La giunca degli uomini vecchi
(fiaba malese).
di
Jack la Bolina
(pseudonimo di Augusto Vittorio Vecchi)
tempo di lettura: 7 minuti
Certe mie antiche carte narrano come migliaia e migliaia d’anni fa nella grande isola di Borneo regnasse un vecchio e savio Signore che ogni sua cura riponeva nell’assicurare ai suoi sudditi la felicità.
Seduto su d’un trono aureo e gemmato rendeva giustizia ed ascoltava il reclamo del più umile, come accettava l’omaggio dei più potenti della contrada che la Provvidenza aveva creata ricca sovra tutte le altre.
E per tema che nelle provincie lontane i suoi luogotenenti non facessero il proprio dovere, come non di rado accade allorché i Regni sono troppo vasti, il buon Re percorreva sovente il territorio e se incontrava governatori colpevoli aspramente li puniva ed i buoni regalmente ricompensava.
Ma le continue cure del governare il suo popolo avevangli fatto trascurare l’educazione del proprio figlio che doveva succedergli sul trono di Borneo.
Invano aveagli posto intorno savi maestri d’ogni scienza, ma il giovane Principe preferiva ad ogni altra cosa la caccia nelle foreste della grande isola paterna.
Valoroso, forte ed instancabile, le foreste e la montagna non avevano segreti per lui. Armato del terribile Kris dalla lama fiammeggiante egli non esitava a lottare colla tigre e colla pantera; la freccia ch’egli scoccava dall’arco giungeva sicura al cuore dei grossi bufali selvaggi che popolano le paludi della Malesia.
Una balda schiera di compagni delle sue rischiose venture lo seguiva sempre, e sovente la tranquillità della Reggia paterna veniva turbata dal tumultuoso giungere della comitiva reduce dalla caccia affannosa.
Invano il Re tentava allora rimproverare il figliuolo. Egli era sì bello, sì maschiamente bello e sì felice delle sue giornate spese fra i pericoli della caccia, che al buon vecchio signore morivano sul labbro le parole di rimprovero.
Però talvolta la notte prima di chiuder gli occhi al sonno pensava mestamente e diceva: “Che farà mai del mio popolo questo figliuolo mio che altro non sogna fuorché la persecuzione delle fiere?„
Tanto maggiormente si accorava in quanto che un suo ministro avevagli narrato come sovente il Principe, quando le corse di lui lo conducevano sulle vette dei monti d’onde lo sguardo spaziava sull’azzurro del mare e d’onde scorgevansi terre che la lontananza pingea in pallido ceruleo, si rizzasse in arcione ed additando ai compagni quelle contrade a lui incognite esclamasse: “Ecco dove andremo insieme a cacce nuove e la distanza non ci arresterà mai.„
Cui il coro dei cacciatori rispondeva giulivo: “No, niuna distanza ci atterrirà, andremo teco, o nostro signore e come schiavi ti ubbidiremo.„
E cotali propositi del Principe non ripeteansi solamente alla Reggia, ma anche nella città, nei borghi e nei campi. Sì che tutti coloro ai quali piuttosto che il sudato lavoro piaceva la rapina facile sorridevano al pensiero che il futuro Re sarebbe stato un Re guerriero e che distogliendo il popolo all’opera dei campi lo avrebbe trascinato alle conquiste lontane che appaiono più belle e che non sono.
Grave d’anni e di pensieri il vecchio Re di Borneo morì. Se i funerali furono sontuosi ve lo lascio immaginare. Pigliarono gramaglia tutti i grandi dignitari del Regno. Il Principe che aveva raccolto le ultime raccomandazioni di pace dal labbro paterno pianse e cessò dalle cacce consuete. Ma più che la Reggia pianse la campagna; lacrimavano e si picchiavano il petto i contadini usi al dolce governo del vecchio sovrano.
Pochi mesi di lutto del nuovo Re seguirono i funebri. Poi una inconsueta attività nelle armerie e negli arsenali di Borneo fecero comprendere qual fosse la mente del principe.
Chiuso in lunghi conciliaboli con i suoi giovani amici, egli preparava le armi e maturava i disegni di guerre contro i vicini. Né si poneva quella segretezza che richiedeva la prudenza, sì che taluni dei suoi intendimenti trapelarono; onde i vicini reami di Malacca e di Siam tentarono ancor essi di premunirsi contro l’invasione e quei sovrani avvisarono il Sublime Imperatore della China del pericolo che tutta l’Asia minacciava.
Grave fu il duolo de’ Chinesi allorché giunse loro quella non lieta novella. I loro campi con tanta sapienza coltivati, le loro città vaste e non circondate di mura, le sponde dei loro immensi fiumi cosparse di sontuose ville e di profumati giardini sarebbero dunque contaminati e manomessi da torme di barbari sanguinari non d’altro avidi che di sangue e di preda?
Nei consigli imperiali cozzavano i pareri. C’era fra i ministri chi stimava buona cosa chiamare a raccolta sotto le bandiere le milizie delle campagne e della città e condurle in riva al mare per opporsi allo sbarco dell’invasore. C’era ancora chi preferiva propiziarselo con doni e con le promesse d’un annuo tributo.
Infine mentre ferveva la discussione un vecchio mandarino conosciuto per la sua sottile intelligenza fertile in ogni maniera di trovate, dimandò d’esprimere una sua idea e cominciò a tracciarla colle seguenti parole.
– Alto mio Signore, e voi compagni miei ascoltatemi. Da quanto mi venne detto da esperti naviganti che hanno toccato i lidi di Borneo, ignorante è il sovrano di quella grand’isola ed ignoranti i suoi sudditi. Il nostro nemico avrà udito nominare il nostro Imperio centro del mondo, ma non sa dove sia e quanta distanza da esso ci separi. Non armi né armati chiedonsi per contrastargli il passo per ora. Sarà prudenza l’apprestarne, ma prima dimando mi sia concesso tentare una prova che varrà a stornare dal nostro capo la terribile tempesta. Mi sia concessa una vecchia giunca sdrucitanota 1 sopra la quale saliranno meco uomini di mia scelta ed io andrò a Borneo e tali cose narrerò che riusciranno a farci liberi dall’invasione.
La riputazione d’astuzia di cui il mandarino godeva alla Corte di Cambaluc — allora sede dell’Imperatore dei Chinesi — era tale che la giunca gli fu concessa.
Ed egli si pose d’attorno a curarne l’armamento.
Scelse nell’arsenale più vicino la più vecchia fra le navi, v’infiorò alle antenne di bambasia vele vecchissime di stuoia qua e là rattoppate, trascurò qualunque eleganza negli attrezzi cui diede con arte un’apparenza di roba usata ed esposta da lungo tempo alle intemperie. Coprì di ruggine le ferramenta, piantò arboscelli in vasi di vecchio coccio ed infine scelse a compagni provetti marinari che l’età grave avesse incanutiti e la bocca de’ quali fosse sguarnita di denti. Sordidamente sé ed i compagni vestì di panni stinti o frusti ed accompagnato dai voti de’ suoi conterranei, poiché ogni cosa fu pronta, salpò l’ancora e veleggiò alla volta di Borneo.
Non trascorse un mese che la strana giunca fu in vista della grande isola e che come smarrita per il mare e lieta di pigliar terra s’approssimò ad una spiaggia dove sorgevano molte case raccolte in grosso e popoloso villaggio.
Il capo di questo cercò di chiacchierare col vecchio capitano ma questi ignorava o fingeva d’ignorare la lingua malese e niuno comprendeva l’idioma chinese. Ma la strana foggia di quella giunca, la tranquilla ed operosa vecchiaia de’ marinai d’essa indussero il governatore ad avvertire il Re dell’approdo d’una nave.
Questi con i compagni suoi consueti, speranzoso d’avere informazioni intorno alle contrade al di là del mare, accorse immantinente e fece chiamare presso di sé il vecchio capitano onde sapere la loro provenienza.
Il mandarino seguito da uno stuolo di suoi seguaci non se lo fece dir due volte ed appoggiato ad un bastone, a curve spalle, coperto di cenci, recossi al cospetto del Re.
Ivi, aiutandosi coi gesti, coi cenni, usando vocaboli di varie lingue per farsi comprendere, disse al Re che la giunca aveva lasciato un porto della China.
Immaginate la gioia del giovane conquistatore cui offerivasi modo di aver notizie preziose della contrada la cui conquista aveva sovente sognato.
— È molto distante? — domandava.
— Molto, molto, — rispondeva l’astuto mandarino.
— Quante giornate?
— Non giornate, o Principe, ma anni e mesi. Questa mia rada barba che ora vedi bianca era nera quando partii dalla mia contrada. I miei compagni che tu vedi sdentati ed affranti dall’età erano giovani e robusti, allorché imbarcaronsi meco sulla mia giunca ch’era nuova, nuova.
Nuove eran le vele, nuovo ogni attrezzo uscito dalle mani del fabbro o del legnaiuolo. Financo questo mio bastone sul quale mi appoggio affaticato era tenero stelo d’una pianta che meco avevo preso come ricordo del nativo villaggio.
Sbalzati dalle tempeste siamo qui approdati a ricovero per domandarti vettovaglie per riprendere il nostro cammino sull’acque e tentare con poca spernenuanza di ritornare al nostro paese e d’essere seppelliti presso ai nostri cari.
Nonostante che la nostra nave sia sdrucita e vecchia come noi, faremo quanto sarà in noi per conseguire la nostra mèta. Non tutti al certo ci arriveremo, ma forse qualcuno di noi potrà raccontare che ha visitato la grande isola di Borneo che alcuno fra i miei compatrioti non conosce fuorché di nome.
Fece senso al Principe il racconto dell’astuto vecchio e concessi ch’egli ebbe i chiesti viveri alla nave, depose ogni pensiero di conquista a danno di una contrada così lontana dal proprio reame.
Il sottile vegliardo ben presto partì colla vecchia sua giunca e sorridendo narrò al Consiglio del suo Imperatore come avesse ingannato il conquistatore ignorante e come avesse stornato dalla pacifica patria la tempesta d’una selvaggia invasione.
Ecco quanto fra le mie antiche carte ho trovato per voi o miei giovani lettori.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La giunca degli uomini vecchi (fiaba malese)
AUTORE: Jack la Bolina (Augusto Vittorio Vecchi)
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti