Da Gaza all’Ucraina, l’indifferenza al linguaggio del dolore. Quando la convenienza supera la dignità umana e l’orrore diventa “normale”.
Il campo del dicibile si sta pericolosamente allargando, rivelando una discesa nell’abiezione che tocca il cuore stesso della dignità umana. Ciò che un tempo sarebbe stato inconcepibile, pronunciato con vergogna o in segreto, oggi si manifesta apertamente nelle dichiarazioni ufficiali dei leader mondiali. Un velo di cinismo avvolge la realtà, trasformando la morte e la sofferenza in meri dettagli statistici o, peggio ancora, in strumenti di negoziazione. “Utsque ad mortem vivere,” vivere fino alla morte, non è più un’esortazione alla resilienza, ma una cruda descrizione di un’esistenza ridotta al minimo, al limite della sopravvivenza, giustificata da calcoli di opportunità.
Prendiamo l’esempio del Primo Ministro israeliano che giustifica l’invio di aiuti umanitari a Gaza non per un imperativo morale, ma perché le immagini di persone che muoiono di fame sono “impopolari” tra gli alleati. Non si tratta di una questione di compassione, ma di mera immagine e convenienza diplomatica. L’orrore di una popolazione affamata è ridotto a un problema di pubbliche relazioni, una variabile da gestire per mantenere l’appoggio internazionale. Questo è un linguaggio che svela un’anima gelida, in cui la vita umana ha un valore solo in relazione all’utile politico.
Allo stesso modo, il vicepresidente degli Stati Uniti, nel descrivere le condizioni per una possibile distensione con la Russia, riduce l’uccisione di innocenti a un ostacolo burocratico per ottenere “benefici economici”. La logica è disarmante nella sua brutalità: smettete di uccidere, non perché è intrinsecamente sbagliato, ma perché ostacola i vostri affari. L’atrocità della violenza di massa è declassata a un fastidio, un impedimento alla prosperità. Questa retorica non è solo un campanello d’allarme, ma il segnale di un’allarmante normalizzazione dell’indicibile.
Il vero dramma non è solo ciò che viene detto, ma il fatto che queste parole non suscitano più scandalo, non generano indignazione diffusa. Siamo di fronte a una progressiva assuefazione al male, un intorpidimento della coscienza che ci rende complici silenziosi di questa deriva. Si discute di strategie, di retroscena, di equilibri di potere, mentre l’essenziale, la dignità intrinseca di ogni vita umana, viene persa di vista. Come se i bombardamenti e le migliaia di morti fossero un contesto, e non il fulcro, della questione.
È un’impressione inquietante, quella di assistere a una spirale che ricorda da vicino gli anni Trenta del secolo scorso, dove l’erosione del linguaggio e la progressiva accettazione di concetti aberranti hanno preparato il terreno per tragedie di proporzioni inaudite. Il fatto che un premier giustifichi la carità con ragioni di impopolarità, o che un vicepresidente consideri l’omicidio di innocenti un ostacolo al profitto, non può essere considerato normale. Non si tratta di giudicare la bontà degli attori politici, ma di constatare come il confine tra il bene e il male, tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è, stia scomparendo nel dibattito pubblico. E questa è la vera, tragica, normalizzazione a cui stiamo assistendo.




