Il mio ladro, pubblicato nel 1920, è il quarto romanzo di Bianca De Maj. I risvolti autobiografici relativi alla maternità mancata sono evidenti – a cominciare dalla dedica –, ma questo racconto lungo è molto più di una riflessione sulla sofferenza per la perdita della piccola neonata.
Questo tema è condensato nel prologo e nell’epilogo che racchiudono tra loro la narrazione vera e propria che si svolge in un piccolo centro rurale all’indomani della fine della guerra:
«non c’è più legna da ardere nè materiale per costruire. La guerra ha distrutto ogni cosa; prima ha tagliato gli uomini, adesso taglia gli alberi. Freddo e miseria; niente altro.»
Così dice un boscaiolo alla maestra, io narrante della vicenda, assegnata a una scuola rurale con una settantina di bambini. Il problema del lavoro femminile, pur non essendo certo il tema centrale, ha la sua rilevanza, riprendendo in una certa misura il discorso di Signorine di studio: la donna lavora per necessità stringente, anche in questo caso, come nel romanzo sopra citato, per mantenere una anziana madre e, ovviamente, se stessa, privandola dell’amore e del matrimonio:
«Ah, piccola, misera, cinica patente dei miei diciotto anni! Entrò quel rettangolo di carta bianca cifrata, in un luglio afoso, entro la mia casa in rovina, dove mio padre perdeva la forza e mia madre la bellezza, dove uno degli antichi amici, grave e scoperto, venne ad offrirmi una piccola cattedra rurale mista, in un paesello dell’alta Lombardia.»
Come avrebbe potuto sposarsi? Infatti confida alla madre che nessuno le piace e poi deve fare la maestra. Ruolo che appare come un surrogato materno, trasferimento simbolico del desiderio inappagato della maternità nella professione. E questo “simbolo” si concretizza quando, contravvenendo alle regole scolastiche, la maestra accetta di tenere un bambino di tre anni, orfano di madre e figlio di un pastore. La madre è morta nel tentativo di salvare una pecora dal precipitare in un dirupo, perendo lei stessa. Il racconto si svolge da questo punto sfumando l’iniziale apparente pace bucolica, dove il possibile turbamento sembra venire solo dalla miseria e dalla dura fatica dei montanari, in un crescendo che passa rapidamente dalla tensione di una visita al manicomio (il padre del bimbo rivela a poco a poco la sua crescente instabilità mentale dovuta senza dubbio alla tragica fine della moglie) per sfociare – come avverte fin dall’inizio la maestra narrante – in un andamento cruento, transitando da un’atmosfera fiabesca ma cupa, sulla creazione della quale ha influito non poco la precedente esperienza della scrittrice diretta alla produzione di testi per bambini, fino a giungere a conferire alla narrazione caratteristiche proprie del genere gotico. Tutto questo impartisce al racconto un andamento decisamente insolito e lo rende avvincente.
Questa atmosfera fiabesca avvolge la lotta fra bene e male, con descrizione anche fisica della trasformazione del folle che muta la sua iniziale gentilezza e umiltà in malvagità senza senso. La scrittrice, pur con qualche inciampo, ha maturato molto la sua scrittura rispetto ai romanzi precedenti e lo stile si è raffinato. Il tema della maternità è pungente e doloroso, e questo travaglio interiore è raccontato in maniera originale e insolita, i momenti truci sono sapientemente alternati con quelli malinconici e quelli, più rari, di serena e momentanea felicità. I personaggi di contorno come la domestica-bidella Maddalena o la zia della maestra narrante, non fanno che ribadire quale deve essere la vocazione primaria della donna. La quale donna però non ha mai rassegnazione di fronte agli eventi e arriva dove né il buon senso e la razionalità del medico Valentini, né la vigoria fisica dei più robusti maschi del paese possono arrivare, aiutata da personaggi che sono appunto fiabeschi: il pastorello, il tagliaboschi e la futura sposina che con il suo provvidenziale aiuto appare come la fata buona. Ma non è sufficiente perché il bene abbia la meglio.
Il romanzo, contrariamente ad altre opere di Bianca De Maj, non è mai stato ristampato dopo questa edizione di Quintieri che era la casa editrice del marito.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Qualcuno aprì la finestra. L’aprì dolcemente, in modo che nella camera entrò la luce, ma non il raggio violento del solleone.
Il mattino nitido trasparì dai cristalli velati e quella trasparenza aveva uno sfondo di cielo, aveva la macchia rossa di un garofano che fioriva sul mio piccolo balcone.
Una voce mi domandò con un sorriso di mistero placido:
— Oggi?
E con lo stesso tono, ma più lievemente così che il mistero quasi svaniva e rimaneva solo il sorriso, risposi:
— Spero.
Non avevo sino allora, nè pronunziata nè concepita quella parola con una commozione così forte, con una gioia così fiduciosa, mentre tutti i miei sensi affinati e raccolti parevano tante sentinelle vigilanti sulla breccia.
L’attesa dei lunghissimi mesi era divenuta l’attesa di pochi giorni; adesso ogni giorno poteva separarmi di una sola ora, di un solo attimo, dal divino compimento. Divino e feroce, d’una ferocia tutta piena di passione, che talvolta, nei tempi quieti e vuoti, forma una delle più acute nostalgie materne.
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