Podcast: Apple Podcasts | RSS
(voce di Luca Grandelis)Scherza con noi Goffredo Fofi, giornalista e critico cinematografico eugubino, alla nostra richiesta d’intervista sul rapporto tra il potere e la parola: avete sbagliato persona – dice – non sono un filosofo né un sociologo né nient’altro di intellettualmente solido, affidabile. Non sembra sentire il caldo estivo e la fatica di spostarsi più volte al giorno, senza sosta, per la sua attività di intellettuale sottile e ricercato, che lo occupa completamente anche ad agosto. Ma le domande sono intriganti e a qualcuna bisogna pur rispondere – continua – visto che quasi quotidianamente a queste cose si è costretti a pensare. «Le parole vi ingannano» diceva August Strindberg al proletariato svedese del suo tempo, le parole servono a questo, nella società odierna non sono “pietre” come avrebbe voluto a suo tempo Carlo Levi, ma pubblicità.
Quindi le parole non ingannano solo per la loro intrinseca natura, ma anche a causa di una manipolazione deliberata: sono convinto, per fare un esempio, che il ruolo svolto dai tre principali strumenti di comunicazione che hanno agito in Italia nell’ultimo mezzo secolo, la Tv il Corriere la Repubblica, sia stato infame, e abbia dato il contributo maggiore all’addormentamento, alla intima corruzione del nostro popolo e di noi tutti, molto maggiore di quello dei politici. E le altre «agenzie» (dalla scuola alla chiesa, per intenderci) sono state al passo, ne hanno seguito le indicazioni (le indicazioni, a ben vedere, del Mercato, del Capitale, dell’Impero Occidentale, dell’American Way of Life imposta al pianeta).
Il potere dominante – che oggi è quello economico – sta utilizzando le parole – il linguaggio, la comunicazione – per i propri scopi. Ma non solo alterandone il significato, bensì addirittura rovesciandolo: in sostanza, nulla di radicato e radicale, tutto di superficiale ed effimero e una concezione delle idee come di qualcosa che viene dall’alto e non dal nostro intimo, non dal nostro confronto con l’esperienza reale, con il nostro vissuto e quello di chi ci sta intorno. Lo scopo non dichiarato e talvolta, in certi giornalisti e scrittori ed educatori, persino non cosciente, è quello di aiutarci a non pensare, a non capire, a non andare mai al nocciolo della questione.
Fofi parla della «grande chiacchiera», quella deformazione della parola che il potere crea e utilizza per distogliere l’attenzione dalla realtà, indirizzandola verso il mondo fittizio delle dichiarazioni di intenti, delle statistiche, delle visioni del mondo politicamente corrette e alla moda: la grande chiacchiera che uccide ogni personale riflessione (d’altronde, come elaborare il vissuto, se la vita vera la trascuriamo e ci è lontana?) ha sostituito il confronto con la realtà, e quando questo avviene per forza maggiore e si è costretti a risvegliarci, la chiacchiera – che è cosa ben diversa da “la parola” – ci lascia nel vuoto, alle prese con un noi privato di ogni sostanza profonda, con la nostra insipienza. Ci siamo lasciati intontire e castrare dai chiacchieroni (e dal mercato, la cui base peraltro è la chiacchiera, la pubblicità) e lo abbiamo fatto, almeno negli ultimo trent’anni italiani, con la nostra adesione e complicità.
Dunque non solo vittime, ma complici: non ci possiamo lamentare d’altri che di noi stessi, quando ci accorgiamo di essere nel vuoto o nella merda. Personalmente, ho forti conati di nausea quando leggo le “prediche” dei nostri direttori di giornali, filosofi, accademici, teologi, artisti.
Non lascia fuori proprio nessuno. Non è una mera idiosincrasia, ma una constatazione: in giro non si vedono più intellettuali degni dell’idea di intellettuale che una grande tradizione ci ha consegnato. Basta guardare un po’ indietro: dove sono oggi i Calvino, i Bobbio, le Morante, i Pasolini, i Moravia, i Fortini, i Bilenchi eccetera eccetera, e i don Milani, Turoldo, Mazzolari? Sono stati sostituiti dagli Enzo Bianchi e dagli Erri De Luca, dai Ravasi e dagli Scalfari, dai Magris e dai Citati, pure parodie, otri gonfi d’aria fritta straparlanti a maggior propria gloria e non della verità e della giustizia. Questo sistema non ne ha più bisogno, ha bisogno di guru e di pubblicitari. La parola è oggi menzogna e pubblicità. “Lei mi parla d’altro”, diceva ossessivamente un poeta francese che cercava le analisi e le risposte necessarie.
Senza neppure un’eccezione? Un’eccezione la farei – e in verità potrei farne molte altre, fedele alla pratica delle minoranze, ma è la sola che mi viene ora in mente tra coloro che scrivono sui giornali, tra le firme note e sponsorizzate dal sistema dell’informazione, che non è mai ingenuo – ed è quella di Luciano Gallino.
Poi, riferendosi all’ultimo libro scritto da Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe, ed. Laterza: recensito in questo numero, nella rubrica «Dal testo al contesto»), continua: Gallino ha certamente ragione quando dice che è in atto una lotta di classe, paradossale quanto spietata: quella dei ricchi contro i poveri. Scatenata e condotta secondo regole che gli stessi ricchi si danno. Di conseguenza, la democrazia è diventata una parola vuota e non da adesso; tornare indietro a quando significava qualcosa non è facile, o è addirittura impossibile. Ma ancora una volta, per arrivare a questo punto c’è stato bisogno della complicità – o quanto meno della compiacenza – delle vittime: come sappiamo bene, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere né peggior sordo di chi non vuol sentire, e dovremmo ricordare sempre che tra i poveri ci sono ciechi e sordi (e muti) che hanno amato diventarlo, in cambio del piatto di lenticchie del benessere e della cosiddetta “cultura” (la chiacchiera, appunto).
Due parole amare Fofi spende anche sulla scienza, molto nobile nelle intenzioni, ma ben poco nei fatti; gli uomini di scienza ostentano il vessillo della libertà e della conoscenza, ma a ben vedere rimangono asserviti – più o meno colpevolemente – ai desideri del capitale: mi pare ovvio che il compito degli uomini di scienza sia oggi più che mai quello di “attaccare l’asino dove vuole il padrone”; chi paga ha l’ultima parola, la scienza va avanti solo sulle strade che decidono i suoi finanziatori.
Ci spostiamo poi su un piano più astratto. Alla domanda: «è nota la celebre affermazione di Confucio per la quale al primo punto della prassi politica spicca l’esigenza di ‘mettere ordine nel linguaggio’. Che cosa vuol dire questo per noi, uomini del terzo millennio?», Fofi risponde:
“Mettere ordine nel linguaggio”… credo si tratti ormai di un’impresa socialmente impossibile. Per dirla con un altro poeta (marxista), è ben duro “mettere ordine in un porcile”! E ci si domanda se ne valga la pena. Un tempo una parte consistente dell’umanità – i poveri e qualche “intellettuale”, comprendendo in questa schiera non grande anche diversi preti – sapeva trovare le parole giuste e necessarie, che indicassero strade, azioni, orizzonti di giustizia, ma ora, nel chiacchiericcio universale dei professori, dei giornalisti e dei preti, dei milioni di narcisetti prezzolati o entusiasticamente convinti di avere qualcosa da dire, credo che questo riguardi solo infime minoranze quasi catacombali, e si tratta allora di un passa-parola che avviene con le piccole riflessioni sulle pratiche.
Un modo di dire che la pratica ha il primato sulla teoria. È indispensabile dare alle pratiche il primo, il primissimo posto – e praticare il silenzio, cercando comunicazioni non verbali e non scritte, ma vive nell’agire. Parlando solo il necessario, e cioè poco. Le parole (e le immagini) ci ingannano, ci mentono. Meglio, oggi, infinitamente meglio, il linguaggio delle opere e del fare.
Un invito a smettere di parlare? No, nient’affatto: ma a parlare meno e poco, in maniera essenziale e, almeno per il momento, da pochi a pochi. Se non ci si distingue, non si è e non si potrà essere ascoltati.