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(voce di SopraPensiero)
Pubblicato Il vitalismo di Hans Driesch.
Negli ultimi anni dell’800 Driesch, forse l’ultimo importante embriologo vitalista, fece ingegnosi e importanti esperimenti sullo sviluppo dei ricci di mare. Gli embrioni di questi animali possiedono la straordinaria capacità di rigenerare le parti mancanti; cellule isolate possono svilupparsi in larve complete anche se di dimensioni ridotte.
Questo, diremmo oggi, è dovuto al fatto che le cellule posseggono l’intero corredo cromosomico dell’uovo. Driesch era di opinione diversa e secondo lui non era possibile che un meccanismo fosse costruito in modo tale da provvedere alle parti mancanti. Entrò quindi nel campo della filosofia e della metafisica che egli sembra voler fondare su basi scientifiche, non differentemente da certa filosofia realistica contemporanea. Lo sviluppo doveva essere guidato da qualcosa che Driesch, rifacendosi ad Aristotele, definì entelechia. Ma cosa si intende per entelechia? L’ordine che domina il mondo inorganico non è sufficiente a render ragione dell’organismo vivente. Driesch non localizzava l’entelechia né spazialmente né anatomicamente. Per lui non era né una speciale sostanza né un nuovo tipo di energia: era «il fattore teleologico fondamentale della natura» che conferisce a ciascun organismo biologico la propria individualità come essere vivente. Questo principio vitale ha carattere immateriale: è individualizzante ma è di natura superindividuale e soprapersonale, agisce nello spazio ma è fuori di esso; si trova in ogni individuo dalla nascita alla morte ma non è soggetto a nascere e morire come ogni organismo biologico. Driesch è ben conscio che la sua metafisica vitalista non spiega l’origine della vita, né la capacità dell’entelechia di inserirsi nel mondo inorganico e di dominare la materia. La maggior parte dei biologi pensa che si trattasse solo di una parola, incapace di spiegare alcunché.
L’ultimo capitolo è sostituito da un riassunto-esposizione del traduttore Mario Stenta (1876-1928), professore di zoologia a Padova e direttore del museo di storia naturale a Trieste.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Il problema del vitalismo non è racchiuso già nella domanda, se i processi vitali possano propriamente dirsi ordinati a uno scopo, se, cioè, convenga ad essi il predicato di finalità; ma si compendia nell’altra domanda, se quanto essi hanno in sè di finale, di teleologico, risulti da una particolare configurazione di fattori noti già alle scienze della natura inorganica, o sia, invece, emanazione d’una loro peculiare autonomia.
Effettivamente, che nei fenomeni vitali ci sia finalità, e molta, è nè più nè meno che un fatto: il quale senz’altro si deduce dal concetto di finalità e dalla sua applicazione agli esseri viventi.
Nel linguaggio dell’uso comune s’indicano come rispondenti a un fine, opportune o adatte anzi tutto quelle azioni che, come si sa per esperienza, o mediatamente o immediatamente conseguono il fine voluto; e poi ancora quelle azioni di cui per lo meno si presume che conseguano un fine. In tal caso, allorchè si tratta di tentativi o di prove, soltanto dopo raggiunto lo scopo si può dire, a rigore, se questa o quell’azione risponda al suo fine. Ne viene tuttavia che, iniziata in seguito, in condizioni uguali, l’una o l’altra azione, se ne possa fin dal principio presagire l’opportunità; e quindi, in quei casi, si potrà, fin dall’inizio, agire in conformità a uno scopo.
La finalità, quale che sia, d’un’azione io la giudico partendo da me stesso. Cioè a dire, io so da me quando alle mie azioni convenga il predicato di finalità; giacchè io conosco i miei fini. Quest’è il punto dal quale muovo nel giudicare le azioni degli altri. Le dico opportune, quando comprendo il fine a cui sono dirette; ovvero, che torna lo stesso, quando so immaginare che esso fine potrebbe essere il mio proprio; e in questo caso le giudico in relazione a quel fine.