A volte – insegnavano un tempo i filosofi – la natura «opera come arte». Pur nella sua inconsapevolezza, nella sua apparente oggettività fenomenica, la natura rivela una sua sorta di cieca saggezza, di sapienza millenaria e silenziosa. Alla daedala tellus, alla terra ingegnosa, labirintica, sottilmente ramificata come un preconscio, quasi minerale o fossile, sistema di pensiero, corrisponde, come si legge in Lucrezio, la daedala lingua, la lingua ricca, fertile, vivida, feconda – alma, dicevano i poeti del passato.

Nello splendido silenzio «immobile compatto creativo» che domina la prima sequenza di questo poemetto di Franco Brusa (La palla nell’orto, Raffaelli, Rimini 2009), di questa vasta e fluente catena di éluardiana poésie ininterrompue (un silenzio affine, emblematicamente legato, a quello che, dopo la remota e preziosa raccolta Fior di Calanco, ha avvolto per più di un trentennio la Musa del poeta, che pareva ammutolita e inaridita e invece continuava sordamente a germinare, come chiusa essa stessa nel ventre buio della terra), si accumulano e crescono le germinazioni e le fioriture, i viluppi e le fruttificazioni più diversificati e variopinti.

Come in una secolare tradizione di giardini letterari, di giardini intesi come loci/topoi, come luoghi virtuali e smaterializzati che alimentano (dall’omerico giardino di Alcinoo alla boccacciana Valle delle Donne al tassiano giardino di Armida) il discorso creativo, «un verde intenso / tiene unito l’insieme / ordine e fantasia / si contendono il primato». Pare che la natura gareggi con l’arte, che «l’imitatrice sua scherzando imìti».

Eppure, non c’è in Brusa nessun artificio che non sia, appunto, naturale, nessun formalismo sterile e forzato, nessun manierismo lezioso e fine a se stesso. Poesia e natura sembrano nascere (quasi come nel Virgilio delle Georgiche) da una stessa, più profonda, feconda matrice, che entrambe le alimenta e le modella – uno stesso etimo generatore, uno stesso primordiale germe che si riflette in due specchi giustapposti e dialoganti, come nei volti di un’erma bifronte («Natura e arte sono un dio bifronte», si legge in un poeta per il resto lontanissimo da Brusa).

La poesia sembra essersi fatta da sé, come un frutto della terra, come un prodotto della natura: le parole, in una circostanza, paiono semplicemente esistere sulla pagina «autonome dall’autore», «assurde ma necessarie» come tutte le cose nel loro mero e gratuito «essere-nel-mondo», rincorrersi ed intrecciarsi sulla pagina come le formiche (come le montaliane «file di rosse formiche / ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano»: e proprio le formiche, simbolo minimo ed inquietante della febbrile ed assurda vitalità che attraversa la natura al pari del linguaggio, percorre assiduamente questo moderno ed intemporale poemetto georgico).

Eppure, anche questa poesia è «coltivata», esattamente come la terra: sorvegliata, vigilata, accompagnata nel suo prendere forma e nel suo svilupparsi (non a caso, fra i surrealisti l’autore sceglie, come principale interlocutore, Éluard, che più degli altri sottopose il libero concatenarsi dei pensieri e delle immagini, l’assiduo fluire dell’écriture automatique, alla sorveglianza della coscienza critica e, entro certi limiti, alle norme e alle consuetudini della logica, della comunicazione, del significato).

Il paesaggio, pur reale e concreto, pur «presente e vivo», tende a smaterializzarsi in immagini terse, in limpide e libere analogie, a dissolversi in pura musica, quasi come nel Serra lettore di Paul Fort: «paesaggio diventa musica / si fa canoro / l’aria respira se stessa / fino alle gole / dei calanchi». L’aria muove ed insegue se stessa, si intreccia e si ravvolge in spirali concentriche e vortici ripiegati su se medesimi, allo stesso modo che il testo poetico, padre e figlio di se stesso, si muove sostenuto e animato dalla propria intima forza, senza altra motivazione e altro fine all’infuori di sé («l’air dans le ciel et la mer dans la mer», dice un verso di Baudelaire, con variatio ma essenziale).

Che si tratti di De Pisis o di Monet, la natura imita l’arte, e viceversa. Come le colline fiesolane agli occhi di Foscolo o di D’Annunzio (pur all’apparenza così lontani, con il loro aulico preziosismo e la loro studiata ricercatezza, dalla vena rusticale, quasi esiodea, della poesia campestre di Brusa, vicina alla realtà del lavoro, e avulsa da ogni stilizzazione georgica e bucolica), così i calanchi pazientemente terrazzati, resi fecondi e guadagnati all’aratura e alla germinazione da un lavoro meticoloso ed amorevole, appaiono quasi cesellati, levigati o istoriati dalla mano dell’artiere-artista, del poeta agricoltore e giardiniere (e si potrebbero qui fare, modernamente, i nomi di Heaney o del nostro Bellintani, come pure, per la minuta e microscopica attenzione al dato naturale, vegetale, entomologico, quelli di Ted Huges o di Robert Walser).

Da un lato le campiture vibranti di Monet, il tremolio della sera e dell’aurora, dall’altro le figure e i contorni più fermi, intemporali, quasi metafisici, di De Pisis sono i dichiarati referenti figurativi di un discorso poetico che unisce la fluidità della «poesia ininterrotta» alla nettezza e alla definitezza dei segni e degli emblemi.

Così la sensualità, pur corposa, calda e vibrante, della donna è ancorata agli archetipi eterni della bellezza rinascimentale, e la palla nell’orto che dà il titolo al libro – traccia e segno del gioco quietato, delle gioie trascorse e ormai spente – è una sorta di «luna minore», di riflesso o di spoglia terreni del mondo siderale, di macrocosmo declinato nel microcosmo del quotidiano, quasi il poeta volesse, al pari di Blake, «l’infinito nel palmo della mano» – o, come il suo Éluard, abbandonare infine al vivo fuoco del vino, all’accesa pira del nettare dionisiaco, «Les fôrets, les buissons, les champs de blé, les vignes», insomma il manto variegato, tangibile e reale, ma insieme, forse, segretamente ingannevole e fragile, della natura e del paesaggio.

Matteo Veronesi

Ulivi con tralci

di viti serpeggianti

sui rami pini peri

di antico innesto castagni

prugni melograni cotogni

albicocche meli e viti

ovunque grappoli

in bella mostra alcuni

nascosti uva bianca

uva nera quasi matura

questo è il mio campo

noci rose dove inizia

il filare -il pensiero

si posa sul prato come

un’antica divinità

dialogano fiori variegati

un verde intenso

tiene unito l’insieme

ordine e fantasia

si contendono il primato

il silenzio è immobile

compatto

creativo

tace la cicala

(…..)

Cinghiali merli

fagiani passerotti

tutti sull’uva

vespe e api gazze

minuscole formiche

succhiano il chicco così

nascoste all’interno

che si rischia di ingoiarle

– ogni grappolo

è ferito

a volte il solo raspo

fa capolino tra il fogliame –

una nuvola di storni

si perde in cielo

in infinite giavolte

tardo pomeriggio

vado a piantare

cipolline biondo fulvo dorato

e cipolline rosso viola

nel solco tracciato dal frangizolle

poi le copro delicatamente

con la zappa di terra fine

cotta da sole e pioggia

-rientro nell’imbrunire

con la zappa in spalla

stanco e felice –

i bimbi giocano al buio

con una palla che pare

la luna che sfiora la terra