La principessa coi capelli d’oro.

di
Gian Leopoldo Piccardi

tempo di lettura: 24 minuti

I

C’era una volta, in un paese molto lontano, un giovine principe che poteva vantarsi d’esser l’uomo più felice della terra. Era bello, era coraggioso, ricco e gentile; abitava un palazzo stupendo circondato da giardini immensi dove si ammiravano le collezioni complete dei fiori di ogni specie; aveva trecento cavalli nelle scuderie, cinquecento servitori ai suoi comandi; e siccome nel suo regno non c’erano ministri che lo screditassero, era tanto amato dal suo popolo che dappertutto si parlava di lui con la più grande invidia.

Però, sebbene il principe Adalberto, questo era il suo nome, avesse circa ventidue anni, fin allora non avea pensato ad ammogliarsi; la qual cosa dava un po’ sui nervi ai suoi sudditi, tanto più che egli non aveva parenti a cui lasciare in caso di morte il principato. E figuratevi, figliuoli miei, che gli ambasciatori delle potenze straniere non lo lasciavano bene avere un minuto, e le proposte di matrimonio gli arrivavano ogni giorno dai paesi più lontani, perfin dall’India e dal Giappone. Ma il principe Adalberto stava così bene solo, che per levarsi d’attorno gli ambasciatori, un bel giorno li chiamò tutti al suo palazzo, e dichiarò apertis verbis che non lo stessero più a seccare perché oramai avea deliberato di rimaner celibe tutta la vita.

Venne però la stagione della caccia, ed in quel tempo il principe teneva corte bandita, ed invitava tutti gli amici a passare un mese con lui. Fra questi amici c’era pure il duca Teodoro, suo compagno di infanzia, il quale avea molto viaggiato ed avea visitato, come suol dirsi, il mondo per lungo e per largo, anco nelle parti meno conosciute. Anzi, era tanto istruito e conosceva così bene tutte le lingue, che la Società Geografica stava per mandarlo in Affrica convinta che egli, se ci si fosse messo di impegno, sarebbe riuscito a trovar le sorgenti del Nilo. Ora accadde che una sera dopo pranzo il duca Teodoro parlando in conversazione dei suoi viaggi in Oriente, raccontò di aver veduta la più bella fanciulla del mondo, la quale era appunto la figliuola del re Ferragutte di Circassia. Fra le altre rarità della sua splendida bellezza, questa giovine avea due lunghissime treccie di capelli d’oro, e una carnagione di latte e sangue come non ne avea vista l’uguale. Insomma il duca Teodoro ne disse tante meraviglie che il principe Adalberto se ne innamorò lì per lì come un gatto soriano, e mutato immediatamente proposito, deliberò di far lui stesso un viaggio in Circassia e andare in persona a chiedere in moglie questa bella principessa dai capelli d’oro.

Infatti tre giorni dopo, accompagnato da cento cavalieri e da altrettanti paggi, tutti vestiti di broccato, si mise in cammino verso la città di Balcanda, dove il re Ferragutte teneva la sua corte. Ma quale non fu il suo stupore quando, dopo tre mesi di viaggio, arrivato alla città vide sulla porta una grande bandiera nera in segno di lutto e dentro le mura tutta la popolazione in grande mestizia, come se le fosse sopraggiunta in quei giorni qualche terribile sventura. Il principe Adalberto cercò di sapere la ragione di quel fatto, e infatti chiese a quanti incontrava per via che cosa mai fosse avvenuto. Ma la gente lo fissava in viso cogli occhi stralunati, alzava le mani al cielo e se ne andava senza rispondere nemmeno una parola.

— O costoro son doventati tutti sordomuti — disse il principe ai cavalieri del suo seguito — o duca Teodoro mi ha giuocato il tiro di mandarmi in un paese di matti. Basta, vedremo. Che gli araldi vadano subito alla corte ed annunzino al re Ferragutte il mio arrivo.

Gli araldi tornarono dopo pochi momenti e dissero al principe che il re Ferragutte stava ad attenderlo nella gran sala del trono. Allora il principe Adalberto fece scendere tutta la sua gente da cavallo ed andò al palazzo del re che era pochi passi lontano. Ferragutte stava appunto nella gran sala del trono, circondato dai grandi dignitari della corte, tutti vestiti a lutto e col capo coperto di bende nere. Non appena egli vide il principe Adalberto gli andò incontro per abbracciarlo.

— Io so la ragione per cui tu venisti — gli disse — perché la buona fata dei sogni questa notte mi ha annunziato la tua venuta. Ma tu ci trovi addolorati per una grande sventura. Or fu quasi un anno andando a caccia sui monti io uccisi involontariamente la cerva prediletta della maga Aridea; e la maga per vendicarsi ha fatto un incantesimo per il quale tutti i miei sudditi hanno perduto la parola, e la mia diletta Rosaspina si è addormentata né è stato più possibile destarla. Vedila!

Uno dei servi tirò allora una tenda che copriva una parete della sala ed Adalberto vide in un’alcova la bella principessa coi capelli d’oro immersa in un letargo profondo come la morte.

— Essa non si sveglierà — soggiunse il re Ferragutte — né i miei sudditi riacquisteranno la parola finché un principe dell’occidente non rechi qui l’erba Malagigia di cui si trova una sola pianta negli orti del mago Atlante. Quell’erba possiede una virtù soprannaturale e può richiamare alla vita qualunque uomo o animale che sia morto per causa di ferite. Coll’erba Malagigia noi potremo far rivivere la cerva della maga Aridea, il cui corpo giace nella grotta del corallo senza che il tempo lo corrompa. In questo modo soltanto io potrò calmare l’ira della maga e l’incantesimo sarà rotto immediatamente. Tu vieni dall’occidente e puoi tentare questa impresa; se tu riesci io ti darò in isposa la bella Rosaspina e sarai erede di tutto il mio regno; ma ti avverto che altri tre principi sono partiti per andare agli orti del mago Atlante e non sono più ritornati. Ti senti la forza, il coraggio e la prudenza per intraprendere cotesto viaggio pericoloso?

— Io non potrei più vivere — rispose il principe Adalberto — senza la bella Rosaspina. Per averla, affronterò qualunque incantesimo, e se non muoio per via, tornerò riportando la pianta dell’erba che tu mi chiedi.

— Se così è — soggiunse il re Ferragutte — va’ pure figliuolo mio e che il cielo ti benedica. Poi accompagnandolo a una delle finestre della gran sala: — Quel sentiero che si perde dietro il monte — disse accennandoglielo — conduce alla fonte della maga Aridea. Cerca di rendertela propizia, ma ricordati sempre che il mago Atlante è suo terribile nemico. Tu partirai questa sera stessa al cader del sole.

Infatti, non appena cominciò ad annottare, il principe Adalberto ordinò alla sua gente di rimontare a cavallo e si mise in cammino per il sentiero che il re gli aveva indicato. Così andò innanzi per molte ore, senza incontrare anima viva, ed era già passata la mezzanotte quando arrivò a quel punto del monte dove era la fontana della maga Aridea. Ma voi potete immaginare, figliuoli miei, quanto rimase sorpreso, quando lesse nella roccia queste parole che scintillavano come se fossero state scritte col fuoco:

Per l’amor della bella Rosaspina
Cavalli e cavalier qui lascerai,
Solo e senz’armi a manca prenderai
E per la selva cammina, cammina.

Io confesso che se fosse capitata a me una cosa simile, a quell’idea d’andare innanzi solo solo, a piedi e con quel buio, in mezzo a una selva sconosciuta, sarei tornato subito addietro. Ma il principe Adalberto era coraggioso; per conseguenza non si lasciò prendere dalla paura e licenziati tutti i suoi compagni gettò via la spada e inerme si mise per la selva, confidando che se quella era la volontà della maga, una disobbedienza gli sarebbe tornata pericolosa.

Il principe Adalberto prese dunque la via per la foresta senza saper neanco lui dove andava: ma non appena ebbe fatti pochi passi udì il canto di un usignuolo che volava innanzi a lui da un albero all’altro come se avesse voluto insegnargli la strada. Accompagnato da cotesta guida di nuova specie, il principe andò avanti per un bel pezzo, finché scorse in lontananza un lume che appariva e scompariva a intervalli fra gli alberi.

— Forse questa luce viene da una masseria e dalla dimora di un boscaiuolo, pensò il principe che già cominciava a sentirsi stanco ed avrebbe voluto riposare un poco. Infatti si avviò verso quella parte, ma invece di trovare una masseria, vide una meschinissima capanna innanzi alla quale una vecchia brutta come un’arpia e tutta stracciata stava scaldandosi con pochi fuscelli che erano quasi intieramente bruciati.

— Io muoio dal freddo — disse la vecchia al principe non appena le fu vicino — e siccome non ho più fascine, voi mi rendereste un gran servizio gettando sul fuoco quel ceppo d’albero laggiù che io non ho la forza di alzare.

Il principe non si fece pregare due volte e per quanto fosse stanco, pure riuscì a trascinare fino alla capanna il ceppo d’albero che pesava come se fosse stato di piombo.

— Voi siete buono — gli disse la vecchia, — ed io non sapendo in quale altra maniera ricompensarvi vi concedo ospitalità nella mia capanna dove potrete dormire fino all’alba. — Il principe naturalmente accettò, e mangiato un po’ di pane e di formaggio che la vecchia gli offerse, prese subito sonno. Ma figuratevi un po’ la sua maraviglia la dimane, quando nello svegliarsi non vide più né la foresta, né la capanna, né la vecchia che gli aveva dato asilo. Tutto era scomparso. Egli si trovava invece disteso sopra un letto principesco, in una camera bellissima, mobiliata con un lusso veramente orientale.

Il principe non sapeva rendersi ragione di quanto gli avveniva; ma la sua maraviglia fu ancora maggiore quando, non appena alzato, ebbe a dire: — per bacco! se potessi avere una tazza di caffè — perché immediatamente vide entrare un piccolo moretto di marmo, il quale recava un gran vassoio su cui stava appunto tutto l’occorrente per prendere il caffè.

— Io probabilmente debbo avere inciampato in qualche incantesimo grosso — esclamò egli, e senza perdersi di coraggio volle fare una visita alla sua nuova dimora. Egli cominciò dunque il suo giro per le sale del palazzo che era grande come la più gran reggia del mondo, tutto a impiantiti di pietre preziose, con le colonne d’ambra e i capitelli d’argento e le sale adorne di statue greche e di vasi etruschi come non ne avea visti mai in nessun museo. Ma per quanto cercasse, non gli fu possibile incontrare anima viva, ed ogniqualvolta sentiva bisogno di qualche cosa gli bastava solo il pensarvi, perché subito compariva il solito moretto di marmo sempre pronto a portargli tutto quello che gli occorreva.

Ma quando fu verso l’ora del pranzo, mentre egli stava per sedersi ad una gran tavola che avea trovata splendidamente apparecchiata, gli parve di udire in distanza un suono di cetre che si avvicinava. E infatti pochi momenti dopo vide muoversi un gran quadro che era nella parete, e da quella specie di porta entrarono nella sala una quantità di fanciulle vestite dei più vaghi colori, le quali suonando e danzando precedevano un carro fatto in forma di conchiglia, tirato da due sfingi alate, e sopra il carro una bellissima donna, con un gran peplo azzurro e una corona di diamanti e che egli immaginò dovesse essere la signora di quel luogo.

— Io sono la regina Fantàsia — disse ella al principe — ed il mio potere è immenso nel regno delle Chimere. Io so anche la causa per cui tu vieni da Balcanda, ed io ti avverto che ti daresti una pena inutile a seguitare il tuo viaggio perché la bella Rosaspina è stata uccisa in questa notte. Ad ogni modo tu non saresti riuscito a salvarla perché gli incantesimi che circondano gli orti del mago Atlante sono così forti che non avresti potuto superarli. Guarda se io ti inganno — e con queste parole presentò al principe un piccolo specchio nel quale egli vide la bella principessa coi capelli d’oro, distesa sul suo letto e col petto squarciato da una ferita di pugnale. — Metti dunque l’animo in pace e dimenticala — soggiunse la regina Fantàsia — io ti faccio signore di questo mio palazzo, dove noi vivremo uniti in una felicità eterna; tuttociò e tutto quello che tu potrai desiderare ti sarà dato. Ogni giorno a quest’ora ci troveremo insieme. Nelle ore in cui starai solo tu potrai girare dovunque: ma non entrare nel laberinto che è nel fondo del giardino, io te lo proibisco. Tu vi moriresti, perché una volta entrati, non è possibile ritrovar la strada per uscirne fuori.

Voi potete bene immaginare quanto pianse e quanto si disperò il principe all’annunzio che la sua Rosaspina era stata assassinata, e voleva tornare subito indietro per vendicarsi degli uccisori; ma Fantàsia seppe allettarlo con tali lusinghe che lo persuase a rimanere. Dimenticando così a poco a poco la cagione del suo viaggio, egli passò molti giorni in quel palazzo maraviglioso senza veder mai altra persona fuorché la regina e le sue compagne. Ma se debbo dirvi il vero, ogniqualvolta scendeva nel giardino sentiva una grande curiosità di entrare nel laberinto per vedere dove sarebbe andato a finire. — Perché mai — ripeteva sovente a sé stesso — la regina Fantàsia mette tanta cura a trattenermi presso di sé? Se ben ricordo re Ferragutte mi raccomandò vivamente di stare in guardia contro i malefizi che il mago Atlante avrebbe sparsi sul mio cammino, non sarebbe dunque questo un brutto tiro giuocatomi da lui? E tanto questa idea gli si ficcò nella mente, che una sera sull’imbrunire, scese in giardino e arrivato al laberinto vi entrò risoluto ad affrontare qualunque avventura.

Ma non appena ebbe fatto alcuni passi, che egli si avvide subito d’aver perso la strada e che non gli era più possibile tornare indietro. Egli si mise allora a camminare senza direzione per gli oscuri vicoli del laberinto dove egli vide rinchiusi in grandi caverne una quantità di animali dalle forme le più strane. Per dire la verità il principe questa volta si impaurì un poco, e andava innanzi tutto guardingo, quando a un tratto sentì dal fondo di una grotta una voce che diceva così:

O cavalier che perdesti la via,
Fuggi da quest’albergo di sciagura,
Fuggi o altrimenti in nostra compagnia
A mezzanotte cambierai natura.

Il principe si avvicinò immediatamente al limitare della grotta per vedere chi gli parlava: ma quale non fu la sua sorpresa quando si accorse che il suo interlocutore era un enorme coccodrillo colla faccia umana.

Chi fosse poi quel coccodrillo, e ciò che avvenne in seguito a cotesto incontro al principe Adalberto, io ve lo racconterò, figliuoli miei, quest’altra volta. Adesso riposiamoci un poco.

(Continua)

II

Noi eravamo dunque rimasti al brutto incontro fatto dal principe Adalberto nel laberinto, dove egli si era smarrito; e potete immaginarvi l’impressione che egli provò alla vista di quel mostro. Pure ripensando che il mostro pareva volesse dargli dei buoni consigli, si fece animo e gli rivolse la parola.

— Chi sei tu dunque — gli chiese — e perché mi parli in tal guisa? Per quale incantesimo ti trovi ridotto in codesta condizione?

— Sappi — rispose il coccodrillo dalla faccia umana — che io sono il duca Melibeo, figlio primogenito del re di Portogallo. Anch’io feci proposito di liberare la bella Rosaspina e mi misi in cammino alla ricerca dell’erba Malagigia. Ma pur troppo mi sono lasciato vincere dalle lusinghe della regina Fantàsia, ed eccomi ridotto in questo miserabile stato. Or bene io ti dico che quanto hai veduto finora è un inganno ordito dal mago Atlante per averti in suo potere. Per tua norma, chiunque capita in questo laberinto, se non trova la maniera d’uscirne prima che scocchi l’ultimo tocco di mezzanotte, viene trasformato in un mostro e confinato in una grotta, dove egli dovrà rimanere finché non venga colui al quale toccherà la fortuna di rompere l’incantesimo che ci tiene qui condannati.

In quel momento, lontano lontano si intese suonare l’orologio del laberinto. Il principe Adalberto contò undici colpi.

— Mi rimane un’ora di tempo — disse. Poi volgendosi al coccodrillo gli domandò: — Non sai tu insegnarmi quale sia la strada che porta all’uscita di questo luogo maledetto?

— Per uscire — soggiunse l’altro — non c’è che un solo mezzo: quello di consultare la pianta del laberinto, la quale si trova appunto nella spelonca detta della morte. Rimettiti dunque in giro e raccomandati alla tua buona stella; ma se per caso ti avverrà di arrivare alla spelonca, bada bene di trattenere il fiato per tutto il tempo che vi rimarrai dentro, perché l’aria che vi si respira è avvelenata.

Il principe Adalberto ringraziò il coccodrillo ed a passo accelerato si rimise in cammino. Però il difficile stava nel sapere da qual parte la spelonca fosse situata, e come fare a raccapezzar la strada fra tutte quelle viuzze buie e tortuose. Ma a un tratto udì il canto di un usignolo che era venuto a posarsi sopra una roccia vicina.

Io non starò a dirvi, figliuoli miei, la grande allegrezza del principe appena riconobbe che quello era appunto l’usignolo incontrato da lui alla fontana della maga Aridea. Egli pensò che la maga glielo mandava in aiuto e senza rifletter altro, si mise a seguire l’usignolo, il quale volava innanzi a lui con tanta velocità che a gran fatica riusciva a tenergli dietro.

Dopo aver corso a quel modo per una buona mezz’ora, tantoché quasi si sentiva mancare il respiro, il principe entrò in un viottolino stretto stretto, dove un uomo stentava a passare di fianco, e nel fondo scorse una grotta profonda, illuminata da una luce rossa, così forte da abbagliarlo. In quel momento da un tronco d’albero che era lì vicino, divampò una fiammata, ed egli intese queste parole:

Ritorna indietro, se innanzi verrai
Di mala morte, fellone, morrai.

Ma l’usignolo seguitava a cantare più forte che mai, ed il principe che s’era assuefatto ad affrontare arditamente i pericoli, dopo aver detto fra sé: “Sarà quel che sarà,” trattenne il respiro e in quattro salti fu dentro alla spelonca. Ma appena vi fu entrato, sentì un gran ronzìo nelle orecchie, uno sfinimento per tutta la persona, ed i suoi occhi rimasero così abbarbagliati da quella gran luce, che egli appena riusciva a scorgere intorno a sé. Pure aguzzò lo sguardo e gli parve di vedere qualche cosa di biancastro nel fondo della caverna. Allora si fece avanti e scoperse una grande lastra d’un metallo sconosciuto, sulla quale eran segnati tutti gli andirivieni del laberinto. Egli l’esaminò un poco e vide che per arrivare all’uscita, come desiderava, non aveva da far altro che prendere una volta a destra e una volta a sinistra a tutte le voltate che avrebbe trovato per la strada.

Appena il principe fu uscito dall’antro, fu tutto contento di poter mandare un gran respiro; perché se avesse dovuto indugiare un momento di più sarebbe morto di sicuro. — E ora avanti — disse fra sé — la strada la conosco; tutto sta ad arrivare alla porta del laberinto, prima che l’ultimo tocco di mezzanotte sia scoccato.

Voi vi potete immaginare con quanta forza il principe si mettesse a correre per essere in tempo all’arrivo. Oramai andava sicuro. Se non che, quando ebbe fatta una corsa di dieci minuti, a un certo punto, in cui avrebbe dovuto voltare a destra, intese il canto dell’usignolo che invece aveva voltato a sinistra. Egli si provò a chiamarlo con un fischio; ma l’usignuolo cantava sempre più forte e andava avanti per la sua direzione.

Io non so quel che avreste fatto voi altri, figliuoli miei, in un caso simile. Io confesso che mi sarei trovato in un grande impiccio; ma il principe, da quel giovine risoluto che era, pensò che se l’uccellino andava da quella parte, ci doveva essere una buona ragione, e senz’altro, tornò subito indietro, seguitando il canto dell’usignuolo. Non aveva fatto un centinaio di passi, che udì un’altra voce che diceva:

O cavaliere che correndo vai,
Un martellino in terra troverai;
Se tre colpi alla porta batterai
A mezzanotte libero sarai.

Il principe volle vedere chi gli parlava e sulla cresta della roccia scorse un grossissimo ragno incatenato.

— Chi sei tu? — gli domandò.

— Non perdere tempo — gli rispose subito il ragno — perché oramai non mancano che cinque minuti alla mezzanotte, ed ogni indugio potrebbe riuscirti fatale.

Il principe non intese a sordo, e chinatosi in terra si mise a frugar dappertutto, finché riuscì a trovare il martellino d’oro. Quindi, a tutta corsa si rimise dietro all’usignuolo che lo ricondusse col suo canto fino al punto dove gli avea fatto mutare strada.

Finalmente il principe che si sentiva rifinire dalla stanchezza, poté entrare nel gran viale che conduceva all’uscita del laberinto, quando intese suonare il primo tocco della mezzanotte. Allora tutte le belve mostruose racchiuse nelle grotte cominciarono a ululare in un modo spaventevole e a fare uno scatenìo che metteva i brividi addosso. Il principe Adalberto, spinto dalla paura di non arrivare a tempo fece un ultimo sforzo. Non correva; volava.

E correndo contava i tocchi dell’orologio: uno, due, tre… dieci, undici. All’undecimo fortunatamente era arrivato. Dette col martellino il primo colpo sulla porta di acciaio, che rintronò tutta come se fosse stata percossa da una cannonata; poi dette il secondo ed il terzo. In quel momento si udì un tuono così forte, che il principe Adalberto, dallo spavento, cadde per terra tramortito.

(Continua)

III

Quando il principe Adalberto riacquistò i sensi provò la stessa impressione che proviamo noi allo svegliarci da un cattivo sogno: il laberinto, il palazzo incantato, i giardini della regina Fantàsia, tutto era scomparso; ed egli si ritrovò ancora nella selva, allo stesso posto dove avea incontrato la vecchia che gli avea fatto il brutto tiro che voi sapete. Ma la vecchia non c’era più; ed egli invece si vide circondato da una schiera di giovani cavalieri d’ogni nazione, i quali aveano riacquistato la loro effigie dopo che egli avea rotto l’incantesimo che li teneva prigionieri nel laberinto della maga. Due di loro si fecero avanti, ed egli riconobbe subito in uno di essi il principe Melibeo di Portogallo.

— Noi vi ringraziamo, o amico — disse quest’ultimo — di tutto ciò che avete fatto, poiché senza di voi, saremmo rimasti in quelle grotte, condannati per tutta la vita. Permettete pure che io vi presenti il cavaliere Osmano, conte di Morea, il quale come me e come voi, andava agli orti del mago Atlante per cogliervi l’erba Malagigia. Voi vi ricorderete di quel ragno enorme che vi ha insegnato il luogo dove trovaste il martellino d’oro. Ebbene quel ragno era appunto il cavaliere, il quale è pronto, come tutti noi, a seguirvi ovunque ed aiutarvi in tutto quello che voi vorrete.

Il principe Adalberto gradì molto quell’offerta; ma pensò bene di rimandare gli altri alle loro case, ed acconsentì soltanto a tener seco il principe Melibeo ed il cavaliere Osmano, i quali vollero, ad ogni costo, dividere con lui il merito di salvare la bella Rosaspina.

I tre amici stavano discutendo da qual parte mettersi in cammino, quando a un tratto il principe Adalberto intese il solito canto dell’usignuolo che gli avea servito di guida fin allora.

— È inutile perdere il tempo a discutere — disse egli ai suoi compagni — non ci resta da far altro che tener dietro a questo canto, e non ci sperderemo mai.

I compagni acconsentirono e tutti e tre andarono per la selva, guidati dall’usignuolo. Così camminarono fino alla sera del giorno dopo, senza incontrare in quella selva anima viva. La faccenda cominciava a farsi seria, perché i tre viandanti, rifiniti dalla stanchezza e dalla fame non si sentivano più la forza di andare innanzi: quando fortunatamente scorsero una casuccia poco distante.

Essi bussarono all’uscio e furono accolti da una vecchia cisposa, la quale era tutta disperata perché non aveva forza sufficiente per dimenare una gran polenta che bolliva in quel momento nella caldaia.

— Io potrò dividere con voi questa polenta — disse ella — se però mi aiutate a dimenarla. Io mi ci provo invano da due ore. Guardate un po’ se siete capaci di dimenarla voialtri che senza dubbio avete più forza di me.

I tre amici non se lo fecero ripetere due volte, e in cinque minuti la polenta era già bella e fumante sulla tovaglia. Com’essi ebbero calmato l’appetito — e vi so dir io che pareva loro di mangiare del pan di Spagna — si sdraiarono su un po’ di paglia che era in un canto del tugurio e fecero tutto un sonno fino alla mattina dopo. Se non che, prima di rimettersi in viaggio, domandarono alla vecchierella, se per caso potesse dar loro qualche cosa da mangiare che così l’avrebbero ricompensata a peso d’oro.

— Io ho soltanto queste tre uova — disse la vecchia — sono fatte dalla mia gallina. Sappiate che tutto l’oro del mondo non varrebbe a pagarle; ma siccome io sono rimasta contenta di voi, prendetele pure che io ve le regalo.

I tre compagni presero un uovo per ciascuno, e ringraziata la vecchia, ripresero il loro viaggio attraverso la selva, sempre tenendo dietro al canto dell’usignuolo che ormai era diventata la loro guida. In questo modo, quando furono andati avanti per un paio d’ore si trovarono dinanzi a un gran fiume che tagliava loro la strada. L’usignuolo volò immediatamente dall’altra riva e si mise a cantare forte forte, come se avesse voluto dir loro che bisognava passare il fiume. Ma disgraziatamente nessuno dei tre amici sapeva nuotare, ed allora si sedettero sulla sponda, aspettando che passasse di là qualche barcaiuolo.

Ed aspettarono un pezzo, ma il barcaiuolo non veniva. Il cavaliere Osmano, che già cominciava a sentirsi fame, levò allora il suo uovo dalla saccoccia per mangiarlo; ma voi potete figurarvi come rimanesse brutto, quando si accorse che era pieno di fumo. — Quella brutta strega ci ha burlati! — esclamò: e con un moto di rabbia ne scaraventò il guscio nel fiume.

Quel guscio aveva appena toccato l’acqua, che immediatamente si trasformò in una barca leggerissima colla vela spiegata. I tre amici mandarono un grido d’ammirazione e vi saltarono dentro. Appena la barca fu carica, si mosse dalla sponda e traversato il fiume approdò all’altra riva.

Scesero ed andarono ancora innanzi per un bel pezzo, finché giunsero al piede di un monte così ripido e così scosceso, che era impossibile poterlo salire. Ma l’usignuolo era andato a mettersi sulla cima, e cantava forte forte, come per dir loro che bisognava ad ogni costo arrivare fin lassù.

— Vediamo — disse allora il principe Melibeo — se la vecchierella ci viene in soccorso anco questa volta — e levato il suo uovo di tasca, lo ruppe; ma con suo gran dispiacere, vide che l’uovo era pieno di nebbia.

— Questa volta ci ha canzonati per davvero! — esclamò; e sdegnato lanciò il guscio lontano da sé con tutta la forza che aveva. Se non che il guscio, quando si fu un po’ alzato in aria, cominciò a gonfiarsi smisuratamente, e in meno di un minuto si trasformò in un gran pallone volante, colla navicella attaccata. I tre amici capirono che non c’era tempo da perdere, e saliti nella navicella, furono in un attimo in vetta al monte.

Un nuovo spettacolo si offrì di lassù ai loro sguardi. Essi si trovavano in una grande spianata, in fondo alla quale sorgeva un immenso castello, dalle mura lucenti come l’acciaio e tutto circondato da un gran lago di fuoco.

Essi si figurarono che quello fosse il castello del mago Atlante e non si ingannavano; ma il difficile era a poter passare il lago di fuoco che lo circondava; e stavano appunto consigliandosi sul da farsi quando udirono dietro un piccolo masso, un lamento. Essi videro allora un giovine cavaliere che era inchiodato con un gran collare di ferro sulla nuda pietra.

I tre amici, commossi alle sue preghiere, tanto si sforzarono che finalmente poterono strappare la catena che lo teneva prigioniero.

— Sappiate — diss’egli — che io sono il duca di Benevento, il primo dei cavalieri che partirono da Balcanda per salvare la bella Rosaspina. Io non mi lasciai vincere dalle lusinghe della regina Fantàsia, io non credetti alle sue menzogne, e in mezzo a infinite difficoltà potei giungere fino al castello del mago Atlante. Ma la fortuna non mi è stata propizia e sono convinto che non lo sarà mai a chiunque si attenti a entrar solo nel castello. Però, adesso che noi siamo in quattro credo che potremo riuscire nell’impresa: ascoltatemi.

I tre amici non battevano palpebra tanta era l’attenzione che porgevano alle sue parole. Il duca di Benevento continuò:

— Tutta la gente del castello cade in un sonno profondo durante il primo quarto d’ora dopo la mezzanotte: noi dunque dobbiamo aspettare quel momento propizio per penetrarvi. Quattro enormi Ciclopi, armati di terribili tridenti, stanno a guardia dell’entrata del castello, ed altri quattro a quella dell’orto; ma siccome è probabile che al nostro ritorno essi sieno già svegliati, occorre gettarci su di loro, disarmarli ed ucciderli, senza lasciar loro il tempo di gridare l’allarme. Altrimenti resteremo presi, e toccherebbe a tutti voi a soffrire quello che ho già sofferto.

— Ma come faremo — osservò il principe Adalberto — per passare il lago di fuoco?

— Voi — riprese il duca — avrete trovato per la strada una vecchierella, la stessa che io pure trovai, la quale deve avervi date tre uova, altrimenti non vi sarebbe stato possibile arrivare fin quassù. Per caso le avreste tutte consumate?

— Me ne rimane ancora uno — osservò il principe Adalberto.

— Benissimo — soggiunse il duca. — Basterà romperlo e gettarlo nel fuoco; così noi potremo passare.

I quattro compagni rimasero fino alla sera nascosti dietro quel masso, e poscia si rimisero in cammino, tantoché a mezzanotte precisa giunsero sulla sponda del lago di fuoco. Il principe Adalberto allora, ruppe il suo uovo che era pieno di vento e lo gettò fra le fiamme; immediatamente l’uovo cominciò a gonfiarsi e ad allungare, finché si distese su quella superficie di fuoco come un tubo enorme che dalla riva arrivava fino alla entrata del castello dalle mura di acciaio.

I quattro compagni poterono così arrivare nel grande androne del castello dove i quattro Ciclopi stavano addormentati. A un cenno del principe Adalberto furono loro addosso, e disarmatili, li trucidarono prima che avessero tempo di emettere un grido. Poi andarono avanti, ripeterono la stessa operazione coi quattro Ciclopi che stavano alla guardia dell’orto, ed erano sul punto di sbandarsi in diverse direzioni alla ricerca dell’erba famosa, quando intesero l’usignuolo che cantava.

— Seguitemi! — disse il principe Adalberto, e guidati dal canto dell’usignuolo, poterono trovare in pochi minuti l’erba che essi cercavano. Il principe la strappò dal suolo, e coi suoi amici fuggì a tutta corsa dal castello, lieto d’aver raggiunto finalmente il suo scopo.

Non vi dirò se il mago Atlante andasse su tutte le furie, quando si avvide del brutto tiro che gli era stato giuocato, e tutto avrebbe dato per vendicarsi, ma non lo poté, perocché in quell’erba Malagigia stava tutta la forza dei suoi incantesimi. Dal momento che gliela avevano rubata egli non era più in grado di nuocere a nessuno.

I quattro amici ritrovarono il tubo, il pallone e la barca nei diversi posti dove li aveano lasciati, e così poterono in tre giorni ritornare a Balcanda, dove furono accolti dal re Ferragutte e da tutta la popolazione col più grande entusiasmo. Il re in persona andò alla grotta del corallo per toccare coll’erba Malagigia la ferita della cerva della maga Aridea, ed immediatamente la bella Rosaspina si svegliò dal sonno, e tutti gli abitanti del regno riacquistarono la parola.

Io avrei da seguitare per una settimana, figliuoli miei, se dovessi raccontarvi tutte le feste che fecero a Balcanda in quella occasione. Ma si anderebbe troppo per le lunghe e mi par tempo di farla finita. Vi basti dunque sapere che il principe Adalberto poté sposare la bella Rosaspina, poiché gli altri tre cavalieri furono abbastanza soddisfatti d’essere stati salvati da lui, e che i due sposi vissero gli anni di Matusalemme, sempre contenti e felici.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La principessa coi capelli d’oro
AUTORE: Gian Leopoldo Piccardi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti