stessa: — Quello è mio padre!
I ragazzi ridevano e schiamazzavano vedendolo barcollare per la strada, quando andava dalla zoppina che aveva la disgrazia di essere sua figlia. Ma la povera Giannina Scricciolo non rideva né schiamazzava davvero!
Essa accennavagli la sedia accostata alla parete più distante da lei, ed il vecchio andava a sedervisi, facendo due e tre traballoni.
— Ragazzaccio! — esclamò Giannina con voce affannosa. — Lo so quando venite! Eh, vi aspettavo. Quando avete quasi finito il denaro, tornate per averne dell’altro. Datemi ciò che avete — disse stendendo le mani verso la seggiola. — Datemi anche l’ultimo picciolo.
Giannina avrebbe potuto esprimersi più duramente ancora senza riuscire a fare arrabbiare il suo “bambino.”
Si frugò in tasca, facendo meglio vedere gli strappi del vestito e finalmente traballando andò verso Giannina e le porse poche monete spicciole.
— Non ci avete altro — domandò Giannina — È poco davvero.
— Non ho più nulla in parola d’onore.
Lizzie aveva udito gran parte di quella scena penosa dalla camera superiore e quando sentì che il padre saliva barcollando le scale per andarsi a coricare nella camera attigua alla sua, essa scese da Giannina col cuore pieno di compassione e di affetto.
— Perché sei pensierosa Giannina mia? — domandavale accarezzandole i folti capelli che le scendevano sulle spalle deformi e nascondevano nelle onde dorate tutto il corpicino della povera zoppa.
— Pensavo — disse Giannina sorreggendosi il piccolo mento colla mano — che vorrei rinunziare a lui se dovesse diventare un ubriacone.
Lui era il marito che la piccola Giannina sperava sarebbe andato un giorno o l’altro a liberarla dalle sue pene.
— Ma egli non vorrà doventar così — disse Lizzie amorevolmente. — Eppoi tu ci baderai dimolto.
— Sì, io cercherò di badarci soprattutto, ma sai Lizzie, potrebbe ingannarmi. Oh, mia cara, non potrei
sopportare di vederlo in quello stato. Gli farei molte brutte cose e troverei il coraggio…
— No, tu non potresti fargli nulla di male.
— Ebbene — disse la donnina dopo una certa pausa — tu hai
quasi sempre ragione Lizzie, ma tu non hai mai avuto un bambino cattivo, che ti facesse ammalare e ti togliesse le forze! — E la povera sarta delle bambole pianse appoggiata sulla spalla di Lizzie.
Un giorno Lizzie aveva vacanza e lei e Giannina andarono nel viale della città che costeggia la riviera. Lizzie teneva infilato nel braccio il panierino di Giannina, quando ebbero la fortuna d’incontrare un uomo che guidava un carro da trasporto, il quale vedendo quella donnina colle grucce, tutta avvolta nel manto dei suoi capelli biondi, fermò i cavalli e domandò rispettosamente a Lizzie se volevano salire. Così andarono in legno a Londra.
— Somiglia al mio buon compare — disse Giannina fissando il vetturale quando furono vicini alla via Santa Maria. — Il compare ha una bella faccia di vecchio con una lunga barba bianca.
— Come! — disse Lizzie sorpresa.
— Oh sì! E perché no? — rispose prontamente Giannina — Quest’uomo può esser figlio del mio compare. — Il vetturale fermò i cavalli davanti ad una casa gialla con le impannate dello stesso colore. Giannina bussò leggermente alla porta colla gruccia e un uomo vestito con un abito alla foggia antica, dalle lunghe falde e le ampie tasche, andò ad aprire.
— Oggi è festa, compare mio — disse sorridendogli — e vi ho condotto la mia Lizzie-Mizzie-Vizzie di cui vi ho parlato, vi rammentate? Il compare si chiama Riah — essa soggiunse, volgendosi verso Lizzie.
Il vecchio s’inchinò cortesemente dinanzi a Lizzie ed aiutò Giannina ad entrare in casa.
— Sono venuta per iscegliere diverse piccolezze — disse Giannina alludendo alle trine, ai nastri, alle perle e ad altri ninnoli che si vendevano nella bottega in cui era impiegato quel vecchio tranquillo.
Egli la invitò ad andare nella bottega, che era situata dietro alla casa, e quando Giannina ebbe scelto e pagato quello che le occorreva per cucire, disse:
— Ora compare mio, prendeteci sotto la vostra scorta. Noi facciamo una cosa ogni giorno e questa cosa si chiama mangiare un boccone, eppoi Lizzie mi legge. Venite?
Il vecchio la guardava con compiacenza e salì prima di lei al secondo piano e di là per la angusta scaletta fino al tetto…
Quando furono giunti lassù il vento accarezzava i folti capelli di Giannina.
— Come siete gentile signor Riah di averci fatto venir qui.
Era infatti un bel posto.
Una vecchia tenda di tela era stata tesa da un lato del fumaiuolo del camino e offriva un comodo riparo senza impedire la vista da nessuna parte. Un tappeto a colori vivaci era steso sul tetto sotto la tenda; attorno al fumaiuolo nericcio si arrampicava l’ellera, la quale insieme coi fiori abbelliva quel posticino e lo faceva rassomigliare ad un giardino fiorito.
Le fanciulle si sederono e invitarono il signor Riah a sedersi pure accanto a loro e gli offrirono frutta e crostini imburrati ripieni di carne. Era sul punto di prenderli, quando una voce asciutta e collerica come un ruggito, disse:
— Dove sei vecchio commesso?
— Il padrone mi chiama — disse il signor Riah, affrettandosi ad andare da lui.
— Il suo padrone? — disse Lizzie sorpresa.
Giannina scrollò la testa e parve afflitta.
— Povero compare — disse — è il buon mago per tutti! Giudica tu da questo posticino che ci ha preparato e dalla roba che mi vende. Lavora per altri, appunto come facciamo noi, e altri specula su di lui, appunto come altri specula su di noi, Lizzie-Mizzie-Vizzie. Non ho mai veduto il suo padrone, ma mi figuro che debba essere una bestia.
— Zitta! eccoli che vengono — disse Lizzie.
Il vecchio comparve sul tetto seguito da un giovane smilzo, con un musino da volpe.
Lizzie si alzò col libro in mano.
— Non posso venirvi incontro — disse Giannina sollecitamente — perché sono gobba ed ho tutte le gambe stravolte.
— Questo è il signor Fledgeby mio padrone — disse il signor Riah avvicinandosi a Giannina.
— Non vi distinguo facilmente signore — esclamò Giannina.
— Questa, signore — continuò il vecchio avvicinandosi sempre più — è la piccola sarta delle piccine. Spiega al signore che cosa fai Giannina. — Sono la sarta delle bambole — disse Giannina muovendo la schiena e gli occhi, come se volesse parere vecchia, astuta e saggia. — È molto difficile di fare stare bene quelle vesti, perché le bambole hanno il personale poco formato; non può credere quanto ci vuole a ad adattargliele addosso!
— Questa è l’amica, della piccina — disse; il signor Riah accennando Lizzie. — Due degne ragazze davvero, signor mio. Sono occupate dalla mattina alla sera e di tanto in tanto quando hanno un giorno di riposo, leggono un libro istruttivo.
— È meglio lavorare molto che non guadagnar nulla — disse il signor Fledgeby.
— Secondo! — esclamò Giannina con un sorriso astuto sulle labbra e nello sguardo.
— La conosco — disse il vecchio – perché la signora Giannina viene a comprare gli scampoli e se ne serve pei propri lavori.
— Essa ha comprato oggi tutto quello che è in questo paniere? — domandò il signor Fledgeby.
— Mi par di sì? — gridò Giannina sempre con un poco di malizia, — ho comprato e pagato tutto, molto caro.
— Mi lasci vedere che cosa ha preso — disse la faccia di volpe — quanto ha dato di tutto?
— Due preziosi scellini d’argento; ma posi il paniere lì davanti a me, mi faccia il piacere; è pagato — ripeté Giannina.
Egli posò il paniere difaccia alla donnina, non senza aver frugato prima dentro.
— Vuol comprare qualcosa signora?
— Nossignore? — rispose Lizzie.
— Vuol vendere qualcosa?
— Neppure signore.
Giannina mise la mano sul paniere e tirò Lizzie accanto a sé.
— Noi siamo venute qui per trattenerci. Là rumoreggia — disse accennando colla mano la città — e qui c’è spesso molto fumo — aggiunse toccando leggermente il fumaiolo grigio, accanto al quale era seduta.
— Ma è tanto alto e si vedono le nuvole ingolfarsi giù nelle vie strette e pare di esser morti.
— Che cosa proverebbe se fosse morta? — le domandò il signor Fledgeby sorpreso.
— Proverei molta pace e riconoscenza — rispose la donnina sorridendo — non potete lavorare, vi riposate e sentite esseri viventi che gridano e lavorano; che vociano nelle strade strette, oscure, romorose e avete pietà di loro, del fardello che portano ancora e vi sentite così calmi, così sereni!
Tutti la guardavano in silenzio.
— Appunto adesso — disse accennando il vecchio signor Riah — mi pareva di vederlo uscire dalla tomba: sbucava dall’oscuro abbaino del tetto, tutto richinato, ma acceso in viso e ardente, e quando prendeva fiato e si drizzava volgendo lo sguardo attorno pel cielo, e il vento accarezzava la sua barba, mi pareva di sentirlo fino richiamare in vita.
Disse queste parole con voce alterata e come se le rivolgesse maliziosamente al signor Fledgeby.
— Perché lo chiamano? Lo sanno pure che non è morto. Tornate a vivere? — E alzava il piccolo indice della destra in segno di comando e volgeva la testolina scuotendo i folti capelli.
In quel momento pareva un uccellino astuto dalle piume dorate.
Quando si alzarono per andarsene, essa si attaccò alle lunghe falde del signor Riah.
— Non potete essere andato lontano — disse — ritornato a morire — e tutti udivano la vocina dolce che li seguiva e facevasi sempre più languida cantarellando:
— Venite su e morite; venite su e morite!
— Carina mia — disse Giannina all’amica quella sera quando furono tornate a casa e stavano per andare a letto — il padrone è una bestia e fa mancare da mangiare al mio compare — e dopo la donnina aggiunse che era sicura, senza saper chi glielo avesse detto, che il vecchio Riah lavorava molto ed aveva un magro salario dal giovane col viso di volpe, che chiamava suo padrone.
(Continua)
III
Una settimana dopo quella vacanza, Giannina era più sola che mai col suo “cattivo bambino” perché Lizzie era stata chiamata ad assistere un malato in una altra parte di Londra ed aveva rinunziato al suo posto nel laboratorio di marina.
Il malato stava molto male e dovevano passare giorni e settimane prima che Lizzie potesse tornare.
Una sera nebbiosa, dopo che Lizzie era assente da circa quindici giorni, il vecchio Riah andò nella via della Chiesa, dalla sarta delle bambole. Giannina lo aspettava, ed egli poteva vederla attraverso i vetri seduta dinanzi al tavolino da lavoro con una candela accesa accanto, che spiava il suo arrivo.
— Buona sera compar mio — disse la donnina aprendo la porta quando sentì bussare.
— Buona sera, Cenerentola cara, stai bene? Giannina sorrise, quando fu uscita chiuse la porta e si mise la chiave in tasca. Era una chiave troppo grossa per una creaturina tanto piccina ed il signor Riah voleva tenergliela.
— No, no, no — disse Giannina — la porto da per me. Zoppico e la chiave mi fa camminare più diritta. Vi voglio dire un segreto, compare, la tengo in tasca perché mi serva di contrappeso.
Infilò la mano nel braccio del vecchio, appoggiandosi coll’altra sulla gruccia. Gli aveva dato peraltro a tenere il panierino con dentro una bambola vestita per andare in conversazione, e così se ne andarono tutti e due per le vie nebbiose di Londra.
Quando furono giunti vicini al centro, Giannina volse a manca in una delle strade principali della città e premendo leggermente la manina sul braccio del vecchio, lo fece fermare davanti ad una vetrina benissimo illuminata, in cui facevano mostra di sé molte bambole di tutte le grandezze; alcune coi capelli neri, altre coi capelli bianchi; castagni e gialli, coi capelli lisci, increspati o ondati; vestite con tutti i colori dell’arco baleno, per essere presentate a corte, per andare al ballo, per passeggiata, per cavalcare. per andare in carrozza; vestite da sposa, da paraninfa: insomma per ogni gaia occorrenza della vita.
— Belline! belline! belline! — diceva il signor Riah battendo leggermente le mani. — Hai fatto dei miracoli colle tue manine, Cenerentola.
— Sono contenta che vi piacciano — disse Giannina altera e felice scrollando la sua capigliatura che pareva cristallo filato, veduta così alla luce del gaz e fra la nebbia.
— Ma sapete che cosa è curioso davvero compare? Quando provo i miei vestiti per le bambole alle gran signore, non sapete che fatica mi ci vuole?
— Che intendi dire Giannina?
— Dio mio, compare, sono obbligata di andare in giro per la città ad ogni ora. Quando me ne sto seduta sulla mia poltrona ingommando o cucendo, è altra cosa, ma il provare è una vera fatica.
— Come fai a misurare? — domandò il signor Riah un po’ dubbioso.
— Statemi a sentire compare mio. Oggi c’è un matrimonio, oppure ci sono le corse nel Parco, o una esposizione, una festa o che so io. Ebbene. Io entro nella folla e guardo. Allorché vedo una gran signora vestita elegantemente dico subito:
— Voglio proprio te, carina mia — e la guardo, l’osservo, corro a casa e taglio e imbastisco un vestito come il suo. Il giorno dopo quando vado a provare il vestito alla signora la guardo pure molto attentamente. Qualche volta una di esse mi considera come se pensasse: “Perché mi fissa quella bambina?” Invece spesso trovo delle signore che hanno piacere che le guardi, altre no, ma sono sempre più quelle che si fanno guardar volentieri che quelle che fanno le scontrose. Io intanto dico a me stessa: Giannina, bisogna scavare un pochino il giro delle maniche, qui la vita è alta da collo; e vedete come stanno bene i miei vestiti. I ricevimenti di sera sono molto incomodi per me, perché bisogna che mi metta da un lato del portone per vedere le signore che scendono di carrozza, e così una sera o l’altra vado a rischio di essere stiacciata dalle ruote e calpestata dai cavalli, ma non me ne importerebbe nulla. Quella — disse accennando una bambola nella vetrina — è vestita come la signora Belinda Biancarosa. Una sera quando giunse in carrozza ad un ricevimento la guardai, corsi a casa, tagliai ed imbastii un vestito come il suo, eppoi tornai presto presto a mettermi accanto agli uomini che chiamavano le carrozze. Che nottataccia fu quella! Finalmente gli uomini chiamarono: — La carrozza della signora Belinda Biancarosa! — ed io potei provarle il vestito prima che entrasse in carrozza. Questa signora Belinda che è appesa per la cintura, è troppo vicina al gaz; è di cera e si può liquefare — e così dicendo entrò in bottega.
La bambola vestita tutta in ghingheri come per andare in conversazione, che era nel panierino di Giannina, le era stata ordinata per la bambina di un ricco banchiere e quando la sarta fu entrata in bottega la tolse da sé dal paniere, senza permettere ad un giovane commesso di toccarla.
— Mi dia una scatola — gli disse con una strizzatina d’occhi, agitando il mento e gettando uno sguardo duro; e mentre egli obbediva, essa lo sorprese a far l’occhiolino al vecchio signor Riah, e gli disse: — Cambiate sistema giovanotto. Legate la scatola e se ci saranno dei lavori da fare per le vostre signore, tornerò a prender gli ordini un’altra volta, intanto però pagatemi.
Giannina doveva far compre in città il giorno successivo e quando giunse a Santa Maria, vide il signor Riah da lungi sulla soglia della casa gialla, con un vecchio sacco nero in mano. Giannina guardò più volte di qua e di là prima di avvicinarsi a lui, perché sospettava qualcosa. Ad una delle finestre della facciata, v’era il giovane dal viso di volpe colla bocca allungata come se volesse ridere, ma cogli occhi più biechi che mai.
— Sei una bestia! — esclamò Giannina alzando il piccolo pugno come se volesse minacciarlo — Ti conosco.
— Dunque compare — disse fermandosi dinanzi al vecchio colla testa inclinata da un lato con uno sguardo come quello della civetta e dello scricciolo ad un tempo — ne avete assai del lupo e ve ne andate per il mondo.
— Così pare Giannina — rispose il vecchio.
— A un tratto compare?
— Su i due piedi.
— Si fermò nella strada, eppoi s’incamminarono insieme pian pianino.
— Dove andate a cercar fortuna?
Il vecchio sorrise a quella domanda, ma Giannina vide bene che egli guardava dintorno a sé come uno che abbia smarrita la strada nella vita.
— Andiamo! — disse — la miglior cosa che potete fare in questo momento, compar mio, è di venir subito da me. Non c’è altri che il mio cattivo bambino e la camera di Lizzie è vuota.
Il padrone del signor Riah esigeva che egli facesse cosa poco onesta e per questo il vecchio, piuttosto che ubbidire, se n’era andato via immediatamente. Ma aveva un po’ di denaro e poteva accettare l’offerta della piccola sarta, senza esserle d’aggravio; così andò con lei volentieri e la piccina era tutta felice.
Allorché Giannina era uscita per far le compre in città, aveva lasciato a casa quell’ubriacone di suo padre, il quale le aveva promesso di non muoversi. Ma aveva promesso tante volte senza mantener mai, ed anche allora andò in un cantuccio dove aveva rimpiattato qualche picciolo; si strascinò fuori della porta e andò in città per andare a bere nelle bettole, dove per solito bazzicava.
Allorché Giannina ed il signor Riah giunsero alla strada che mena al ponte di Westminster, videro quattro uomini che portavano uno strano fagotto. Il signor Riah voleva passare, ma Giannina si fermò.
— Lasciatemi vedere che cosa è! Non abbiate fretta e guardate compare. — Ma s’interruppe bruscamente; con uno sguardo aveva veduto tutto. — Galantuomini! galantuomini! mi appartiene! — e gridando agitava le manine tremanti.
— Le appartiene? — domandò uno degli uomini.
— Sì, sì, mi appartiene. Diteglielo, compare, che è il mio bambino. Oh il mio povero ragazzo cattivo! E lui non mi riconosce! Oh che cosa è successo? — domandava agitando le mani.
Si chinò sul vecchio straccione ed il signor Riah disse intanto agli uomini che lo portavano: — È suo padre ubriaco: Lo chiama figlio e ha avuto cura di lui fino da quando era bimba.
— È morto! — risposero, guardandola compassionevolmente. Uno di essi lo coprì e si rimisero in cammino seguiti dalla piccola sarta delle bambole, che nascondeva il viso nella giubba del signor Riah. Gli uomini portarono a casa il morto e lo deposero nel salottino.
Bisognava che Giannina vestisse molte e molte bambole prima che avesse guadagnato tanto denaro per pagare le ultime vesti di suo padre. Il vecchio signor Riah l’aiutava come poteva ed era sorpreso di vedere come Giannina avesse potuto capire che il morto era suo padre e non il suo bambino.
— È tanto difficile di educar bene un ragazzo, compare mio — diceva essa mentre l’ago volava nelle piccole cuciture — quando una deve lavorare, lavorare e sempre lavorare tutto il giorno. Quando facevo il mestiere non me lo potevo tenere sempre cucito alla sottana. Lo vedevo inquieto e nervoso e gli dicevo di andar fuori. Ma fuori i ragazzi si avvezzano male. Come è facile che facciano cattiva riuscita! Ma forse non si sarebbe avvezzato tanto male se fossi stata meno gobba e meno stravolta?
La piccola sarta riprese:
— Dovevo andare pel lavoro, non potevo baloccarmi con lui, e quel povero ragazzo ha fatto la riuscita che ha fatto.
— Non era male per lui soltanto, Giannina.
— Forse; non lo so: se lo avessi tenuto allegro! Soffriva molto, ed io gli diceva delle cose ben dure. — Scrollò la testa, le lagrime le cadevano sul lavoro, ma l’ago non si fermò neppur per un momento.
E così parlando, piangendo e lavorando, la coraggiosa donnina vestì tante bambole quante ne occorrevano per pagare ciò che aveva speso per far sotterrare quel babbo che era stato per lei un vero “martorio di figliuolo.”
— Ho da piangere e sfogarmi per un pezzo, prima di ridoventare allegra — disse Giannina tornando un giorno dai funerali del padre. — Sapete, un figliuolo per cattivo che sia è sempre figliuolo.
Uscì sola e già annottava quando tornò a casa a prepararsi il thè. Aveva gli occhi rossi, ma batteva la piccola gruccia contro il pavimento con più forza che mai e quando ebbe preso il thè, posò una quantità di seta, di trine e di margheritine sul tavolino e si mise a lavorare come prima.
— Non ti riposerai mai, Cenerentola?
— Il tagliar modelli non si chiama lavorare, compar mio — rispose tagliando colle forbici la carta velina.
Fu bussato alla porta ed il signor Riah si alzò ed aprì.
(Continua)
IV
Colui che aveva bussato alla porta era un ragazzo lungo lungo, sgraziato, con molti bottoni alla giacchetta e con un viso bonaccione e allegro, benché fosse tutt’ altro che bello.
— Entri pure — dissegli la piccola sarta. — Che cosa comanda ?
— Mi chiamo Momo, signorina.
— Le starebbe meglio il nome di sor Bottoni — disse ridendo Giannina — Dio mio! Non apra la bocca a quel modo, un giorno o l’altro non potrà più chiuderla.
Momo chiuse la bocca e guardò intorno a sé ogni cosa, come se gli fosse stata descritta o volesse accertarsi che era al posto.
— Le piace? — gli dimandò Giannina.
— Bellina davvero.
— E che cosa gliene pare di me.
Quella domanda scombussolò Momo, si tirò i bottoni a uno a uno e guardò la donnina tutto confuso.
— Le faccio spavento forse ? — insisté la piccola sarta. — Me lo dica pure. Le paio un po’ buffa, non è vero? — e piegò la testa verso Momo e il pettine coi denti rotti che le fermava i capelli cadde e i folti ricci sciogliendosi, le formarono attorno al visino come un’aureola d’oro.
— Che quantità! Che colore! — esclamò Momo.
— Perché è venuto ? — gli domandò Giannina colla sua voce insinuante, dopo alcuni istanti di silenzio.
— Sento che veste le bambole — disse Momo gettando uno sguardo strano sulla porta.
— Davvero? Ha una bambola da far vestire.
— Come può vivere qui sola sola? — disse Momo gettando sulla porta un altro sguardo a stracciasacco.
— Non sto sola; sta con me quel buon mago del mio compare.
— Con chi? con chi ha detto che sta?
— Non può aver capito — rispose Giannina. — Sto qui col mio secondo padre, o meglio col mio babbo vero. — Scrollò la testina e aggiunse:
— Se avesse conosciuto il mio povero bambino avrebbe capito, ma siccome non lo ha conosciuto è impossibile che capisca che cosa voglio dire.
— Deve aver fatto un tirocinio di molti e molti anni prima di imparare a lavorare così bene — disse Momo guardando la bambola sorridente che Giannina aveva in grembo, e le ditine fatate che lavoravano presto presto.
— Non ho mai imparato a mettere un punto. Provando e riprovando ho imparato da me. Da principio lavoravo male, ora le cose vanno meglio.
— E io che son dovuto stare tanti anni a imparare il mestiere di stipettaio! — esclamò il ragazzo. — Ma ora voglio dirle una cosa: le farei volentieri una piccolezza.
— L’accetterò con piacere — rispose la donnina guardandolo fisso e piegando la testa da un lato. — Lei è un cliente di nuovo conio. Che cosa vuol farmi?
Momo dette una guardata giro giro nella stanza:
— Le farò una panchettina per mettere a sedere le bambole, oppure un cassettino per riponerci la seta ed i rocchetti, e se vuole posso farle una gruccia al tornio. Questa appartiene forse al suo compare.
— Appartiene a me, proprio a me — rispose Giannina arrossendo in faccia e nel collo. — Sono zoppa.
Momo arrossì pure perché era un buon ragazzo, nonostante quella bocca che pareva un forno, e tutti quei bottoni che portava.
— Sono contento che sia sua — disse sollecitamente — perché sono sicuro che la farò meglio per lei che per chiunque altro. Mi faccia vedere la gruccia.
— E meglio che veda come me ne servo — disse Giannina alzandosi. — Guardi faccio così, qui c’è mio, qui c’è mio, qui c’è mio! Non è un bel vedere.
— Mi pare che debba durare molta fatica — disse Momo affettuosamente.
La piccola sarta sedé di nuovo e gli dette la gruccia, ringraziandolo colla voce e con uno sguardo di una dolcezza singolare. Momo misurò la lunghezza della gruccia e la larghezza della forcella e la rese gentilmente a Giannina.
— Sarà davvero un piacere per me di farla. Ho saputo che canta tanto bene e se mi cantasse una canzone mi pagherebbe meglio che con qualsiasi moneta.
— È gentile davvero, e accetto la sua offerta — disse la donnina sorridendo. — Credo che lui non se ne avrebbe per male — aggiunse pensierosa; eppoi scrollando la testa riprese — e se se ne avrà per male, tanto peggio per lui, doveva venir prima.
— Parla del suo compare? — domandò Momo.
— No! no! Di lui, di lui, di lui — disse Giannina gettando uno sguardo furbesco sul povero Momo che la fissava sorpreso.
— Di lui, di lui, di lui — ripeté Momo senza batter palpebra.
— Sì parlo di lui che doveva venire a corteggiarmi e sposarmi.
— Ah! di lui — disse Momo. — Chi è questo lui?
— Che specie di domanda! Come se potessi saperlo! — esclamò la piccola sarta.
— Quando verrà?
— Dio mio, come posso saperlo? Qualcuno credo che debba venire un giorno o l’altro. Ecco quanto so di lui.
A queste parole Momo gettò addietro la testa e rise di cuore e pareva così contento che la sarta incominciò pure a ridere e il signor Riah entrando nella stanza fece il terzetto.
— Insomma — disse Giannina quando si fu sfogata — non mi ha detto ancora perché è venuto da me.
— Compare, che cosa è questo romore?
— È una sposa! è una sposa! Una carrozza, un altro legno e un carro si sono fermati qui! — esclamò Momo e corse ad aprire la porta di casa.
Si udì un vocìo insolito e nello stesso momento, la piccola sarta avvolta nei suoi capelli d’oro, si trovò nelle braccia di Lizzie, la quale tutta vestita di seta bianca, colle perle al collo e l’abito coperto di trine preziose, stringeva a sé la sua Giannina.
Dietro a Lizzie stava un bel giovane col volto pallido, ma con espressione così dolce, come Giannina non ne aveva veduto mai un altro simile nella sua vita angosciosa.
— Vieni — disse a Lizzie il giovane signore — vieni e lasciami prendere la signora dai capelli d’oro e tu fatti offrire il braccio dal compare.
Momo era già salito a cassetta accanto al cocchiere. E in men che non si dice la bella carrozza tirata dai cavalli morelli correva per le vie di Londra.
Nella carrozza v’era il signor Riah sul davanti, il quale non sapeva che cosa accadesse di lui, e la piccola sarta seduta fra il giovane signore e la sua cara e buona Lizzie, ma tanto più bella di prima.
Dopo aver traversate alcune strade della città, i cavalli si fermarono davanti ad una bella casa e Lizzie e lui portarono Giannina sulle scale ornate di fiori e la deposero in una piccola camera. E che camerina piccina era mai quella! La carta che copriva le pareti, era colore della rosa tea, un tappeto a rose era steso sul pavimento, e su una tavola da lavoro, tutta intarsiata, v’erano le piccole cesoie, il panierino con nastri, seta e velluto; insomma tutto ciò che occorreva alla sarta, come se lo avesse preparato per lei una fata. Davanti al tavolino, c’era collocata una sedia bassa e soffice e sopra un bel libro di modelli stava scritto: “Per la mia cara Giannina Scricciolo, la sua Lizzie—Mizzie—Vizzie.”
Che cambiamento! Una fata poteva essere altera di averne operato uno simile per la sua protetta — così almeno pensava la piccola sarta.
Quando si fu riposata un poco nella sedia bassa ed allorché Lizzie le ebbe narrato la malattia del signor Wrayburn e come egli una volta guarito, non avesse voluto separarsi da quella che lo aveva assistito con tanta cura e avesse accettato la condizione di prendere in casa la piccola Giannina Scricciolo, perché senza Giannina Scricciolo Lizzie non poteva esser felice davvero, la piccola sarta versò molte lagrime, le più felici che avesse versate in vita sua.
Prese la mano del signor Wrayburn e gliela baciò, eppoi avvolgendo intorno a quella un riccio dei suoi capelli biondi e uno dei capelli bruni di Lizzie, disse: — Il patto è fatto.
Allora Lizzie le disse che il signor Riah andava ad abitare la piccola casa in via della Chiesa e che avrebbe lavorato pel signor Wrayburn, dal quale sarebbe stato ben pagato. — E noi andremo qualche volta a prendere il thè da lui — disse Lizzie — ed egli verrà molto spesso a prenderlo con noi mia cara e Momo ti farà tante belle cosine e andrà per le botteghe a comprare ciò che ti occorre e tu vivrai con noi fino al giorno in cui lui non verrà.
— Lui può restare dov’è — rispose Giannina sorridendo. Non è venuto quando era sola, infelice e carica di lavoro, ora può stare dov’è.
— Gli sta il dovere — disse Momo dalla soglia della porta.
— Mia cara Giannina — disse Lizzie — quando la piccola sarta delle bambole fu coricata sotto le cortine di trina e insieme fissavano attraverso la finestra il cielo splendente di stelle — ora potrai sopportare la vista delle filastrocche di ragazzi.
Giannina rifletté un momento — Sì, ma non ancora — rispose dolcemente — a poco a poco, quando sarò morta.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La sarta delle bambole
AUTORE: Charles Dickens
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti