Certe persone non serve incontrarle per dire di conoscerle. Certe persone impari a conoscerle per ciò che hanno fatto, detto o scritto. Ecco, il mio “amore”, la grande stima verso Giuseppe Fava sono nate così, senza conoscerlo, ma leggendo di lui. Certe persone ti entrano dentro al cuore e scavano con le loro intenzioni e i buoni sentimenti.
Certe persone ti penti di non averle conosciute, anche se sai che anagraficamente sarebbe stato difficile, ma senti che sarebbe stata una figata, un gran privilegio. Senti che ti sei perso qualcosa.
Quello del giornalista è un lavoro strano, a tratti ingrato. Ma quella del “giornalista di mafia” è una missione che ti mette in gioco l’anima e anche la vita stessa.
Mi ricordo di aver sentito dire che un tempo i “giornalisti di mafia” oltre alla penna e al taccuino portavano con loro un’arma, non per usarla ma solo per restare vivi, in caso capitasse. Oggi ricevono lettere anonime e hanno una scorta, ma tanto, se vogliono, li ammazzano lo stesso.
Parliamo di loro, onoriamoli sempre. Stringiamoli nei nostri cuori affinchè non rimangano che ricordi appannati dal tempo. Che siano loro i nostri eroi. Anche se non li abbiamo mai conosciuti.
(Agatha Orrico)
GIUSEPPE FAVA
“Ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. (Giuseppe Fava “Lo Spirito di un giornale” 1981)
Nell’aspetto Giuseppe Fava mi ha sempre ricordato Serpico, con quei capelli scarmigliati, le rughe giovani, l’aria bastonata e l’inseparabile giubbotto in pelle. Ma mentre Serpico era un detective italo-americano insolente e pure un po’ tamarro, Fava era un finissimo intellettuale della provincia di Siracusa. Era cazzuto e carismatico, e per questo piaceva ai suoi collaboratori, per la semplicità nell’affrontare le sfide più disperate e quella schiettezza che pare avesse ereditato dai nonni contadini che erano gente semplice.
Ho sentito dire che un tempo i “giornalisti di mafia” portavano con loro, oltre alla matita e al taccuino, una pistola: non per usarla, ma per difendersi, ci fosse stato bisogno.
Quando Fava si mise in testa di andare ad intervistare i boss di Cosa Nostra, lui che prima scriveva di calcio, invece di dargli del pazzo avrebbero fatto bene a procurargli quella pistola. Lui se ne fregava che tanto, diceva, il rischio era il suo migliore alleato. Si dilettava a scrivere libri e sceneggiature dai titoli sinistri (La violenza: quinto potere – Gente di Rispetto – Palermo or Wolfsburg – La mafia comanda a Catania) e poi dirigeva il Giornale del Sud.
Arrivò la notorietà ma con quella anche le minacce, le lettere minatorie e invece dei premi e della solidarietà, come medaglia il licenziamento. “Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”.
Ma il nostro combattente, dopo l’allontanamento dal Giornale del Sud, ritorna in pista più lanciato che mai. Con la velocità di un prestigiatore vende tutti i suoi averi, compra di tasca sua due rotative usate, fa un sacco di cambiali e si inventa “I Siciliani”, convinto che l’unico modo per fare informazione libera sia possedere un giornale proprio. Quando fonda la rivista “I Siciliani” lo definisce subito un giornale antimafia. Già dal sotto titolo (“realizzare giustizia e difendere la libertà”) si intuisce che la rivista è fatta a sua immagine e somiglianza e che, proprio come lui, non è controllabile. Fava improvvisa, raduna a sé un “pugno di carusi”, giornalisti giovani e inesperti ma con la voglia di spaccare – e l’amato figlio Claudio – mentre tutto intorno regnano lo scetticismo e la polemica.
Il primo numero è un attacco alla base missilistica di Comiso, poi ci sono le idee anti americane e i nomi dei boss mafiosi e degli imprenditori collusi. Dà alle stampe un articolo che passerà alla storia dal titolo “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un’inchiesta senza veli sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi (Costanzo, Graci, Rendo e Finocchiaro) denunciati dal giornalista di essere soci di Sindona e dei Santapaola. Tutti fotografati e abilmente sputtanati.
Dopo quell’articolo provano a comprarlo con 220 milioni di lire, ma Fava non è in vendita. Gaetano Graci, che lo aveva licenziato dal Giornale del Sud, spedisce allora a Fava “una quantità smisurata” di ricotta e una cassa di champagne. Che tradotto dal linguaggio mafioso sta a dire: ti ridurremo in poltiglia e brinderemo sulla tua bara.
Fava firma la sua condanna qualche giorno dopo, quando va in Tv a dire:
“Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante”.
E arriva così quel giorno bastardo del 5 gennaio del 1984. Giuseppe esce da quella redazione che è diventata casa per portare la nipotina ad una recita, e qualche attimo dopo la Renault 5 sgangherata diventa un inferno di proiettili che lo colpiscono cinque volte. Alla nuca lo colpiscono, ‘sti brutti figli di. Ucciso dai mafiosi.
Ma tra i giornali è un delirio a chi fabbrica la calunnia più perversa: “Delitto passionale”, “La rivista I Siciliani sul lastrico, movente economico dietro alla morte del giornalista”, “Niente funerali in forma pubblica, niente cariche cittadine al feretro di Fava”. E addirittura “La mafia a Catania non esiste” osa dire quel venduto del sindaco. “Che venga chiusa subito la redazione” tuonano gli onorevoli dai loro uffici in pompa magna.
E mica basta, vogliono insozzare la sua memoria dicendo che era “frocio”, che quando sei bastardo dentro pensi che dare del frocio a qualcuno sia la peggior cosa. E quando sei un uomo tutto d’un pezzo dai fastidio anche da morto.
In una chiesetta isolata, raccolti davanti all’epigrafe che si chiede “A che serve vivere, se non si ha il coraggio di lottare?”, pochi ma sinceri amici onorano la sua memoria. Giuseppe Fava, il grande giornalista, il più spregiudicato, il più sprezzante di tutti, che verrà sputtanato e mortificato di fronte al paese per dieci lunghi anni, scompare come sabbia tra le dita e tutto torna a scorrere in maniera lenta, nel paese dove per qualcuno “la mafia non esiste”.
(Nel 1998 si è concluso a Catania il processo denominato “Orsa Maggiore 3” dove per l’omicidio di Giuseppe Fava sono stati condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso come organizzatori, e Aldo Ercolano come esecutore assieme al reo confesso Maurizio Avola).