Ne Il mestiere di vivere Pavese si riferisce a Il Compagno con queste parole:

«Riletto, ad apertura di pagina, pezzo del Compagno. Effetto di toccare un filo di corrente. C’è una tensione superiore al normale, folle, dovuta alla cadenza sdrucciola delle frasi. Uno slancio continuamente bloccato. Un ansare.»

Scritto subito dopo la guerra, dovette probabilmente il suo successo – nel 1947 ottenne il Premio Salento – proprio a quelle caratteristiche individuate da Pavese stesso. Quell’«effetto di toccare un filo di corrente» viene raggiunto dall’autore trattando i suoi temi preferiti e nella narrazione dei quali riesce sempre con successo: il tema del mutamento, dei luoghi finalmente conosciuti, Torino con la sua collina e i suoi locali, l’umidità nebbiosa delle rive del Po, gli ambienti e gli uomini diversi, l’avventura, il vagabondaggio.

È questo l’ambiente dove Pablo trascorre le sue giornate da perdigiorno, nella sua insicurezza e con la sua chitarra, lasciando scorrere la vita come viene e non cercando di modificarne il corso. Il suo migliore amico, Amelio, è invalido per un grave incidente di motocicletta. Pablo lo va a trovare e conosce Linda, ragazza misteriosa ma intelligente e vivace. Si innamora e questo amore lo prende a tal punto che la giornata di Pablo diventa una continua attesa del momento di rivederla, di stare con lei. Amelio diventa scomodo, come scomodo è il rimorso; ma Pablo non può dimenticare il suo impegno politico.

Linda si mette con un ricco molto più anziano e Pablo parte per Roma. Qui fa nuove conoscenze, tra le quali Gino Scarpa, comunista, reduce dalla guerra di Spagna e ricercato dai fascisti. Pablo entra sempre più nel “giro” dei “compagni”, quelli che rischiano, che si oppongono alla violenza fascista. Scarpa è costretto a fuggire, Luciano finisce in prigione; la ricomparsa di Linda che vorrebbe far rivivere i mesi torinesi, non distoglie Pablo dal suo nuovo impegno politico. Finisce in prigione lui stesso e torna a Torino in libertà vigilata.

Da segnalare la trasposizione teatrale di Sergio Velitti, intitolata Storia di Pablo, dove forse non ritroviamo appieno le intenzioni del romanzo originale, ma scorgiamo invece la visuale degli stessi problemi così come sono apparsi alla generazione successiva, permeati di quell’aspetto un po’ mitico che assunse l’antifascismo “eroico” descritto da Pavese; autore che diventa a sua volta figura mitica come suscitatore di cultura, lontano, negli anni ’60 e ’70 (e, forse, ancora oggi), da una sistemazione critica adeguata e soddisfacente.

Come aveva già dimostrato Antonioni con il film Le amiche (tratto da Tra donne sole) il mondo morale e civile di Pavese poteva essere, più di quanto è stato, una materia ideale per le arti rappresentative italiane degli ultimi decenni del secolo scorso.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si eran messe a ballare. Io suonavo – Pablo qui, Pablo là – ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare piú forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.
Adesso che Amelio era finito all’ospedale, non avevo con chi dir la mia e sfogarmi. Si sapeva ch’era inutile andarlo a trovare perché gridava giorno e notte e bestemmiava, e non conosceva piú nessuno. Andammo a vedere la moto ch’era ancora nel fosso, contro un paracarro. S’era spaccata la forcella, saltata la ruota, per miracolo non s’era incendiata. Sangue per terra non ce n’era ma benzina. Vennero poi a prenderla con un carretto. Non mi sono mai piaciute le moto, ma era come una chitarra fracassata. Fortuna che Amelio non conosceva piú nessuno. Poi si disse che forse scampava. Io pensavo a queste cose mentre servivo nel negozio, e non andavo a trovarlo perché tanto era inutile, e non parlavo piú di lui con nessuno. Pensavo invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch’ero solo come un cane, e non mica perché non ci fosse piú Amelio – anche lui mi mancava per questo. Forse a lui l’avrei detto che quell’estate era l’ultima e tra osterie, negozio e chitarra ero stufo. Lui le capiva queste cose.

Scarica gratis: Il compagno di Cesare Pavese.