In questo articolo del 1930 il filosofo Eugenio Rignano sostiene l’idea che si possa applicare il concetto di ‘fine’ non solo agli atti coscienti umani ma anche ai processi della vita senza cadere in antropomorfismi.

Nota che se si cambiano anche molte circostanze esterne, i processi degli organismi viventi cambiano, ma il risultato finale è sempre identico. Per Rignano questa invarianza del risultato finale è un criterio obiettivo e non antropomorfico per distinguere i processi teleologici da quelli ateleologici.

Rignano cita anche la memoria come altro caso di concetto psicologico che si può usare in biologia senza antropomorfismi e definisce le ‘proprietà mnemoniche’ dei viventi come la riproduzione per cause interne di processi biologici prodotti per la prima volta sotto l’azione del mondo esterno.

Sinossi a cura di Michele De Russi

Dall’incipit dell’articolo:

È nota la definizione che dà Aristotile del fine: Il fine è ciò in vista del quale si agisce; esso deve quindi esistere allo stato di nozione prima che l’azione cominci.
Questa definizione, evidentemente limitata solo agli atti coscienti dell’uomo, cioè solo a una ristrettissima categoria di manifestazioni finalistiche della vita, è stata ed è tuttora la causa principale per cui a molti biologhi ripugna di ammettere un qualsiasi teleologismo anche in tutti i processi vitali in genere. L’ammetterlo sembra ad essi un cadere nel più vieto antropomorfismo, un comparare artificiosamente e forzatamente fatti fondamentalmente diversi, quali sono, secondo loro, i processi biologici e fisiologici, da una parte, e i fatti psichici coscienti, dall’altra.

Scarica gratis: Il concetto di fine in biologia di Eugenio Rignano.