Croce affronta adesso l’analisi critica di alcuni scrittori e poeti tra i più importanti tra quelli che hanno operato a cavallo dei XIX e XX secolo, D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro. L’analisi del critico è circostanziata e – sebbene risaltino e siano sottolineate con particolare vigore debolezze e difetti – non priva di apprezzamento. A proposito di D’Annunzio, Croce mette in guardia dalle voci denigratorie a senso unico, ma ribatte con dettagli e precisi riferimenti i gravi indizi di plagio, che sono in ultima analisi gli stessi che qualche anno dopo furono ripresi dai testi più audacemente antidannunziani che si conoscano: Antidannunziana di G.P. Lucini e La Superfemina abruzzese di Fr. Enotrio Ladenarda (entrambi questi testi presenti nella biblioteca Manuzio). Scrive infatti Croce:
«E quando, anni addietro, furono svelate queste e altre derivazioni e imitazioni, se ne menò grande scalpore; quasi che alcune decine e un centinaio di pagine tradotte o imitate possano mai cangiare la figura storica del D’Annunzio, autore di una ventina di volumi ben suoi. Il quale avrebbe operato prudentemente a non dare ai critici il gusto di coglierlo nel reato di non confessata imitazione; ma egli è, qualche volta, come un ricco che fa debiti e non li paga, sicuro che nessuno dubiterà mai ch’egli sia in grado di pagarli. Comunque, la rivelazione ha qualche importanza pel critico; e sarebbe stato criticamente assai piú proficuo procedere a raffrontare le imitazioni del D’Annunzio con gli originali, perché da ciò sarebbe scaturita, per quel che mi sembra, nuova conferma della prepotente personalità artistica di lui. Non voglio qui indagare se il D’Annunzio abbia migliorato o guastato quei racconti del Maupassant (direi piuttosto la seconda cosa); ma mi preme osservare che egli li ha certamente sottomessi alla medesima selezione, alla quale, adolescente, sottometteva, come si è visto, i suoi primi modelli.»
Del Pascoli sottolinea invece la propensione a un sentimentalismo superficiale; per entrambi i poeti Croce indica come la loro propensione al decadentismo abbia aperto la strada al futurismo, movimento per il quale certamente non ha in serbo giudizi troppo positivi:
«[…] piú tardi nel D’Annunzio e piú presto nel Pascoli, quel freno [cioè l’esempio carducciano] s’allentò, e proruppe in essi la letteratura decadente, che era in agguato nelle loro anime, e l’uno e l’altro diventarono precursori e avviatori del futurismo. Il Pascoli, meno vigoroso del D’Annunzio, il quale ha avuto una sua forza di gioia sensuale che è stata la sua sanità e si è guastato soprattutto con l’intellettualismo dell’eroico e ora del religioso; il Pascoli, che era disposto al sentimentalismo, doveva piú gravemente soggiacere al decadentismo, e futurismo, alla spinta analitica, alla disarmonia, al disgregamento, alle smorfie e alle sconcezze dell’impressionismo inconcludente. E poiché la sua corruttela estetica prendeva per materia la pietà, la bontà, la tenerezza, la tristezza, la morte (diversamente dal D’Annunzio il quale si compiaceva di altre cose, che davano scandalo ai timorati), al Pascoli è stato possibile soddisfare in modo decente quel che era di malsano nelle anime timorate, e persino nei preti: ‒ come, per un altro verso, il Fogazzaro è stato il D’Annunzio dei cattolici, e ha scritto per le famiglie cattoliche il Piacere e il Trionfo della morte sotto i titoli di Daniele Cortis, di Malombra e di Piccolo mondo moderno.»
In questa frase è già evidenziata la linea di critica che verrà sostenuta a proposito di Fogazzaro.
Estremamente lusinghiero è invece il giudizio espresso su Francesco Gaeta, certamente tale da invogliare la lettura o la attenta rilettura di questo poeta forse troppo spesso relegato tra i “minori”:
«A me assai piace il breve canzoniere pubblicato testé dal Gaeta, uno di quei libri tutt’altro che frequenti che riempiono subito la fantasia di ritmi e d’immagini: di ritmi non estrinseci, d’immagini fresche e immediate, le quali non scivolano via senza traccia, ma entrano a far parte della nostra anima, e si riaffacciano insistenti.»
L’ultimo saggio di questo quarto volume è incentrato sulle vicende della vita culturale, letteraria, giornalistica e politica di Napoli – e, più in generale del meridione – negli anni subito seguenti alla sconfitta del regno borbonico e all’annessione dei territori fino allora governati dai Borboni all’Italia piemontese. Spiccano le figure di De Sanctis e Spaventa e viene analizzato come il loro pensiero e la loro pratica influirono sulla ristrutturazione delle università degli studi guidando la transizione tra una gestione privata degli studi a quella gestita dal nuovo stato. Di grande interesse la riproposizione del dibattito sulla libertà d’insegnamento che ha visto protagonista Settembrini e il già menzionato Spaventa. Il panorama disegnato da Croce è forzatamente a volte superficiale, per cercare di non dimenticare nessuno dei protagonisti della vita culturale napoletana dell’epoca, ma di grande interesse perché leggendo le sue pagine possiamo vedere riportati alla ribalta personaggi oggi quasi dimenticati. Quasi tutti conoscono e hanno letto almeno qualcosa di Salvatore Di Giacomo, i cui testi vengono ancora oggi ristampati e riproposti da varie case editrici, ma ben pochi ricordano invece Anna Carlotta Leffler:
«una scrittrice svedese di forte ingegno, Anna Carlotta Leffler, seguace e ammiratrice dell’Ibsen, autrice di vigorose novelle, alcune delle quali (dopo la morte immatura dell’autrice accaduta nel 1892) furono tradotte in italiano, ma ebbero scarsa divulgazione. Io stesso fui mosso dalla Leffler a leggere per la prima volta il teatro dell’Ibsen nella versione tedesca; e scrissi allora, come prefazione a un dramma di lei, un breve cenno sull’Ibsen e sulla letteratura scandinava moderna.»
Certamente proveremo a dare il nostro piccolo contributo perché le opere di Leffler siano nuovamente conosciute oggi.
Resta da sottolineare il vigore di un pensatore come Croce il quale, benché certamente ricordato, viene spesso offuscato per il suo, talvolta davvero monocorde, idealismo opposto incessantemente a ogni forma di positivismo. Mi pare interessante citare un concetto, sempre espresso nel saggio La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, che pare riassumere e anticipare in poche righe i concetti fondamentali dell’epistemologia che sarebbero stati sviscerati e discussi nella seconda metà del XX secolo da pensatori come Popper, Kuhn, Lakatos e Feyerabend, pur se con approcci e quadri filosofici di riferimento molto diversi:
«Perché nella vita laica moderna, cacciato il clero in un angolo della società e destinato forse in tempo non lontano a perdere via via importanza e a diventare esclusivo strumento di occhiuta politica o manipolatore di superstizioni, lo «stato ecclesiastico» si viene ricostituendo nelle istituzioni scientifiche e nella classe professorale, alle cui mani è affidato Dio, ossia la Verità. E, guardando di là dai veli, è agevole scorgere in molte e molte cattedre la moderna forma dei canonicati; in molti bilanci universitarî, quella che si chiamava un tempo la manomorta; e in molte adunanze di Facoltà, i costumi stessi di quei capitoli che si radunavano ad sonum campanellae e dove accadevano ariostesche scene d’intrighi e di discordie.»
Quante volte, purtroppo, sentiamo, nei più diversi ambienti, la fatidica frase “credere nella scienza” che rappresenta uno dei più stridenti ossimori che possano essere immaginati. E quante volte in base a questo ossimoro si tarpano le ali a dibattiti, indagini, ricerche, che, al di fuori di una mistica fede nella quale la scienza si compiace talvolta di racchiudersi, potrebbero avere sviluppi importanti anche sotto i loro aspetti sociali e politici. Non profeta, il Croce, ma certamente capace di osservazione e analisi di grande interesse anche a distanza di tempo di oltre un secolo.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro, con il capitolo dedicato a Gabriele D’Annunzio:
È fuor di dubbio che il D’Annunzio occupa un gran posto nell’anima moderna e che lo occuperà di conseguenza nelle storie che si scriveranno della vita spirituale dei nostri tempi. Intorno a ciò mi parrebbe ozioso disputare, né so rispondere senza impazienza alla domanda, che cosí spesso si ode risonare nelle conversazioni: «Credete che il D’Annunzio sia davvero artista?». Credete? E come, di grazia, si farebbe a credere altrimenti? E che cosa è l’entusiasmo e il fanatismo di tanta gente per l’opera sua, e che cosa l’odio feroce di tant’altra, se non il segno che ha sempre accompagnato l’apparire e il manifestarsi degl’ingegni che si levano sul livello comune? E che cosa il lavorio di pensiero che ormai da un ventennio ferve intorno a quell’opera, se non il riconoscimento del suo valore? Alla critica spetta miglior ufficio che affermare o negare ciò che è evidente. Essa deve procurare di farsi mediatrice tra quelle tesi e sentimenti opposti, tra quell’amore e quell’odio, e collocare in giusta luce il suo autore e mostrare da qual punto bisogni guardarlo per giudicarlo rettamente.
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