Quando Eugenio Giovannetti tradusse La Precauzione inutile l’opera di Proust in Italia non era ancora stata pubblicata ed era quindi poco conosciuta. Si tratta perciò della prima apparizione in italiano di un testo dello scrittore francese che era morto da oltre vent’anni.
Proust consegnò questo suo lavoro all’editore nell’autunno del 1922, poco prima di morire. Henri Duvernois, direttore della rivista letteraria “Les Oeuvres libres” procedette alla pubblicazione alcuni mesi dopo, nel numero 20 della rivista del 20 febbraio 1923.
Pur essendo una versione ridotta del quinto volume della Recherche, La Prisonnière, – che sarà pubblicato nello stesso 1923 – Precauzione inutile conserva in ogni caso una sua autonoma dignità di romanzo, anche se non si può non accorgersi che sia l’autore che l’editore avevano in mente un utilizzo “promozionale” per tutta quanta l’opera.
Nel ciclo di Albertine il narratore opera un’introspezione puntando l’attenzione su se stesso e sui propri sentimenti amorosi. Sentimenti che in Proust assumono sempre connotati dove si trova qualcosa di patologico e di morboso. In particolare in questo testo Proust vuole avvertire il lettore che senza sofferenza e gelosia l’amore si estingue nel nulla. D’altra parte quando l’amore raggiunge il suo culmine nel possesso totale, desiderato attraverso la sofferenza, si trasforma prontamente in insensibile noia. Ne consegue che alla gelosia si abbina costantemente la menzogna che pare divenire strumento principe d’indagine, mezzo per dare corpo a sospetti. Il partner usa invece la menzogna per sottrarsi all’insidia che gli viene tesa; a volte la menzogna è usata per abitudine, sembra dare un piacere fine a se stesso. Certamente a dare ascolto a Proust non ci sarebbe da farsi molte illusioni sui sentimenti amorosi, anche se Mauriac, in una famosa recensione alla Prigioniera, sostiene che questa specie d’amore è il più diffuso, poiché descrive perfettamente l’amore non corrisposto, e in questo modo l’amore proustiano assurge quasi a carattere d’universalità. Ma pare davvero innegabile che questo tendere a possesso e controllo per sottrarsi ai fantasmi di una delirante gelosia non possa neppure sperare di celare una riduzione del sentimento a semplice cosa materiale, che appare più come perversione che come emozione.
Certamente abbiamo pagine intense e di grande valore letterario e che nel contempo appaiono come oasi di luce in quella relazione basata su gelosia menzogna e sospetto. Albertine dormiente è ispirazione per questa “luce”:
«[…] potevo sognare di lei, eppure guardarla: e quando quel sonno diveniva più profondo, toccarla, baciarla. Quel che provavo allora era un amore innanzi a qualcosa di così puro, di così immateriale nella sua sensibilità, di così misterioso, come soltanto le bellezze della natura. Infatti, da quando cadeva in un più profondo sonno ella cessava d’essere soltanto la pianta ch’era sino ad allora stata: il suo sonno, in riva al quale sognavo con una nuova voluttà di cui non mi sarei mai stancato e che avrei potuto gustare all’infinito, era per me tutto un paesaggio. Il suo sonno mi metteva a fianco qualcosa di così calmo, di così sensualmente delizioso, com’erano le notti di plenilunio nella baia di Balbec […]».
Al termine di Sodoma e Gomorra i sospetti sulla possibile tendenza omosessuale di Albertine si fanno più vivi. Per questo il narratore si sente obbligato a prendere i provvedimenti di segregazione per sottrarre l’amata alle insidie che continuamente si presentano. L’introspezione psicologica, che è caratteristica fondamentale di tutta l’opera proustiana, diventa qua ossessiva e monocorde.
La precauzione inutile lascia fuori, rispetto a La prigioniera, quei lunghi intermezzi di elementi socializzanti – come il ricevimento dei Verdurin o i pomeriggi della duchessa di Guermantes – che sono certamente un po’ noiosi se presi come brani isolati, ma che nell’economia del romanzo hanno il loro senso valendo ad allentare l’estenuante “duello” e l’ossessiva schermaglia di gelosia-falsità che è costante tra i due personaggi.
Dalla lunga dedica che Proust scrisse sulla copia di Swann della sua amica Marie Schikévitch è possibile risalire con buona approssimazione alla data della prima stesura del romanzo, che può essere collocata tra la fine del 1915 e il 1918. Alle prime stesure Proust aggiunse, come abbiamo detto, la descrizione della serata dai Venturin, ma forse ancor più importante una abbondanza di dettagli sulle inclinazioni di Albertine per le lussuose toilette e il gusto per ricchezza e piaceri. Le visite del narratore alla duchessa, che nella presente versione non sono ancora comparse, valgono a rendere più ricco e vario il guardaroba di Albertine e a rifornirla delle veneziane vestaglie di Fortuny che sembrano quasi il preludio all’attrazione del narratore verso la città nella quale queste stoffe sono nate. Infatti quando Albertine scomparirà definitivamente dagli orizzonti della narrazione, nel volume successivo La Fuggitiva, ci sarà spazio per un viaggio a Venezia e per una lunga riflessione su questo viaggio.
Questa versione “condensata” di La Prisonnière ha il pregio di mettere più che mai in evidenza come il tragico isolamento dell’individuo si frappone come ostacolo insormontabile al raggiungimento di una serenità amorosa. Il mondo proustiano non consente di cogliere gli aspetti segreti di quello che si desidera e slitta dalla irraggiungibilità della felicità nell’amore verso la ricerca del piacere, ricerca a sua volta priva di felicità. Rimane l’ansia del possesso priva di felicità e satura di inganni che alla sensibilità del lettore non può non apparire come un’inutile autotortura inflitta dal pessimismo erotico dell’autore.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Di buon’ora, la testa ancora volta contro il muro e prima d’aver visto di sotto le tende l’intensità della striscia luminosa, sapevo che tempo faceva. Me l’avevano già detto i primi rumori della strada, giungendomi o ottusi e deviati dall’umidità o vibranti come freccie nell’aria suonante e vuota d’un mattino spazioso, glaciale e puro: il primo ruotare dei tramvai m’aveva già detto se il giorno fosse greve di pioggia o slanciato verso l’azzurro. E forse quegli stessi rumori erano già stati preceduti da qualche più rapida e penetrante emanazione che, insinuandosi nel mio sonno, vi aveva già effusa una tristezza annunciatrice della neve, o vi faceva intonare a qualche piccolo personaggio intermittente tanti piccoli cantici alla gloria del sole, che quelli finivano col creare una sveglia musicale in me ancora indormito e già sorridente e le pupille pronte ad essere abbagliate di luce. Del resto, in questo periodo, la vita esterna m’era tutta echeggiata principalmente dalla mia stanza. Mi consta che Bloch raccontò d’aver sentito, venendo a trovarmi la sera, come un chiacchierio: e poichè mia madre era a Combray e lui non trovava mai anima viva nella stanza, ne aveva concluso che parlassi solo. Quando, molto più tardi, seppe che Albertina abitava allora con me, e vide che l’avevo tenuta nascosta a tutti, disse che capiva finalmente il motivo per cui in quel periodo della mia vita non volevo più uscire di casa. S’ingannava: ma la cosa era scusabilissima, perchè la realtà in se stessa, per quanto necessaria, non è mai completamente prevedibile. Chi apprende sulla vita d’un altro un particolare esatto ne trae subito conseguenze che non lo sono: e vede nel fatto ultimamente scoperto la spiegazione di cose che non sono affatto in relazione con esso.
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