La giumenta nera
di
Grazia Deledda
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Preceduto da due servi, Antonio Dalvy andava di villaggio in villaggio, acquistando giumente e puledri di buona razza, per spedirli al continente. Egli era un bell’uomo sui quaranta, alto, grasso, con la testa gettata all’indietro; con occhi un po’ obliqui, un po’ verdognoli, d’un fuoco straordinario, mal celato da grosse palpebre abbassate. Era discretamente ricco, ammogliato con una donna nobile; un uomo operoso, infine, d’ottima fama.
Faceva grossi negozi di scorza, di carbone, di cenere, ed ogni anno andava in terra ferma. Quell’anno, un suo corrispondente gli aveva proposto di acquistare un certo numero di puledri e giumente di buona razza sarda. Prevedendo un buon guadagno, egli s’era messo tosto all’opera.
Bellia e Ghisparru, i due servi, lo accompagnavano o lo precedevano, scovando nei villaggi e nelle campagne del Nuorese i bei puledri dalle forme perfette, e le giumente dagli occhi melanconici.
Il negozio procedeva così. Davanti a due testimoni, Antonio Dalvy dava una caparra al venditore, e gli lasciava in custodia la bestia acquistata. Al ritorno, finito il giro, padrone e servi sarebbero ripassati per prendersi, mano mano, i puledri e le giumente, versando il restante prezzo.
Era di maggio, e Dalvy viaggiava su un bel cavallo alto e rosso, dalla piccola testa irrequieta. Nelle ore di gran sole, quando le alte erbe dei piani selvaggi lucevano, immobili sotto lo splendore del cielo turchino, il negoziante spalancava un ombrello verde, piantandoselo ben davanti al viso.
Allora la linea obliqua dei suoi occhi semichiusi, sotto l’ombra verde, al riflesso verde dei pascoli, delle macchie ardenti, pareva di smeraldo: si scorgeva da lontano.
Un giorno i servi capitarono vicino ad una chiesa campestre.
— Andiamo a dir un’ave-maria — disse Ghisparru, che era assai devoto, sebbene molto ignorante e selvaggio.
Ma Bellia era stato soldato, non credeva molto in Dio; e rise udendo la proposta del compagno.
Tuttavia s’avvicinarono alla chiesa. Questa chiesetta sorgeva nel mezzo di due cortili, uno dentro l’altro, ed entrambi circondati di stanzette, chiamate cumbissias, nelle quali abitavano i devoti paesani dei borghi vicini, durante il tempo della novena.
Ora la chiesetta coi suoi due cortili, coi suoi due portoni, coi suoi due circoli di cumbissias, taceva deserta fra i campi verdi, nel selvaggio fiorir delle macchie.
Intorno si stendeva una specie di brughiera, fitta di piccole macchie, di rose canine, di mirti e corbezzoli in fiore.
Lontane praterie, pascoli, linee di messi, chiudevano l’orizzonte: una lista d’acqua, fra sambuchi e tamerici brillava in lontananza.
Le rondini passavano, fischiando come dardi da una inferriata all’altra della chiesa: e un vecchio custode tesseva stuoie di giunco, seduto all’ombra del primo portone.
I due servi s’avvicinarono, si fecero il segno della croce, e salutarono il custode.
Costui rispose al saluto, senza alzarsi, senza smettere il lavoro.
— Che chiesa è questa? — chiese Ghisparru, curvando il suo testone dai capelli grigi arruffati. E stette a guardar bene attraverso i due portoni in fila, spalancati.
— Santu Juanne Battista, fratello di Dio — rispose il custode, facendosi il segno della croce.
— Ci fate vedere?
— E perché no?
Il vecchio s’alzò, depose accuratamente per terra i fasci di giunco verde, odoranti di frescura palustre, e condusse i due uomini in chiesa.
Era una chiesa piuttosto ricca, con pavimento ed altare di marmo, con qualche rozzo affresco, dal quale Dio appariva come un vecchione, con una gran barba bianca, seduto sulle nuvole.
Sull’altare un grazioso San Giovanni biondo, vestito come un sardo pellito, benediceva sorridendo.
I tre uomini s’inginocchiarono, poi cominciarono a girar per la chiesa, fresca, pulita, luminosa.
Le rondini passavano rapide sotto la vôlta, volando da una finestra all’altra, e riempiendo la chiesa di gorgheggi.
Il vecchio custode spiegava qua e là qualche cosa ai due paesani. Sembrava, così piccolino com’era, in maniche di camicia, con larghe brache d’orbace, strette alla vita da una cintura di cuoio, col capo calvo coronato appena sulla nuca da pochi riccioli argentei, e una corta barba bianca intorno al volto calmo, sembrava, dico, un vecchio apostolo di Rubens.
Ghisparru, per parte sua, tornato davanti all’altare, trovò che anche il piccolo San Giovanni rassomigliava a qualcuno.
— Di’, Bellia, — disse, urtando un po’ il compagno, — a chi rassomiglia quel Santo?
L’altro sollevò il volto e guardò bene.
— Un piccolo agnello nero…
— Va! Va! A un cristiano!
— Non lo so.
— A Giame — mormorò Ghisparru con rispetto.
— Chi è Giame? — domandò il custode, sollevando il viso.
Anche Bellia tornò a guardare il Santo, e disse:
— Il figlio del padrone. Costui gli è balio (marito della balia), e tutte le cose belle che vede le rassomiglia a lui. Aspetta, aspetta, bello mio, quando torna dallo studio ti porrà il piede… dietro, e ti caccierà via. Eh! Eh!
Ghisparru non rispose. Tornò a inginocchiarsi, pregò un poco, e poi uscì fuori.
Ritornati nel primo cortile, i due servi chiesero al custode chi aveva fondato la chiesa, e se era molto ricca, e quanto a lui davano di paga.
Il vecchio raccontò una lunga storia, d’una dama che aveva i demoni in corpo, e che andava a cavallo, di notte, per le campagne, come una fantasima. E questa dama, chiamata donna Rofoela Perella, era molto devota, e andava sempre in chiesa, ma all’ora della benedizione doveva uscir fuori perché altrimenti smaniava e urlava, e batteva la gente con forza da leone. Era andata persino a Roma, ma neppure il Papa aveva potuto scacciarle i demoni. Allora, essa aveva fatto un voto, di edificare cioè e dotare una chiesa se guariva. E una notte, cavalcando, tutto ad un tratto gli spiriti maligni l’avevano abbandonata. Essa smontò da cavallo, si gettò per terra, baciò le pietre, e promise di edificare in quel sito una chiesa a San Giovanni Battista, del quale era assai devota.
Ora la chiesa possedeva terre, denari, rendite, armenti. Molte offerte venivano fatte al Santo. Inoltre ogni anno, in autunno, il custode partiva con un cavallo carico di bisaccie, e sul braccio portando una nicchia di legno e vetro con entro una statuetta del Santo. E andava pei villaggi, chiedendo la santa elemosina.
Le pie donne del Nuorese davano danari, cera, lana, frumento: in Barbagia le bisaccie venivano colmate di noci, fagiuoli, castagne: in altri luoghi i devoti offrivano formaggi, olio, miele, bestiame. Tutta questa roba si vendeva, e così ogni anno aumentavano le ricchezze del Santo, i suoi terreni ed i suoi armenti.
I due servi ascoltavano a bocca aperta, specialmente Ghisparru.
— E a voi cosa vi danno?
— A me? Nulla — disse il custode. — Vivo dell’elemosina speciale che i pellegrini e i devoti mi fanno.
I due si guardarono: poi trassero ciascuno una monetina, e gliela porsero.
— Una per me, una per il Santo — disse il vecchio, baciando le monete.
— Come vi chiamate? Non avete figli?
— Chi non ha moglie non ha figli. Io mi chiamo Juanne Battista (si fece il segno della croce), figlio di Dio e di Sant’Antonio Nota 1. E voi chi siete? Dove andate?
— Noi siamo servi di Antonio Dalvy di D… — disse Bellia, con certa boria. — Andiamo in cerca di puledri e giumente, che il nostro padrone compra.
Il vecchietto sollevò gli occhi.
— Oh? Io ho una giumenta! Volete comprarla?
— Come l’avete?
— Come l’ho? Come si hanno le cose del mondo.
— Non sia raspis, raspis! — disse Bellia, facendo ondeggiare e poi piegando le dita della mano destra Nota 2. E rise.
— Tu possa fare il riso della melograna Nota 3 — gridò indignato il vecchietto. —Me l’hanno data, la giumenta. L’anno scorso è venuto alla festa un signore ricco, ricco. Era alto così, come me e te sopra di me, con una barba lunga che pareva un fascio di raggi di sole. E gli occhi in colore del cielo. Era un signore che è sardo, ma vive in terra ferma anzi fuori del regno (forse era il Marchese di Mores). Basta, si divertiva molto e guardava ogni cosa con tanto d’occhi, e ballava, e beveva poi! Basta, aveva questa giumenta, la vedrete, e s’è messo a correre con gli altri cavalli, ed ha vinto il premio. Basta, mi si è avvicinato, e mi ha detto qualche cosa in lingua che io non comprendevo. Io m’inchinavo e lo salutavo. Poi mi ha detto qualche altra cosa. “Cosa dice, monsignore?”. E uno mi ha spiegato: “Ti domanda cosa fai tutto l’anno”. “Ah, monsignore, stuoie, cestini, sgabelli di ferula”. “Fate vedere”. Io gli mostro una stuoia. “Bella! Bella!”. “Beh,” — dico io, — “se è bella gliela regalo”. Aveste visto come brillarono i suoi occhi! Dice: “Piacervi mia cavalla?”. “Cosa?” dico io. “Si ti piachet cabadda mea?” dice lui, tendendo il dito verso la giumenta. “Molto!” dico io. “Ebbene, è tua, pigliala, è tua”.
— Palla che vi sfiori! — gridò Bellia. — E voi l’avete presa?
— Altro! Prima dicevo di no, ma quel signore ha tanto insistito che la presi. Se vedeste come è bella! È nera di fondo, tutta a punti bianchi: pare ci abbia nevicato sopra. Basta, sentite poi cosa avvenne. C’era un uomo, un paesano ricco, un principale, infine. Cosa fa egli, la volpe astuta? Pensa: “Se a quel povero diavolo che ci regala una stuoia, dà una giumenta, cosa darà a me se ci farò un gran regalo?”. Subito, prende per la briglia il suo cavallo, baio balzano, molto bello anche quello, e va dal signore, e gli dice: “Ora lei non ha come tornarsene in paese: prenda questo cavallo che le regalo io”. Quello là s’è messo a guardarlo, poi s’è messo a ridere, e cosa fa? Accetta il cavallo, e dice: “Mi riserverò”. Poi ho saputo che, tornato in terra ferma, ha mandato al principale una scatola di dolci.
— Bene! — dissero i servi, che si divertivano assai, udendo parlare il vecchio: e Bellia aggiunse:
— Che la giustizia lo percuota, quel signore era un’aquila in paragone del principale.
— E questa giumenta si può vedere? È probabile che il padrone l’acquisti, tanto più che abbiamo finito il giro.
— La giumenta non è qui: ma se volete, io, domani, la reco qui, e voi intanto andate e tornate col padrone.
Restarono intesi così. I due servi tornarono nel vicino villaggio, e informarono il padrone: e l’indomani tutti furono di nuovo davanti al primo portone della chiesa.
Bellia prese l’ombrello del padrone, Ghisparru tenne fermo il cavallo, e Antonio Dalvy smontò pesantemente, sbuffando, aprendo gli occhi verdi.
Zio Juanne Battista andò a prender la giumenta che pascolava tra le macchie fiorite.
Da lontano le gettò al collo il nodo scorsoio d’una corda di pelo, e la condusse alquanto riluttante davanti al compratore.
Non era veramente una gran bestia, ma appena le aprì la bocca e le palpò la schiena, Dalvy s’avvide che era una giumenta assai giovine, poco faticata, e decise acquistarla.
— Provala — disse a Bellia.
Il servo la montò in un salto, a dorso nudo, e le batté i calcagni sui fianchi. La bestia partì come una freccia, e per rattenerla il servo si gettava all’indietro, tirando forte la corda.
Arrivato in fondo al sentiero, la fece a stento voltare, e tornò ansando, gridando:
— In fede mia, pare un puledro, non una giumenta, che il diavolo la cavalchi.
— Bene, bene — disse Dalvy, battendo una mano sulla groppa della bestia, che fremeva. — Non è ancora ben domata, sebbene non sia più tanto giovinetta. Veramente non è una gran cosa, è troppo bassa, sembra una mula; ma poiché siamo qui!… Bene, quanto ne volete?
Il vecchietto ci aveva ben pensato; anzi aveva chiesto consiglio: ora però si trovava alquanto imbarazzato alla presenza di quel grosso uomo dagli occhi di gatto, dal fare sprezzante.
Tuttavia trovò un po’ della sua astuzia, e disse, come facendo una gran concessione:
— Se non fosse perché ho gran bisogno non la venderei; ma il bisogno… ah, il bisogno, vossignoria sa il proverbio sardo, il bisogno mette il vecchio a correre. Basta, giacché è per lei… cinquanta scudi.
Dalvy si mise a ridere: i servi risero nel vederlo ridere.
— Per me! Siete astuto, buon ometto, ma nello stesso tempo si vede che non avete mai venduto dei cavalli.
— Mi scusi, monsignore, ma…
— Come vi chiamate, voi?
— Juanne Battista…
— Ebbene, andate a farvi benedire, zio Juanne Battista. Perché mi fate ridere?
— Ma, infine, — disse il vecchietto, rosso, rosso, — l’ho fatta periziare, io, questa giumenta, da chi se ne intende.
— Volete dire che io non me ne intenda?
— Non dico questo. Basta, parli la vossignoria.
— Vedete, — disse Dalvy, volgendosi verso il suo bel cavallo, — lo vedete quello lì? Ebbene, quello lì che è quello lì, costa sessanta scudi.
— Quando era puledro — mormorò Bellia a Ghisparru.
— Tu sta zitto.
— Zitto tu stii sempre, come le pietre.
— Basta, — disse il custode, che tendeva l’orecchio da quella parte, — dica la vossignoria.
Aveva gran voglia di sbarazzarsi della giumenta, e finì col cedere per centosettantacinque lire, che Dalvy pagò in fogli da venticinque, nuovi fiammanti.
— Ah, questi sono belli. Se… — disse zio Juanne, mettendoli entro una borsa di cuoio.
Parve voler dire qualche altra cosa, ma alla presenza dei servi non osò.
— Se la vossignoria vuol veder la chiesa?
— E vediamo la chiesa — rispose con degnazione Dalvy.
I servi rimasero fuori.
— Fate presto, zio Juanne — gridò Ghisparru.
— Bah! Bah! Egli mi chiama zio Nota 4! È più vecchio di me! — mormorò il custode.
— Ah, ma è un buon servo! Non c’è il compagno! — confidò Antonio Dalvy al vecchietto.
Intanto costui condusse il negoziante in chiesa, gli porse l’acqua benedetta, gli fece veder ogni cosa.
— Poh! — diceva Dalvy, sbuffando bonariamente. — Bello! Bello! Ma proprio bello! Pare impossibile, guardando di fuori, che sia così bello dentro. E quando è la festa?
— Il trenta maggio. Fra poco.
— Poh! Poh! Bello! Ora dico a mia moglie che ci venga! E che conduca tutte le sue parenti! — aggiunse come fra sé, sorridendo. — E anche suo figlio, nelle vacanze. È devoto, quel ragazzo, come tutti quelli della stirpe di sua madre!
Dopo la chiesa, il custode fece vedere la cumbissia dei priori, quella del cappellano, ed altre ancora. Quando furono fuori, si volse un po’ timidamente a Dalvy, e gli disse:
— Se la vossignoria permette, le chiedo un favore.
L’altro aprì un po’ gli occhi, avvolgendo il vecchietto in uno sguardo poco promettente.
— Non le chiedo l’elemosina, — disse fiero il custode, — se mi vuol dare qualche cosa è suo dovere; ma non è questo. È questo, senta: lei ha tanti biglietti nuovi, senta: io ho messo da parte, per quando sarò gettato in un angolo, un po’ di denaro, ma è tutto in biglietti piccoli, un po’ sporchi; e il piacere è se può cambiarmeli.
Così dicendo, nel rivelare il suo gran segreto, zio Juanne Battista arrossì. Una fiamma passò anche sul volto del negoziante.
— Se non è che questo!
— Questo, questo solamente!
— Portate fuori! Portate fuori!
Il vecchio entrò in una cumbissia; ne uscì poco dopo, con un involto in mano; vide Bellia che, con la testa entro il portone, sembrava spiare, e nascose l’involto.
— I suoi servi spiano — disse piano. — È meglio che non vedano, capisce vossignoria.
— Sì, sì — disse l’altro con premura, mentre zio Juanne Battista lo attirava entro la cumbissia, tutta ingombra di stuoie e cestini ancor freschi.
S’avvicinarono alla piccola finestra, e lì, sul davanzale terroso, davanti ad un fresco sfondo di brughiera primaverile, scambiarono i denari.
Antonio Dalvy uscì fuori tutto rosso e sbuffante, vide anch’egli il viso terreo e gli occhi cisposi di Bellia spuntare nel vano del portone centrale, e attraversò il cortile a rapidi passi.
— Quello stupido, quanto tempo mi ha fatto perdere, mostrandomi i suoi buchi — disse.
Di lì a un minuto, mentre egli rimontava a cavallo aiutato dai servi, ricomparve zio Juanne Battista. Era tutto allegro, si stringeva la cintura, si fregava le mani.
— Bene, addio — disse il negoziante, accomodandosi in sella.
— Iddio e San Giovanni la accompagnino. E faccia venir sua moglie e suo figlio alla festa, vossignoria.
— Bene, bene — andava ripetendo Dalvy, sempre accomodandosi in sella.
I servi gli stavano attorno, premurosi, stringendogli le staffe, accomodandogli lo sprone, senza più badare al vecchietto.
Alla fine furono tutti all’ordine. Antonio Dalvy partì per il primo, col suo ombrello verde aperto; poi s’avviarono i servi, a piedi, tirandosi dietro la giumenta nera picchiettata di bianco. La povera bestia si ribellava alquanto, gettava la testa all’indietro, scuoteva la coda: pareva sentisse la fine della sua libertà.
E zio Juanne Battista rimase solo, all’ombra del portone, davanti al grande paesaggio verde, fiorito e solitario.
Qualche tempo dopo, Bellia, il servo di Antonio Dalvy, fu arrestato in flagrante spaccio di biglietti falsi. Perquisito, gli si rinvenne addosso una non piccola somma in biglietti, in parte buoni, in maggior parte falsi.
Egli parve o finse abilmente cascar dalle nuvole: disse che la somma era sua, che erano i suoi risparmi, il suo lavoro di dieci anni; poi depose di aver trovato un involto di denari, e che credendoli buoni se li aveva appropriati; e infine si confuse e contraddisse in mille modi. Fu condannato a tre anni e cinque mesi di reclusione.
Egli era un uomo bilioso, astuto, malvagio: il suo viso terreo, un gran naso spaccato nel mezzo, due occhi rossi e cisposi, inspiravano repugnanza a guardarlo.
Mentre stava in carcere e gli si instruiva il processo, trovò modo di mandare una persona fidata da Antonio Dalvy, dicendogli che cercasse in tutti i modi di salvarlo, ché altrimenti il negoziante se ne sarebbe amaramente pentito.
Interrogato, Dalvy aveva favorevolmente deposto in difesa del servo, ma ora, a quell’ingiunzione minacciosa, si fece rosso d’ira, sbuffò, e per poco non prese a calci la persona fidata.
— Il becco ladro! — gridò. — Che ci ho da veder io con lui? Sta a vedere che dice di averglieli dati io i biglietti falsi. Andate via, e fategli sapere che se pronunzia il mio nome, starà per molto tempo al servizio del re (in carcere).
La persona fidata se ne andò; di lì a pochi giorni tornò, ed ebbe un altro colloquio con Antonio Dalvy. Questa volta costui non gridò: solo fece vedere alla persona fidata una carta, per la quale Bellia s’obbligava di servir gratis un anno intero il signor Antonio Dalvy, dopo avergli rubato un bue grasso.
Scoperta la cosa, s’erano arrangiati con quell’obbligazione.
— Che non mi rompa dunque le scatole, andate via!
Mise così alla porta, per la seconda volta, la persona fidata. Questa, però, tornò una terza volta:
— Che almeno la vossignoria gli cerchi e paghi un buon avvocato; che gli mandi qualche cosa in carcere; che uscendo di là lo accolga di nuovo al suo servizio.
— Altra palla che gli trapassi il fegato! — gridò Dalvy, con gli occhi brillanti come smeraldi. — In quanto al servizio, vedremo quando sarà fuori, il che non sarà né oggi né domani. Ma per il resto, uscitemi di tra i piedi, se non volete pigliar la parte vostra.
La persona fidata se ne andò mogia mogia, e non tornò più. Bellia fu condannato.
I suoi compagni di disgrazia lo vedevano darsi alla disperazione, mordersi i pugni, tirarsi i capelli, digrignare i denti. Anche nel sonno sbatteva la testa sul giaciglio, e gemeva come un cane arrabbiato.
Poi fu portato via, lontano, e per lungo tempo non si seppe più nulla di lui.
Zio Juanne Battista intesseva sempre le sue stuoie e intrecciava i suoi cestini all’ombra del portone, davanti al gran paesaggio verde, fiorito e solitario.
Erano scorsi circa quattro anni, dopo che aveva venduto la giumenta a quel grosso signore dagli occhi di gatto, come egli diceva, che gli aveva anche cambiato i denari.
Solo quattro anni: ma il custode pareva invecchiato di dieci o dodici anni. Era triste, cupo: sembrava un eremita decrepito, invaso da crudeli rimorsi.
Inoltre i tempi si rendevano cattivi; la gente passava dritta davanti alla chiesa segnandosi, senza entrare neppure nel primo cortile: l’obolo veniva meno.
Quell’anno zio Juanne aspettava con certa ansia la festa. La primavera moriva in uno splendore di messi, d’erba fiorita, di cielo ardente.
Dal suo portone il vecchio vedeva distese di papaveri che ardevano come brage, e più in là, verso l’orizzonte, praterie interamente coperte di fiori violetti.
Niente animava quella splendida solitudine; solo di notte, sotto le lucide stelle, al soffio caldo di selvaggie fragranze, giungeva un lontano tintinnar di greggie, lento, tranquillo, melanconico.
Ma al giunger della notte, zio Juanne si faceva ancor più triste e cupo: girava tremando per i cortili, spesso si gettava per terra, pregando, temendo che un giorno o l’altro lo trovassero lì morto, mezzo divorato dai corvi.
Verso la metà di maggio, venne il priore, un ricco paesano dal corpetto rosso, dalla barba bianca, ispezionò ogni cosa, fece pulire le stanze del cappellano, e ripartì. Pochi giorni dopo ritornò in capo ad una numerosa carovana di paesani a cavallo.
Il priore portava uno stendardo di broccato verde, con lunghi nastri; poi veniva il cappellano in fracchina Nota 5 nera, poi altri paesani tutti vestiti in rosso, con donne sedute in groppa ai piccoli cavalli, e bambini in iscuffiotto di scarlatto, con la fronte coperta da fitte frangie di seta nera; e cani stanchi, ansanti, a lingua fuori.
Da lontano i paesani cominciarono a sparare, a emettere urli di gioia.
Zio Juanne tirava la corda della campana e la campana suonava, e i rintocchi sottili, fessi, si smarrivano nell’aria azzurra.
La gente arrivò, smontò, entrò in chiesa: e le donne portavano offerte di cera, di monete, di merletti, di ricami, di fiori.
Poi ogni famiglia prese ad abitare una cumbissia: gli uomini portarono fasci d’erba e di fronde odoranti, e li sparsero in un angolo delle stanzette: le donne vi stesero su materassi, coperte, prepararono i giacigli, conficcarono chiodi nelle pareti, disposero gli arnesi recati dal paese.
Poi spazzarono la chiesa e i cortili, e gli uomini pulirono il pozzo, la cui acqua, come tutte le cose appartenenti alla chiesa, aveva, secondo il popolo, virtù miracolose.
Tutto il giorno arrivò gente: anche dai monti selvaggi della Barbagia giunsero uomini vestiti d’orbace, e donne dal cappuccio rosso.
I due cortili si cambiarono in un piccolo villaggio: la campanella squillava sempre, suonata dai fanciulletti già violenti e maneschi, che battevano tutto il paesaggio intorno animando l’immensa solitudine con le loro corse, con le loro grida di uccelli selvatici.
Il cappellano stava sempre a mensa con le gambe accavalcate, e la nappa della papalina sull’orecchio. Intorno gli si stendeva un quadro di figure caratteristiche. E tutti gridavano e ridevano.
Le donne accudivano alle loro faccende entro le stanzette: la prioressa e le donne che, per eredità secolare, facevano parte del comitato per la festa (ed erano le discendenti dei fondatori della chiesa, fra le quali soltanto venivano elette a turno le prioresse) cucinavano ogni giorno grandi caldaie di minestra e di maccheroni paesani, o di farro con formaggio fresco; e li distribuivano alle famiglie loro e ad una turba di poveri, di pezzenti puzzolenti che erano venuti ad attendarsi nel secondo cortile, venuti da lontani paesi solo per il vile scopo d’ottenere quella minestra e quel farro.
La chiesa fresca e odorosa, rallegrata dal trillo e dal fruscìo rapido delle rondini, veniva invasa e profanata da quei pezzenti che appestavano l’aria, che si grattavano, che non facevano posto, neppur pregati, alle persone civili. E si litigavano continuamente, fra loro, dandosi del mendicante e dell’immondezza, e del rognoso a tutte le ore.
Pellegrini puliti e devoti non mancavano mai. Venivano a piedi, scalzi, a testa nuda: alcune donne anzi a capelli sciolti.
Si trascinavano ginocchioni dalla porta all’altare, talvolta anche dal primo portone, e recavano offerte di denaro, di cera, di gioielli, di treccie di capelli. Se pagavano un tanto, il cappellano indossava il camice, curvava la testa per mettersi la stola, e il priore impugnava lo stendardo verde, e una processione, a conto del pellegrino, girava il cortile intorno alla chiesa: se si pagava il doppio, la processione girava per tutti i cortili.
Poi il pellegrino andava a lavarsi religiosamente nell’acqua del pozzo; poi il priore lo pigliava con sé, lo portava dalle donne che gli servivano vino, caffè, dolci di miele, e lo guardavano fisso chiedendogli di dov’era.
Egli finiva con l’ubbriacarsi come una bestia.
Se giungevano due sposi, alla donna si faceva baciar la mestola per augurarle d’esser buona massaia: lo sposo traeva dal pozzo una certa quantità d’acqua, per esser poi, nella vita, buon lavoratore.
E tutti i pellegrini dovevano almeno assaggiare, per devozione, la minestra o il farro.
Di mattina il cappellano diceva la messa, sul vespro la novena. Nessuno doveva mancarci. Sul finir della novena, mentre al di fuori il paesaggio s’addormentava sotto il roseo vespero, del cerchio dei luminosi orizzonti, il popolo raccolto nella chiesa cantava i gosos, le laudi del Santo, in antico spagnuolo; e quella nenia cadenzata, d’una melodia melanconica, in quell’ora di rosse ombre, perdute nell’immensa solitudine campestre, aveva più che mai tutta la nostalgia dei canti sardi, d’un popolo antico, ancora semi barbaro, che pare siasi svegliato dopo lunghi secoli di sonno, nell’epoca presente.
Di notte sorgevano alti fuochi: vi crepitava il lentischio, vi odorava il ginepro. I priori cantavano boriose gare estemporanee: gli occhi delle donne languivano di sogni.
E zio Juanne Battista?
Zio Juanne Battista si vedeva raramente. Assisteva alla messa, poi, presso la porta, riceveva l’obolo dei pellegrini: a mezzodì andava dalla prioressa con una scodella che gli si riempiva di minestra o di farro fumante; poi spariva. Qualche volta lo si udiva gridare coi mendicanti che sporcavano la chiesa.
— Levati di lì, pezzente.
— Non mi levo.
— Se non ti levi ti faccio levar io a bastonate.
— Il diavolo ti bastoni.
— Rognoso.
— Cocuzzolo spelato.
— Immondezza!
— Cosa avete, zio Juanne — gli chiedeva il priore. — Quest’anno siete più di malumore dell’anno scorso.
— Si avvicina la morte.
— Ebbene, lasciatela venire. La piglieremo a schiaffi.
— Ah, con essa non si scherza!
Intanto venne il giorno della festa. Sin dalla vigilia arrivò molta gente: da ogni paese arrivavano gruppi d’uomini e donne, e ciascun gruppo portava uno stendardo spiegato.
Appena smontavano di sella entravano in chiesa, e appena usciti di chiesa si mettevano a ballare il ballo sardo. E quelli d’un paese si beffavano e ridevano di quelli degli altri paesi. Non arrivava persona della quale questo o quell’altro non trovasse qualche cosa di ridicolo.
E tutti ridevano.
Mercanti girovaghi, liquoristi e venditori di sproni e briglie, s’accamparono in certe piccole loggie del primo cortile. La folla, quindi, era spessa laggiù, mentre il secondo cortile restava quasi deserto.
Il più indemoniato era un gruppo di paesani bruni, coloriti, ubbriachi, che ballavano cantando, al ritmo di strane poesie.
Assa festa ‘e Gasta so andadu,
La chi enit in primu eranu:
Inie b’er Baròre – b’er Baròre,
Inie b’er Baròre e Bastianu,
In paghe e cuncordia buffende:
E da chi la idèi – la idèi,
E da chi la idèi fugudende,
Rughei unu mortu, unu latadu.
Assa festa ‘e Gasta so andadu.
Alla festa di Gasta sono andato,
Quella che viene in primavera:
Là c’è Salvatore, – c’è Salvatore,
Là c’è Salvatore e Sebastiano,
In pace e concordia bevendo.
E da che la vidi – la vidi,
E da che la vidi immantinenti
Caddi uno morto, uno ferito (?).
Alla festa di Gasta sono andato.
Insistevano specialmente sui versi:
Inie b’er Baròre – b’er Baròre
e
E da chi la idèi – la idèi
ripetendoli cento volte, con cadenza, facendone il ritmo della danza.
Però, cambiavano versi allorché scorgevano giungere persone di altri paesi.
Arrivò, per esempio, un sacerdote a cavallo, in fracchina, con pantaloni corti: teneva un grosso ombrello sul davanti della sella, e pareva una figura da lanterna magica.
Qualcuno disse: è Nuorese.
E subito, quelli del ballo, intonarono questa quartina:
In Santu Predu han pesadu unu ballu,
A sonos de ghitarra e fiolinu;
Sos prideros non jughen collarinu,
Ca lis ha fattu in trughu unu callu.
In Santu Predu han pesadu unu ballu.
In San Pietro (vicinato di Nuoro) han formato un ballo,
Al suono di chitarra e violino;
I preti non portan collarino,
Perché ha lor fatto sul collo un callo.
In San Pietro han formato un ballo.
E la folla rideva. Grida selvaggie squillavano, nitrivano, salivano tra il mormorar delle cantilene ballabili.
I mendicanti si piantarono, uno a certa distanza dall’altro, ai lati del sentiero, a mano tesa, ripetendo una incessante litania di lamenti.
Sul tardi, la sera della vigilia, zio Juanne Battista si trovava per caso vicino ad uno di questi mendicanti, quando vide arrivare una donna e un giovane, seguiti da un paesano che aveva l’aria d’un servo.
La donna doveva esser una dama dei villaggi; era grossa, con guancie cascanti; vestiva con ricercatezza, un corsetto nero, chiuso, guarnito di lustrini, una larga gonnella di stoffa gialla; aveva in testa un fazzolettone di damasco violaceo, e, sebbene non più giovine, era adorna di collane di corallo. Montava a cavalcioni una mansueta giumenta nera picchiettata di bianco.
Il giovine doveva essere molto alto perché stava assai curvo sulla sella; aveva un volto di bambino pallido, e dal cappello tirato indietro gli usciva un gran ciuffo di capelli castanei.
Appena i mendicanti videro arrivare questi signori, cominciarono a lamentarsi più forte: la voce dell’uno voleva sopraffare quella degli altri, e tutti stridevano come tante cicale.
— Giame, — disse la donna con voce lamentosa, — arrangiati tu con questi poveri pezzenti.
Il giovine mise a lento passo il suo cavallo e dal taschino del panciotto cominciò ad estrarre con due dita, piccole monete di rame e di argento.
— A voi. Prendete.
— A voi.
— A voi pure. Ecco.
Era d’una gentilezza, d’una bontà estrema, con quei poveri che non smettevano di chiedere, e di benedire dopo aver ricevuto.
Fermava il cavallo, si curvava, metteva la moneta sulla palma aperta e sudicia dei pezzenti.
La donna andava avanti al lento passo della giumenta: il servo seguiva, guardando intensamente ogni moto del giovine.
Giunto presso zio Juanne Battista, Giame gittò una moneta nella bisaccia aperta del mendicante, che era o fingeva esser cieco: poi trasse un’altra moneta e la porse al vecchio custode.
Questo, che guardava con tanto d’occhi i nuovi venuti, respinse fieramente l’elemosina.
— Io non sono un mendicante.
— Scusate, allora — disse tutto umile il giovine.
Zio Juanne Battista s’intenerì, trattenne il gentile signore, e disse:
— Io sono il custode della chiesa, e conosco quella giumenta lì — appuntava il dito verso la bestia. — Quella era mia.
— Oh! Vostra?
— Sì, mia, in fede cristiana! — esclamò il vecchio, mettendosi una mano sul petto.
Intanto, mentre il cieco cercava la moneta entro la bisaccia, e benediva con voce cadenzata chi gliela aveva data, sopraggiunse il servo.
— Salute, zio Juanne Battista — gridò, fermando il cavallo.
Il vecchio guardò quel testone selvaggio, dai capelli grigi, lunghi e arruffati, e riconobbe tosto il servo.
Rispose al saluto, poi si rivolse ancora al giovine.
— Vostra signoria forse è figlio del signore al quale ho venduto la giumenta quattro anni fa? Ora la bestia è più mansueta, si capisce, ma la ho riconosciuta subito: poi riconosco anche questo uomo. Il padre di vossignoria era un uomo grasso, con gli occhi di gatto.
— Giusto! — disse Giame, ridendo.
— Oh, anche vossignoria ha gli occhi verdognoli! Si vede che è suo figlio! — gridò il vecchietto, fissando Giame. — Basta, se hanno bisogno di qualche cosa, quella là è sua madre, non è vero? comandino.
— Bisogna accomodarci per la notte — disse Ghisparru.
— Bene, bene, venite, vengano, accomodiamo tutto.
Il vecchio si mosse, camminò a fianco del cavallo di Giame.
Arrivati davanti al portone, ove donna Lillica aspettava, il giovine volse di fianco il cavallo, s’abbassò il cappello sulla fronte, e guardò il paesaggio.
Il sole era scomparso, ma tutta la pianura intorno, tutta la folta vegetazione, d’un verde dorato, i papaveri ardenti, la linea argentea delle messi, le praterie coperte di fiori violetti, e infine ogni macchia, ogni stelo, ancora caldi di sole, sorgevano immobili, lucenti, come compresi tutt’ora nell’arcana contemplazione del tramonto.
Il cielo svaniva via limpido, di un azzurro perlato, senza sfumature neppure all’occidente ove il sole era scomparso come una perla.
Giame provò un impeto di gioia davanti a tanta bellezza. E neppure la voce e la presenza dei mendicanti accampati lungo il sentiero, neppure l’urlìo e le barbare cantilene della folla, che profanavano la solennità dell’ora e del paesaggio, turbarono la luce del suo cuore.
Sorrise, coi begli occhi splendenti; avrebbe voluto inchinarsi, salutare la bella sera, il bel paesaggio; gittare all’aria un grido di gioia.
Attraversarono il primo cortile.
I paesani ballavano ancora, tenendo per mano le donne, che sorridevano stanche.
E da chi la idèi – la idèi,
E da chi la idèi – la idèi,
E da chi la idèi – la idèi…
Un gruppo abbastanza numeroso si raccoglieva intorno ad un individuo vestito di fustagno, con un fazzoletto di seta azzurra intorno al collo. Costui raccontava qualche cosa, e tutti ridevano e interrompevano il racconto con osservazioni salate.
Vedendo passar Giame e sua madre, un paesano gridò:
— Bibat sa dama! (Viva la dama!).
— E su cavaglieri! (E il cavaliere) — risposero alcuni altri.
Quelli del gruppo si volsero ridendo: l’individuo dal fazzoletto azzurro s’alzò, guardò, poi si risiedette e riprese il racconto.
I danzatori intonarono, in onore di dama Lillica:
Ca er bessida missignora,
S’alligret d’ogni muntagna:
Paret s’istella aurora, ecc.
Perché è uscita monsignora,
Si rallegri ogni montagna:
Sembra la stella dell’aurora, ecc.
Intanto Giame, sua madre e il servo smontarono davanti alla stanzetta del custode.
Donna Lillica si scosse le vesti, e fece alcuni passi, tutta rattrappita dal viaggio.
— Quest’uomo, — le disse Giame, presentandole il vecchio, — è il custode della chiesa, ed ha riconosciuto la giumenta: ché l’ha venduta egli, al babbo.
— È vero — disse Ghisparru.
— In fede mia, l’ho venduta io, per trentacinque scudi — ripeté il vecchio, accarezzando la bestia. — Eh, piccola colomba, te ne ricordi? Sei sempre la stessa; un po’ più buona però. Eh, te ne hai mangiato d’orzo e di paglia! La tua groppa sembra uno specchio. Basta, le vossignorie possono accomodarsi qui nella mia stanzetta. Ci sono le stuoie, e poi chiederemo qualche coperta al priore.
Nel mentre Ghisparru, aiutato da Giame, scaricava le bisaccie, e levava le selle ai cavalli, Donna Lillica continuava a far dei passi per sgranchirsi le gambe, e s’accomodava il fazzoletto e la collana. Voleva entrar in chiesa con decoro.
Alcune donne s’affacciavano alle porticine, la guardavano curiose, e la salutavano sorridendo, indovinando in lei una donna ricca.
In quella entrò nel cortile l’uomo vestito di fustagno, col fazzoletto azzurro al collo. S’avvicinò scuotendo le braccia, gridando:
— Salute, donna Lillica! Salute, monsignora! Salute!
— Tu pure qui, Bellia?
Era l’ex servo, da poco tornato di reclusione.
— Io pure qui! O non le pare, monsignora? Sono venuto ad interceder Santu Juanne Battista, che tocchi il cuore di Antonio Dalvy, perché mi ripigli al suo servizio. Eh! Eh!
Rideva con sforzo, con malignità. Giame e il custode erano dentro la stanzetta. Ghisparru toglieva le briglie ai cavalli, e vedendo Bellia e accorgendosi anche che costui era ubbriaco, lo guardava con disprezzo.
— Ohé! — gridò. — Non è luogo qui di cercar affari. Tu sei venuto solo, noi siamo venuti soli: va dunque per il fatto tuo.
Bellia sulle prime trasalì, poi riprese a ridere, fissando il servo.
— Oh, oh! Vi sei anche tu, balio? Bene, parleremo anzi d’affari con te, e con la dama e col figlio di latte…
— Va e coricati! — urlò Ghisparru, andandogli sopra.
— E anche con quello lì! — urlò a sua volta Bellia, additando zio Juanne, che usciva con Giame.
Il vecchietto lo guardò stupito, e, con quella veste, non lo riconobbe. Ma anch’egli s’accorse che quell’uomo era ubbriaco.
— Non mi riconoscete, zio Juanne Battista, figlio di Sant’Antonio?
— Tutti siamo figli di Dio! — rispose il vecchio offeso. — E tu di chi sei figlio? E chi lo sa?
— E chi lo sa? Lo so io! Ma voi non lo sapete! Voi siete figlio di Sant’Antonio: ed io sono figlio delle mie opere.
— Belle opere! — disse dama Lillica, avviandosi verso chiesa.
Bellia si volse, la seguì con lo sguardo, rise ancora.
— Preghi bene, monsignora, preghi per tutti, per gli uomini e per le bestie, per le volpi e per le lucertole, per gli avoltoi e per le colombe…
— E per gli asini! Va, va, va e coricati! — gli ripeté Ghisparru, minaccioso.
— Sì, vado e mi corico, perché sono ubbriaco. Ma non è tutto vino quello che ho in corpo; c’è altra cosa, c’è fiele, c’è assenzio, c’è tosco, ci son coltelli. Vado, vado, ma non si arrabbi, lei, piccolo dottore; ma dopo, quando sarò sano, parleremo. E anche con quello lì!
L’ubbriaco si volgeva sempre verso il custode, fissandolo coi suoi piccoli occhi cisposi, ardenti.
Anche zio Juanne lo guardava; e gli pareva averlo veduto altra volta, e un ricordo indistinto, quasi affannoso, gli sfiorava la mente, senza lasciarsi afferrare.
E anch’egli diceva:
— Vattene, vattene e coricati.
Intanto, assieme a Ghisparru ed a Giame, s’affaccendava ad accomodare i cavalli in una loggia vuota, legando al collo delle bestie e introducendo il loro muso entro sacchette colme di paglia. Bellia seguiva barcollando, lasciando intorno a sé un orribile odore di liquori.
— Voi non mi riconoscete — disse al vecchio. — Ebbene, ve lo dirò io chi sono. Sono Bellia Fava, quel servo di Antonio Dalvy, quello che ha comprato quella giumenta che vi ha regalato quel signore pazzo di terraferma.
Il vecchio spalancò gli occhi, fece un moto strano; ma tosto si ricompose e disse:
— Pazzo sei tu, occhio di vipera, non quel signore: va, va; va e coricati.
— Va, va — ripeteva anche Giame, chinandosi e sbattendosi l’orlo dei pantaloni.
A forza di sentirselo dire, l’ubbriaco parve suggestionato dall’idea d’andarsi a coricare.
— Sì, sì, vado e mi corico sotto una macchia; sì, andrò, e vomiterò il vino e l’acqua ardente che ho in corpo, ma devo vomitare anche altre cose. Bene, riparleremo: vi cercherò stanotte.
E se ne andò.
— Va al diavolo! — disse Ghisparru.
— Silenzio. Non provocarlo — mormorò Giame. Poi si volse al custode, e gli disse: — Bene, su due piedi, raccontatemi in breve la storia della donna indemoniata che fondò questa chiesa.
Tutto contento zio Juanne ripeté la storia di donna Rofoela Perella.
Giame ascoltava intento, con le spalle appoggiate al muro; ed anche il servo ascoltava, ma con aria inquieta ed irritata.
Udita la leggenda, entrarono in chiesa. Il servo mise la berretta piegata su un gradino e sopra poggiò le ginocchia.
Il suo volto selvaggio sollevossi verso il piccolo Santo vestito di pelli, e le sue labbra si mossero ad una fervida preghiera.
Nel mezzo della chiesa, sopra un pezzo di stoffa gialla, posava la nicchia di legno e vetro che usavasi portare in giro per chieder l’obolo nei villaggi. Due ceri ardenti traevano scintille dal vetro, dietro il quale la statuetta tendeva le piccole braccia. Un agnellino bianco lambiva la corta veste del santo.
Prima di lasciar la chiesa, i devoti s’inginocchiavano sul lembo del rozzo tappeto giallo, pregavano, baciavano la piccola nicchia, e lasciavano l’offerta in un vassoio di metallo.
Giame osservò ogni cosa, girò in punta di piedi intorno al tappeto giallo, poi si mise a decifrar le lapidi. La luce rosea del vespro moriva sulla volta della chiesetta; qualche rondine passava ancora, con languidi gridi.
Giame cercava sulle lapidi la leggenda della dama ossessa che correva a cavallo, di notte, attraverso quella pianura selvaggia, al cader d’una remota primavera; ma ben presto provò una viva contrarietà, trovando in una lapide che i fondatori erano stati sette. Fra questi c’era l’illustrissima donna Raffaella Perella De-Castra, ma nulla di corse notturne a cavallo, e niente demoni, e nessun viaggio a Roma.
— Forse ci sono altri documenti, però — pensò Giame.
E si volse. Vide sua madre e Ghisparru inginocchiati sul tappeto giallo, col quale la fastosa gonnella di donna Lillica formava una stessa macchia dorata: ma l’attenzione di Giame fu tutta attratta dall’atteggiamento del servo, che pregava con intenso fervore.
— Cosa pregherà egli? — pensò.
E stette a guardarlo attentamente. Dalle finestre penetrava con la brezza un fresco odor d’erba, e dai cortili giungeva sempre la cadenza delle selvaggie cantilene:
Inie b’er Baròre – b’er Baròre,
Inie b’er Baròre – b’er Baròre,
Inie b’er Baròre – b’er Baròre,
Inie b’er Baròre – e Bustianu.
Intanto zio Juanne Battista cercava del priore, per avvertirlo che c’era una ricca dama e il figliuolo, onde si andasse a complimentarli.
Passando nel secondo cortile vide che Bellia, invece di coricarsi, s’era di nuovo seduto sul parapetto d’una loggia, fra un gruppo di ubbriachi, raccontando, metà in sardo, metà in italiano, storie poco pulite di compagni di reclusione.
Il vecchio si fermò un momento, fissando gli occhi cisposi e il fazzoletto azzurro di Bellia.
Appena costui scorse il custode s’alzò, gridando:
— Ohé, figlio di Sant’Antonio.
E si sedette di nuovo, ridendo.
Zio Juanne trasalì, e tosto ricordò qualche cosa di terribile.
Appena avvertito, il priore, che era anche egli alquanto alticcio, andò dai Dalvy, li coprì di complimenti, e li condusse con sé, e li presentò a sua moglie, una paesana grossa, imponente, col collo coperto di collane e medaglie filogranate.
— Grascia, questa è una dama, e questo un dottore. Presto, qui caffè, qui rosolio, qui dolci, qui caschettas Nota 6, qui tutto quello che hai. Nella nostra modestia, signori — disse poi, inchinandosi un po’, come un gentiluomo.
Ma la moglie era assai calma, assai boriosa: non si confuse, anzi parve conceder qualche gran cosa complimentando i forestieri. Fece seder donna Lillica nel posto migliore della cumbissia, le osservò la collana, e le disse con dignità:
— Qui si è in campagna. Si fa quel che si può.
Intanto le donne di servizio preparavano il caffè. In un cantuccio una bella bimba in iscuffiotto rosso, con la fronte coperta da una densa frangia di seta nera, cullava un bimbo che pigolava come un uccellino, con le piccole braccia in aria.
— Pipiu, pipiu, agnellino nostro! — dicevano le donne, volgendosi ogni tanto verso il bimbo.
— Presto, presto, donne! — gridava il priore, versando un liquore verde entro i calici. — Questa è una dama, questo è un dottore.
E scoperchiò la paniera dei dolci, mise tutto in iscompiglio: era tutto rosso, con la barba scarmigliata, il corsetto slacciato.
La moglie s’adirava fra di sé, ma per non scomporsi non lo guardava neppure, tutta intenta, in apparenza, a complimentar la dama.
Giame osservava ogni cosa.
Il priore li invitò alla cena che doveva farsi dal cappellano, e non ammise né repliche né ringraziamenti. Diceva:
— Bisogna esser uomini. Bisogna mangiare, bere, accettare gli inviti. Bisogna mostrarsi gente di mondo, bisogna esser uomini.
Per mostrarsi gente di mondo, i Dalvy dovettero accettare l’invito.
Intanto venne il cappellano in persona, poi vennero altri due o tre paesani: e tutti volevano portar di qua e di là i Dalvy, coprendoli di gentilezze, senza conoscerli neppur di nome.
— Bene, — disse Giame, sfuggendo un momento la compagnia, — vado e torno subito.
Andò in cerca del servo. Cadeva una divina sera stellata: i rumori svanivano nell’aria fragrante; parte della folla erasi sbandata fra le macchie, stroncando e trascinando rami di lentischio per fare il fuoco di San Giovanni davanti al portone.
— Ghisparru, — disse Giame, trovato il servo, — noi siamo invitati a cena. Mia madre dormirà presso la prioressa. Tu cena col custode. Da’ attenzione ai cavalli.
E s’indugiò un momento, davanti al limpido orizzonte, pensando la poesia solitaria della brughiera, non profanata dalla folla.
A poco a poco un certo silenzio si fece intorno, dentro i cortili. La folla cenava.
Ghisparru e zio Juanne Battista infilarono un intero formagello in uno spiedo di legno, e lo arrostirono a fuoco lento. Poi il servo prese dalla bisaccia dei padroni anche il vino, le spianate (focaccie) lucenti come avorio, il burro ed il sale. E cenarono.
— Ha molti figli, il tuo padrone? — chiese il custode.
— Questo e due figlie maritate con ricchi cavalieri.
— Sono molto ricchi?
— Ricchi come il mare. Ah, sì, ricchi! E il padrone ha cominciato da nulla, sapete? Andava pei paesi, comprando pelli d’agnello;
— Chi ha volontà, — disse saggiamente zio Juanne, — dalle pelli d’agnello fa pelli di leone. E quello è il tuo figlio di latte?
— Il mio figlio di latte.
— È un dottore, non è vero?
— È un dottore.
Per un po’ il servo, che pareva preoccupato e triste, tacque; poi s’animò e cominciò a parlar di Giame con entusiastico affetto.
— Sì, — riprese, — è un dottore! Ma che credete che sia vecchio? Ha ventidue anni soltanto. Lo ricordo bene quando è nato! Mia moglie gli ha dato il latte; poi siamo sempre vissuti in casa loro. Quando ha preso la laurea, l’anno scorso, tutto il paese ha fatto festa. Perché scrive sul giornale. Eppoi è così buono! È innocente come una lucertola. Gli portarono grano, vino, miele, e aranci e lana greggia. Pareva uno sposalizio. Non fa male ad una mosca; egli sta sempre studiando, ed ha una buona parola per tutti. Nell’ovile si fa raccontare le storielle dai pastori, e poi le scrive.
— Ah, — osservò il custode, — e perciò che ha voluto sentire la storia di dama Rofoela Perella?
— Sentite, zio Juanne. Nel mese di marzo è stato ammalato: quasi se ne moriva. Allora ho fatto questo voto: Santu Juanne Battista, fatelo guarire, ed io prometto che lo farò venire alla vostra festa. Poi è guarito. Io glielo dissi. Prima egli credeva molto in Dio, ma ora poco. Perciò si è messo a ridere. Dice: “Dov’è questa chiesa?”. Io gli dico: “Così e così”. E gli racconto tutto. La storia di donna Rofoela gli piacque molto, e allora mi disse: “Bene, ci andremo, deve esser bello, balio”. Saputo la cosa, Antonio Dalvy s’arrabbiò come un cane, e mi imprecò come un demonio. Allora donna Lillica disse: “E invece ci vado anch’io!”. Antonio Dalvy continuò ad arrabbiarsi, ma poi è partito per un viaggio, e noi siamo venuti.
— Eh, quella donna è forte, eh?
— Bisogna saperlo! — disse Ghisparru.
— E non le manca punto la collana! — osservò con malizia il custode.
— E, ci tiene, alla collana, e ad altre cose!
Finito di cenare, i due vecchi usciron fuori. I cortili si rianimavano. Una colonna di fumo, un acre odore di lentischio, salivano spandendosi, dal fuoco che cominciava ad ardere e crepitare nelle spianate.
I cavalli dei Dalvy s’urtavano, scalpitavano, facendo un gran chiasso entro la loggia.
— Sarebbe bene abbeverarli e poi sfamarli — disse il custode.
— E se li rubano?
— Macché!
Ghisparru andò verso la loggia, e cercò d’acquietar le bestie; ma queste facevano peggio, sferrando calci al muro ed al suolo.
Allora il servo si recò dai padroni, che cenavano presso il cappellano. La cena era al termine: alla mensa sedevano solo gli uomini e dama Lillica, e le donne servivano. Erano quasi tutti ubbriachi, coi volti accesi, gli occhi e i denti scintillanti.
Giame chiedeva notizie sulla fondazione e gli usi della festa, e tutti gli rispondevano, per lo più con spropositi che lo facevano sorridere.
Vedendo Ghisparru si alzò con premura, e gli venne incontro.
— Cosa c’è? — chiese passandosi il tovagliolo sulla bocca.
— I cavalli s’urtano e si danno calci. Sarebbe bene sfunarli al pascolo.
— Come vuoi. Però sarebbe anche bene che tu, allora, dormissi fuori per guardarli.
— Sì — disse il servo. E rimase un momento silenzioso, pensieroso. Poi soggiunse: — Mi metterò vicino a quel cancello in fondo al sentiero. Caso mai tu mi cerchi.
— Non so perché!
— No, così, delle volte!…
Uscì, tornò nella loggia, tolse dal collo dei cavalli le sacchette, e se li tirò dietro riluttanti, scalpitanti, con un vigore selvaggio che pareva impossibile in lui.
Passando davanti al gran fuoco di lentischi, intorno al quale i paesani ballavano e cantavano come selvaggi, guardò se vedeva Bellia. Non c’era. Dal crepuscolo in poi non lo aveva più veduto.
— Dormirà, — pensò, — e se dorme, certo, non si sveglia presto.
Proseguì, seguito rumorosamente dai cavalli, e s’avviò verso il ruscello. Là giunto slargò e tolse le corde dal collo dei cavalli, che tosto tuffarono i musi nell’acqua sotto i tamerici immobili.
Un silenzio profondo era laggiù: si scorgeva la chiesa illuminata dal fuoco, e il rosso chiarore si spandeva per la pianura, fin laggiù, sulle acque tranquille, sui tamerici immobili.
Ma i rumori non giungevano, e per qualche istante, solo il gorgoglio prodotto dai cavalli nell’abbeverarsi ruppe il silenzio. Dopo nulla. I cavalli si slanciarono fra le macchie, e Ghisparru si sdraiò sull’erba, ma non chiuse gli occhi. Si sentiva il cuore grosso; e aspettava con angoscia.
Potevano esser le undici.
Dama Lillica s’era ritirata con la prioressa, e zio Juanne Battista aveva preparato il letto di Giame con due stuoie, un guanciale rosso e una coperta gialla datagli dal cappellano.
Ora il vecchietto aspettava seduto sulla soglia della sua stanzetta. Un’aria fresca era nel cortile deserto: attraverso i portoni spalancati si scorgeva il fuoco che andava spegnendosi, e un tratto della brughiera illuminata.
Le danze erano cessate, ma qualche canto s’elevava ancora nella notte chiara, fra cori melanconici.
Zio Juanne si sentiva allegro, come non lo si era sentito da molto tempo. Il vino, il pasto, le chiacchiere, l’idea di dormire vicino ad un signore, lo stordivano.
Si sentiva tutto caldo, tutto invaso da un torpore delizioso. Anch’egli – il vecchio eremita! – s’era presa la sua piccola sbornia.
A un tratto vide entrare e avvicinarglisi un uomo. Distinse tosto il fazzoletto azzurro di Bellia, e trasalì. Si sarebbe detto che l’ex servo gli causasse una specie di terrore fisico.
— Cosa vuoi? — gli chiese.
Bellia si sedette per terra, vicino alla porticina, e parlò. Aveva la voce rauca, il respiro ancora impregnato d’odor di vino, ma sembrava meno ubbriaco di prima.
— Cosa voglio? Aspetto il dottore, il piccolo padrone. Lo vedi laggiù, vicino al fuoco? È tutto allegro, la sua faccia di lievito s’è colorata. Non lo vedete, zio Juanne Battista? — (gli dava ora del voi, ora del tu).
— Io non vedo nulla — disse il vecchio.
— Voi non vedete nulla, ma io ci vedo benissimo. C’è una ragazza alta, fina come un fuso, con gli occhi azzurri e il viso più bianco della sua camicia. Non la vedete? Siete cieco? Il piccolo dottore le sta vicino e le dice: “Recitami una cloba del tuo paese, bellina”.
Bellia con gli occhi fissi lontano, si mise a canterellare un ritornello logudorese; poi disse:
— È allegro, il piccolo dottore: tu credi che non è ubbriaco anche lui?
— Cosa me ne importa?
— Il vino è fatto per gli uomini. Ebbene, egli è ubbriaco, tu sei ubbriaco, io sono ubbriaco.
— Tu, non io — disse fieramente zio Juanne Battista.
— Io ho dormito in una macchia di tamerici, coi piedi nell’acqua. Le cavallette mi saltavano negli occhi: mi sembravano ancora quegli aguzzini.
— Quali? — domandò il vecchio.
Ma Bellia non rispose, tutto immerso in una cupa visione.
Dopo un po’ di silenzio, chiese:
— E Ghisparru?
— Non lo so.
Tacquero ancora. Poi Bellia proruppe, con un fremito nella voce:
— Quali? Gli aguzzini di quel luogo. Sembrano fiere. Eppoi, che fame ho attraversato! E sempre la bocca cucita. Io non so come son tornato vivo.
Zio Juanne capì di che cosa parlava, e ad un tratto chiese:
— Ma perché lo vuoi il piccolo padrone?
— Perché lo voglio il piccolo padrone? Per affari! — rispose Bellia, beffardo.
— Ma non potevi parlargli al vostro paese?
— No, qui, qui! – Ah, eccoli che rientrano!
— Va e coricati — disse il vecchio, seccato. — Lascia riposar la gente.
Bellia gli si volse inviperito.
— Te lo do io il riposo, vecchio bastardo! Se non taci ti piglio a pugni sulla nuca, ti schiaccio come una cavalletta. Io sono un uomo! Sono entrato ed uscito vivo dall’inferno! E so molti segreti, vecchia lucertola!
Il vecchio si sentì debole, vile, e tacque. La gente rientrava, il fuoco finiva di spegnersi.
— Son tutti ubbriachi, — disse Bellia con disprezzo, — guarda come vanno; sembra che tessano con le zampe. Ah, il calore del fuoco ha operato bene! Anche quel corvo del cappellano!… Del resto, — soggiunse, — alle feste si va per bere… Ed anche per altre cose! — concluse.
— Zio Juanne Battista? — chiamò Giame, venendo accompagnato dal priore.
— Io sono qui! — rispose il vecchio.
— Chi è quest’uomo? — domandò il priore.
— Un uomo! — rispose Bellia.
— Ah, sei tu, Bellia? — disse Giame.
— Sono io.
— Bene, bonanotte, e grazie, e a domani — disse Giame al priore.
— Grazie a lei, e bonanotte, e a domani. E bonanotte.
— Bonanotte.
— E bonanotte — disse Bellia.
Il priore se ne andò barcollando; Giame chiese al custode scherzando:
— E il mio letto è pronto?
— È pronto, la vossignoria. Ma questo uomo…
Bellia, ch’era balzato ritto, non lo lasciò proseguire:
— Ebbene, cosa state dicendo voi? Lasciate parlare a me. Quest’uomo desidera parlare a vossignoria.
— A domani — disse Giame.
— No, ora, subito, e là… —. Additò la porta della chiesa, ancora aperta, illuminata dalle lampade.
— Va e coricati, Bellia: parleremo domani.
L’altro alzò la voce:
— Non mi creda ancora ubbriaco, signor Giame. Se le voglio parlare è per dirle una cosa importante, una cosa della quale si ricorderà per tutta la vita.
Giame fu colpito dalle parole e dall’accento del servo.
— Ebbene, — disse improvvisamente, scuotendo il capo, — andiamo e ascoltiamo questa cosa.
— Venite voi pure — disse Bellia al vecchio, accennandogli d’andare.
— Cosa ci faccio io?
— Venite.
— E venite — disse Giame.
Zio Juanne chiuse la porticina, ed entrò cogli altri due nella chiesa deserta, illuminata in alto dalle lampade. La parte inferiore delle pareti, e il pavimento restavano nella penombra.
Le lampade proiettavano al di sotto grandi ombre vagolanti; nel centro della chiesa il tappeto giallo con la piccola nicchia riposavano nella penombra. I tre uomini si sedettero in fondo alla chiesa; Bellia stava nel mezzo, Giame alla destra, zio Juanne alla sinistra.
Costui tendeva il capo per ascoltar meglio, preso da viva curiosità.
— Non ci sarà poi nessuno? — domandò Bellia.
— Mi pare che tu lo veda! Non ci sono che i santi.
— Beh, prendo appunto i santi e Dio a testimoni che dico la verità.
— Spicciati, ché ho sonno — disse Giame seccato.
— Beh, dottor Giame — riprese Bellia, con la sua voce rauca — mi senta bene. In poche parole. Io ritorno di reclusione, dove ho attraversato tanta fame e tanti patimenti che ho preso una malattia. Sono un uomo perduto. Antonio Dalvy poteva e doveva salvarmi, e non l’ha fatto, non ha avuto carità. Poi, al ritorno invece di riprendermi al suo servizio, mi ha cacciato come un cane rognoso. “Va via, fuori di qui” — disse poi agitando le mani come per scacciare una bestia.
— Va avanti.
— Beh, caccialo via il cane, Antonio Dalvy. Ma il cane ti morderà.
— Ma infine! — esclamò Giame, alzandosi. — Cosa hai tu da dire a mio padre? Se non la finisci me ne vado, o animale!
— Sì, sì, animale. La prego, piccolo dottore, sieda. Ancora poche parole che devo dire a questo vecchietto qui. Lei ascolti.
— A me? — disse zio Juanne.
— A te. Ti ricordi, vecchia martora, quattro anni fa io e Ghisparru, e il padrone Antonio Dalvy, siamo passati qui e abbiamo comprato da te una giumenta. È vero, sì o no?
— Verissimo.
— Bene, quando abbiamo comprata la giumenta, Antonio Dalvy ti pagò in biglietti nuovi. E tu dicesti: come sono belli questi biglietti! È vero, sì o no? Verissimo. Bene, dopo tu hai detto ad Antonio Dalvy: se la vossignoria vuole le mostro la chiesa e le stanze. È vero? E lo avete condotto con voi. Poi, all’uscire gli hai detto se ti faceva il piacere di cambiarti in biglietti nuovi una somma che voi avevate in biglietti vecchi… Non negare…
— Ma io…
— Ma voi state zitto, vecchio bastardo! Negate se potete! Giurate davanti a quel santo là che non è vero! Giura! Giura che Antonio Dalvy non è entrato con te nella tua cumbissia e che non ti ha cambiato i denari!
— Ebbene, sì, è vero! — confessò zio Juanne Battista.
Giame diventò fosco in viso: vide come un’ombra mostruosa passargli davanti. E ascoltò intento con l’anima sospesa.
— Aspetta ora, vecchio nibbio, che proseguo la storia. Tu avevi una borsa di cuoio coi denari: l’avevi nascosta sotto una pietra, la quale a sua volta era coperta dal terriccio del pavimento. Aspetta ancora. Una notte un mese dopo che avevamo preso da te la giumenta, il 13 giugno, io e Ghisparru Porru, il balio di questo dottore, eravamo in viaggio per affari del padrone, da queste parti. Dormivamo in campagna. Quella notte tu, vecchio nibbio, dormivi tranquillo nella tua cumbissia, quando udisti un romore. Un uomo era entrato per la finestrola, e frugava il pavimento, dove era nascosta la tua borsa. Era notte di luna, ricordate vecchietto? A quella luce, quell’uomo che era entrato per la finestrola, vide che vi movevate, che avevi gli occhi spalancati come due uova. Subito cosa fa? Si getta sopra di voi, vi mette le mani al collo, e stringe: poi vi getta addosso tutte le stuoie e i cestini, prende la borsa e se ne va. Addio. Credeva di avervi ammazzato, ma voi avete sette anime come i gatti, che il diavolo vi strozzi davvero. È vero o non è vero tutto questo?
— Ah, eri tu davvero! — disse zio Juanne tremando. — È vero.
— Bene, ero io. Ora ho finito signor Giame. E sono stato in reclusione perché i denari che Antonio Dalvy ha dato a questo vecchietto erano falsi.
Giame non rispose. Aveva indovinato sin dal principio, ed ora non sentiva nulla, non vedeva nulla. L’ombra mostruosa lo circondava, lo soffocava. Un cerchio pesante gli stritolava la testa.
Bellia lo guardò; e per un momento ebbe pietà di quel viso cadaverico di fanciullo spaventato. Che cosa passò allora nel pestilenziale mistero di quell’anima abbietta? Forse, il bisogno di confortar Giame col dimostrargli che tutti gli uomini sono malvagi.
— E sa perché questo vecchio eremita, questo sant’uomo non denunziò il fatto? Glielo dico io, piccolo dottore. Perché quei denari che aveva dato ad Antonio Dalvy erano rubati al santo. Erano l’elemosina che i devoti davano al santo, e che costui s’appropriava.
Anche zio Juanne era freddo di terrore. Come colui sapeva la sua colpa? Era il demonio? Con gli occhi spalancati guardava timidamente, ora Giame, ora Bellia.
E avrebbe voluto fuggire, nascondersi; ma non poteva; e si sentiva vilmente inchiodato al suo posto. Improvvisamente Giame domandò:
— E Ghisparru, sapeva?
— Sì, quando mi arrestarono gli feci sapere dove ero stato la notte del 13 giugno, quando lo avevo lasciato a dormir solo in campagna, ma neppur egli ha voluto dire una buona parola per me… e… sapeva tutto, il vecchio cinghiale… e…
Giame non lo lasciò proseguire.
— Uscite! Uscite, o vi sparo — disse traendo la rivoltella.
I due uomini uscirono.
Allora, solo, tremante, Giame fece forza a sé stesso, e cercò raccogliere le sue idee. Lo assalì una indescrivibile disperazione e si portò l’arma alla tempia, ma non poté, non volle morire. Si sentì vile; gli parve che il mondo fino allora sembratogli bello, fosse una interminabile catena di male e di viltà.
E questa catena cominciava da Ghisparru, l’uomo selvaggio, che per un suo sciocco affetto tradiva la giustizia, e finiva in lui, l’uomo incivilito e cosciente, che non sapeva morire neanche davanti all’infamia del padre e del mondo intero.
Ma esaminandosi meglio, s’accorse che lo teneva in vita ancora un filo di luce. E a misura che le idee gli si riordinavano questo filo ingrossava, diventava raggio luminoso.
L’ombra mostruosa s’allontanò alquanto.
Allora egli s’alzò, andò fino all’altare, prese un oggetto, uscì. Attraversò i cortili silenziosi e andò in cerca di Ghisparru.
La luna nel suo ultimo quarto era appena apparsa sulla linea nera delle macchie che chiudevano l’orizzonte. Il suo splendore obliquo dava uno strano incantesimo alla brughiera; le macchie e i cespugli, illuminati da un lato, dall’altro gettavano lunghissime ombre sull’erba oscura. Un silenzio altissimo, una quiete arcana. Si sentiva la rugiada cadere e fondersi alle fragranze notturne.
Il servo s’era alquanto assopito, ma anche nel sonno, inquieto, lievissimo, pensava confusamente e aspettava.
Udì da lontano i passi di Giame e si svegliò ma non si mosse, e rinchiuse gli occhi quando il giovine padrone gli fu vicino.
— Ghisparru? Balio? — chiamò Giame. — Dove sei?
L’altro zitto; ma sentiva battere violentemente il cuore. Alfine Giame lo vide, si accostò, si gettò sull’erba.
— Balio, svegliati, son io! — disse, scuotendolo.
Il servo finse svegliarsi, si sollevò e fissò Giame in volto.
La luna brillava davanti a loro, facendo scintillare i lunghi steli del fieno e attraversando le rosee coppe dei papaveri.
— Cosa vuoi? — domandò il vecchio servo. — Perché sei così pallido?
Poi si pentì di questa domanda. Pensò: — Ho fatto male! Non dovevo accorgermi di nulla!
Giame non sapeva come cominciare: sentiva un nodo alla gola, e gli sembrava di sognare.
Quella luna bassa, obliqua, quel gran paesaggio misterioso, quella figura selvaggia sdraiata accanto a lui, sull’erba, gli ricordavano strani sogni fatti nella sua adolescenza. Ricordi lontani gli passavano in mente. Ricordò una volta che aveva voluto seguire suo padre in una caccia al cervo, nelle campagne del Goceano. E per farlo star quieto, mentre stavano alla posta, appiattati così fra l’erba, Ghisparru gli aveva raccontato una leggenda paurosa. Così, come quella notte.
Poi, all’improvviso, gli passò nel pensiero la figura alta e candida della fanciulla paesana che gli aveva recitato un grazioso grobe (cloba) in logudorese. Poi ricordò tutta l’orribile storia narrata da Bellia. Sentì nuovamente l’ombra mostruosa avvolgerlo, afferrarlo alla gola, come nel primo momento di orrore. E senza accorgersene si gettò bocca a terra, masticò l’erba, singhiozzò e pianse convulsivamente.
Tutto ciò in un istante.
Ghisparru lo prese per le spalle, lo chiamò con dolci nomi, e lo fece tornare in sé.
Allora egli si pentì fieramente d’aver pianto e raccontò ogni cosa al vecchio.
Questo ascoltò senza batter ciglio.
— E tu hai creduto? — gli domandò.
— E tu nieghi? — disse Giame, adirato. — Nega se puoi!
— Niego. Per il latte che mia moglie ti ha dato, figlio mio, quello che hai inteso è tutto menzogna.
La voce selvaggia tremava.
Giame sentì come una grossa pietra scioglierglisi dentro il petto; ma non si arrese ancora.
— No, è vero, è vero! Zio Juanne Battista ha confessato.
— Il becco eremita! — gridò Ghisparru, sdegnandosi. — Cosa può dir lui, ladro di santi? È vero che Antonio Dalvy gli ha cambiato i denari, ma i denari eran buoni. I falsi erano i denari di Bellia, e Bellia i denari li aveva, non li ha presi dal custode. E la notte del tredici giugno, egli non si è mosso dal mio fianco.
— Ma come sa egli allora, con tutti i particolari, la storia avvenuta in quella notte?
— E che ne so io?
— E come sa allora che il custode ha rubato i denari al Santo?
— Confidenze che si fanno in reclusione, figlio mio. Qualche compagno gli avrà raccontate queste storie: egli allora, il corvo maligno, ha filato e tessuto la sua lana, per metter paura ad Antonio Dalvy, giacché se non è da tuo padre, non riceverà più lavoro da nessuno.
Giame ascoltava avidamente le benedette parole; gli pareva che la rugiada gli piovesse abbondantemente sul capo, rinfrescandolo, slargandogli il cerchio crudele che gli stritolava la fronte. Ma restava pensieroso.
A un certo punto, mentre Ghisparru proseguiva a parlare, convincendolo dell’abbiettezza di Bellia, trasse l’oggetto preso dall’altare di San Giovanni.
Era un piccolo calice di metallo, che brillò alla luna.
— Vedi, balio, — disse, mostrandoglielo, — l’ho preso dall’altare di San Giovanni Battista. Tu credi in Dio. Ebbene, questo calice ha contenuto ed è ancora bagnato del sangue di Nostro Signor Gesù Cristo. Ebbene, giurami su questo calice, che la notte del tredici giugno mille ottocento novanta quattro, Bellia non si è mosso dal tuo fianco.
Ghisparru si sentì morire; ma neppur un istante esitò a compiere il sacrilegio.
S’inginocchiò, si segnò, mise la palma della mano sul calice, e giurò.
Solo allora Giame si sentì liberato dall’incubo; ma gli parve d’uscire da una grave malattia, e s’abbandonò sull’erba, immergendosi, riposandosi nel sogno della luna, con l’infinta dolcezza d’un convalescente.
Fine.
nota 1 – Bastardo.
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nota 2 – Parole e atto per indicare un furto.
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nota 3 – Creparti
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nota 4 – Zio, titolo che in Sardegna si dà alle persone anziane del popolo.
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nota 5 – Specie di finanziera.
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nota 6 – Dolci di miele.
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TITOLO: La giumenta nera
AUTORE: Deledda, Grazie
NOTE: si ringrazia la Ilisso Edizioni / Via Guerrazzi / 08100 Nuoro - Italia / Tel. +39 (784) 33033 / Fax +39 (784) 3
DIRITTI D'AUTORE: no
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TRATTO DA: La regina delle tenebre / Grazia Deledda ; Fa parte di: Novelle (2) / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina . - Nuoro : Ilisso, \ 1996. - 421 p. ; 18 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)