Sono tornato a vedere uno spettacolo nella suggestiva cornice del Globe Theatre di Roma. Il teatro è molto bello e particolare (per chi non lo conosce, riproduce più o meno il Globe Theatre di Londra di epoca elisabettiana, a pianta circolare, con tetto aperto), per cui varrebbe la pena di andarci a prescindere dallo spettacolo. Ma c’è qualche problema:
i posti a sedere sui palchi sono scomodi, forse per riprodurre le sedute com’erano ai tempi del Bardo. Stare sdraiati per terra in platea, anche quando ci si attrezza di materassini e cuscini, è altrettanto scomodo.
I bagni sono arrangiati in due vecchi container nascosti sul retro, piuttosto malandati. Come se la necessità di andare in bagno per il pubblico, in una struttura con una capienza di centinaia di persone, li abbia colti di sorpresa e vi abbiano provveduto con una soluzione di fortuna. La fila in biglietteria è durata più di 20 minuti. Bisogna riconoscere che c’erano 7 cassieri, ognuno con una funzione diversa (accrediti Zetema, stampa, vendita normale, ecc.). Ma di fatto lavorava solo uno, con una fila lunghissima, gli altri 6 fermi in attesa di qualcuno che non è mai arrivato. Ogni tanto in fondo alla fila passavano altri dipendenti del teatro per chiedere se fra coloro che aspettavano ci fosse qualcuno che doveva andare alle altre casse. Era una prima, che deve gestire molti accrediti, ma probabilmente i flussi di pubblico si potevano gestire meglio.
Si aggiunga che le regole del teatro sono più severe di quelle di una cattedrale, per cui è vietato introdurre qualsiasi cibo o bevanda. E all’obbligo di stare composti, si devono aggiungere altri divieti come appoggiare una felpa sulla balaustra. Lo spettacolo di ieri infine è durato più di tre ore. Sono sopravvissuto, però la netta sensazione che ne ho ricavato è che tutto quanto non fosse concepito in funzione dello spettatore, ma fosse una sorta di religiosa autocelebrazione del Teatro. Non eravamo pubblico pagante, nonché fonte primaria di sostegno per la struttura, i tecnici e gli attori, ma dovevamo essere discepoli al servizio di un rito.
Intendiamoci, capisco benissimo la compostezza, quando serve a non recare disturbo agli altri spettatori. Capisco benissimo il divieto di appoggiare la felpa sulla balaustra per non rovinare il colpo d’occhio o per evitare che qualcosa cada in testa a chi è sotto, quando viene offerto un pratico servizio di guardaroba (il teatro è sostanzialmente all’aperto, quindi bisogna andarci pronti al variare del clima) o meglio ancora quando le sedute sono tali da consentire di sistemare una felpa o una borsa da qualche parte che non sia sotto i piedi. Se però confronto la comodità di un cinema con i tempi e gli spazi del teatro, devo registrare un abisso. L’impressione è che il teatro si stia richiudendo su se stesso, diventando sempre più di nicchia, non adeguandosi alle aspettative di un pubblico più esigente.
Lo spettacolo di ieri durava più di tre ore, con sbrodolamenti vari, innesti di cabaret, musical e quant’altro. Alcune cose, anzi diverse cose, erano anche ben fatte e gradevoli, per quanto stonassero con l’opera di Shakespeare, ma quando vengono inflitte per tre ore (lo spettacolo è poi iniziato con la consueta mezz’ora abbondante di ritardo), a un pubblico a digiuno, scomodo e con una visuale parziale (le moderne norme di sicurezza fanno sì che lo sbalzo delle file di poltrone sia appena accennato, così gli spettatori fanno da schermo gli uni agli altri) allora il “servizio” ne risente.
Amo il teatro, ma per la miseria è uno spettacolo che mi deve intrattenere, non torturare (a un costo che è fatalmente più alto di biglietto di un cinema).
Troppa poca gente va a teatro, i finanziamenti pubblici sono sempre meno tollerati dall’opinione pubblica, cresce il numero di chi deve recitare gratis o con paghe da fame. Qualcosa si è inceppato. Diamoci da fare per migliorare le cose e far tornare il pubblico in sala.
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Aggiornamento
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