Filosofi, giuristi, antropologi e sociologi si sono spesso soffermati ad esaminare la personalità di eccezione del cosiddetto “delinquente”, ma il dibattito sull’argomento investe di rado il pubblico più vasto e, se talvolta lo fa, rimane ad aspetti superficiali e raramente supera il luogo comune. Nessuno in genere si occupa o si è occupato, sia nell’ambito dei dibattiti teorici sia in quelli suscitati dalla cronaca e più “divulgativi” dell’apporto della pratica agli studi sulla criminalità. Si tratta però di un apporto quotidiano e direi tutt’altro che trascurabile.

Con questa sua opera Pietriboni ha radunato un vasto e interessante materiale di esperienze ed osservazioni, maturate nei quasi cinquant’anni di attività forense, fornendo un testo che – riassumendo il suo pensiero e il suo sguardo di avvocato in relazione alle principali questioni penaliste e criminologiche – risulta utilissimo per accostare un profano allo studio della criminologia scientifica ma anche per fornire a chi si interessa dello sviluppo storico di questa materia un importante aggiornamento relativamente agli anni nei quali questo studio venne scritto, cioè a metà degli anni ’40 del secolo scorso.

Pietriboni conduce lo studio della personalità del delinquente prendendo in considerazione tutti gli aspetti e in rapporto all’evoluzione stessa del concetto di criminalità: la delinquenza minorile, la tendenza a delinquere e l’ereditarietà, i caratteri del cosiddetto delinquente “politico”, di quello passionale, o colposo, o occasionale sono tutti esaminati alla luce della preparazione di uomo di legge che si sforza di essere contemporaneamente uomo di scienza.

Abbiamo echi lombrosiani in questo testo, certamente. Ma non intesi nel loro senso deteriore. C’è da ricordare che Lombroso fu in pratica fondatore della medicina forense e le sue intuizioni ed elaborazioni sono estremamente brillanti e interessanti anche oggi. Sfortunatamente è passato alla storia della scienza per quell’idea balzana che vi potesse essere una correlazione tra la forma del cranio delle persone e il loro comportamento. E quasi solo per questo fu posto al centro del cosiddetto movimento del darwinismo sociale.

Quindi questa lettura ci consente di andare oltre l’ideale positivista di una scienza ultima e certa e di collocarla in un percorso nel quale la ricerca della “verità” è continuamente rivisto, rafforzato o smentito. I dati raccolti da Pietriboni non vengono quindi letti automaticamente ma interpretati, come scelta di valore, dallo stesso ricercatore. Il delitto ci si presenta come fatto sociale definito dalla legge in uno specifico spazio-tempo. E benché la criminologia si intenda come lo studio dei “delitti naturali” – cioè quell’insieme di reati puniti e perseguiti generalmente in ogni spazio-tempo grazie all’esistenza di un sistema legale non scritto – tuttavia etnologia e antropologia ci avvertono che nessuna condotta illecita si è mantenuta immutata e i valori etici non sono quindi principi innati ma frutto di un’evoluzione sociale e culturale. Alla criminologia dovrebbe quindi competere il compito di spiegare perché le reazioni a un reato mutano nel tempo e nello spazio, la sua relatività storica, cercando di conseguenza l’indice “sociale” di gravità del reato.

Nonostante l’impostazione divulgativa di questo testo non è difficile scorgere nell’esposizione dell’autore interessanti elementi che conducano a riflessioni in questa direzione, pur se attraverso elementi contraddittori soprattutto in relazione alla possibile predizione di un futuro comportamento delittuoso, che è vista come obiettivo della criminologia. Da tener presente che la criminologia nasce come scienza solo nel XIX secolo, con l’inizio, ad opera dell’illuminismo, dello studio del comportamento criminale in modo sistematico ed empirico. In precedenza la questione era primariamente morale – cioè delegata alla religione – e giuridica quando si sovrappone un punto di vista laico. Per cui la nascita del diritto penale moderno avrebbe dovuto consentire la liberazione della persona dalla superstizione e dal dispotismo. A questo proposito la pietra miliare è quasi certamente Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (vedi in questa stessa biblioteca Manuzio).

La conoscenza di Pietriboni delle tematiche relative alla pauperizzazione crescente del proletariato – era diffuso convincimento che la criminalità fosse prerogativa delle classi più povere che andavano riunendosi nei nascenti centri urbani, convinzione suffragata dalla statistica – consente all’autore di collocare nella prospettiva più corretta il rapporto tra la allora recente esplosione dell’attività industriale e il diffondersi della criminalità tra le classi più povere. D’altra parte Edwin Sutherland nel 1934 aveva già contribuito a superare in maniera decisiva questo pregiudizio dimostrando che anche le classi più abbienti si macchiano di reati altrettanto gravi. Credo che possiamo inserire questo scritto divulgativo di Pietriboni nel percorso che porterà poi Isaiah Berlin e anche Popper a considerare che la criminologia e lo studioso di questa branca della scienza non possano mirare a soluzioni certe e unicentriche/unicausali ma debbano invece avere visione universale, un pensiero e un approccio duttile ispirato alla ragione piuttosto che all’ideologia.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

A giudicare dall’intensificarsi degli studi di biologia umana si direbbe che ora soltanto, dopo i millenni della storia, l’uomo si accorga di sè stesso. All’avanguardia sono gli studi su quell’uomo di eccezione che è il delinquente; materia più complessa e perciò anche suscitatrice di maggiori dispute; intorno ad essa molti si adoperano, tra i filosofi, i giuristi, gli antropologi, i psicologi, i sociologi.
Ed i pratici?
In realtà nessuno si occupa di indagare se vi sia e quale sia l’apporto della pratica agli studi sulla criminalità; e forse merita soltanto di dire quale dovrebbe essere.

Scarica gratis: La criminologia della pratica di Ernesto Pietriboni.