Per ricordare la ferocia nazista: Kaninchen, opera teatrale di Antonella Gullotta diretta da Eugenio Sideri.
Un bambino rischia di annegare e il nonno lo afferra in tempo per strapparlo alle onde della morte. Il silenzio dopo lo scampato pericolo dura 13 anni. Poi la verità, che l’anziano racconta, per spiegare le ragioni del suo comportamento quel giorno al mare, quando con una durezza insolita gli aveva negato il permesso di tuffarsi in acqua.
Inizia con un racconto quasi banale, legato a un’infanzia qualsiasi, il dramma Kaninchen di Antonella Gullotta sui campi di sterminio nazista, spettacolo ospite da ormai cinque anni nelle stagioni teatrali romagnole e non solo, in concomitanza con la Giornata della memoria. Propongo all’attenzione dei lettori quest’opera in vista della ricorrenza della liberazione del Paese dal nazifascismo il 25 aprile prossimo, per riflettere ancora una volta sui temi purtroppo sempre attuali della guerra e dell’oppressione politica.
Diretto da Eugenio Sideri, il testo nasce come lavoro sulla Shoah portato nelle scuole medie nell’ambito del laboratorio triennale “Carne viva” e successivamente sul palco del teatro Rasi di Ravenna. Protagonista un unico attore, l’allampanato Elio Ragno dal viso corrucciato che ricuce i pezzi del passato lentamente, metodicamente.
E’ l’acqua del mare a innescare il flusso della memoria dell’uomo e ad accecarlo di rabbia e di paura. L’acqua salata che i prigionieri come lui, rinchiusi a Dachau, bevono per giorni e giorni, perché i medici possano osservare, misurare, monitorare la loro resistenza. Non sono più uomini, ma Kaninchen, che significa conigli in tedesco. In breve, cavie da laboratorio.
Ci sono soldati tedeschi caduti in acqua durante gli scontri, che sono da recuperare. Ma ne vale la pena? Quanto tempo possono resistere sott’acqua? Quell’acqua salata che corrode lentamente lo stomaco, che fa prima impazzire e poi morire.
Il racconto del nonno Alberto è, come in tante altre rappresentazioni sul tema, monocorde. Un dramma che vive di sole parole. Che devono bastare a rendere l’idea e a ripugnare per ciò che l’uomo ha fatto all’uomo. E con tragica semplicità, mostrando il disegno, viene descritta la struttura del campo di concentramento dove (anche qui) campeggia la cinica scritta Arbeiti macht frei.
Poi si passa al racconto sulla baracca numero 3, l’infermeria, dove ebrei, oppositori del regime, disabili, zingari, omosessuali, in una parola gli indesiderati, vengono sezionati, mutilati e sottoposti ai più disparati test di laboratorio in nome di una ricerca scientifica che rincorre con meticolosa follia l’ideale di razza ariana, oltre a fini molto più prosaici legati alla necessità di non sprecare uomini e munizioni.
Dachau è l’efficiente macchina di distruzione, creata secondo i criteri di simmetria, ordine e rigore, voluta dai gerarchi ed entrata in funzione nel 1933 che può contenere 6.000 prigionieri, ma dove presto si ritrovano in 30.000.
Dove ogni giorno si fa l’appello davanti a prigionieri nudi e si decide quali uccidere e quali torturare. Dove ci sono celle strette come canili, dove non poter stare né seduti né sdraiati ma solo piegati in modo contorto e deforme.
La Gullotta porta all’attenzione il tema delle sperimentazioni pseudo scientifiche eseguite sui prigionieri, attraverso un’opera che, come spiega il regista Sideri, può essere rappresentato anche al di fuori del teatro, nelle scuole, soprattutto, per testimoniare, far riflettere, non dimenticare.
Anna Cavallo