(voce di SopraPensiero)

 

A qualcuno, a torto o ragione, fa ancora paura il concetto di femminismo, perché lo associa inevitabilmente all’odio verso gli uomini. In realtà non è così, almeno non dovrebbe essere un collegamento naturale, anzi. La vera femminista ama gli uomini, ama anche le altre donne, ma soprattutto la vera femminista combatte ogni tipo di separatismo, usando la propria emancipazione per sostenere tutti i soggetti meno tutelati dalla società. Quindi non si può affibiare l’appellativo femminista così, con leggerezza, perché personalmente lo allaccerei proprio alla resistenza verso ogni tipo di discriminazione. La femminista deve essere colei che con le proprie forze rigetta il sopruso, sopruso che per anni ha patito e conosciuto sulla propria pelle e al quale, in forme differenti, viene assoggettata ancora oggi. Ogni donna è figlia, nipote, discendente di altre donne che hanno subito umiliazioni e abusi, a qualunque latitudine. Cambiano alcune dinamiche, si modificano le epoche, ma le situazioni che ci accomunano sono sempre le stesse o perlomeno molto simili.

Il femminismo nasce dalla consapevolezza di una disparità rispetto all’uomo, che, se protratta nel tempo sfocia in conflitto. Le donne si uniscono trasformando quel noi in soggetto politico e, consapevoli di una comune forma di oppressione, decidono di combattere insieme il sistema.

Fermiamoci un attimo qui.

Quando si parla di dibattito di emancipazione sarebbe fuorviante prescindere dal contesto socio-culturale nel quale questi cambiamenti prendono forma. Non esiste un modello giusto o da imitare, le donne non si possono omologare. La battaglia per l’indipendenza di una donna bengalese o indiana difficilmente può svilupparsi sulla falsariga di quella di una donna occidentale che lotta per raggiungere la parità salariale, così come la battaglia di una donna africana non potrà prescindere dalle ferite inferte dal colonialismo prima e dal razzismo poi. Non possiamo e non dobbiamo amalgamarci forzatamente, individuando un modello di liberazione a senso unico che pretenda di essere valido per tutte. Quello che possiamo fare è appoggiare e difendere la lotta di altre donne, nel rispetto delle specificità dei diversi contesti temporali, storici, religiosi e culturali, diversamente rischiamo di affrontare il tema del femminismo in versione euro-centrica.

Se da un lato possiamo essere accomunate da temi universali quali il patriarcato, la violenza domestica e l’accesso al lavoro nelle sue diverse sfaccettature, su altre questioni ogni donna deve poter esprimere la propria battaglia nel contesto nel quale vive. Possiamo noi occidentali criticare finchè vogliamo i matrimoni precoci, la bigamia, l’infibulazione, il velo, ma è da dentro, dall’interno della società che deve svilupparsi la spinta decisiva delle donne che vivono sulla propria pelle queste pratiche, decidendo come e se siano da combattere. Non sarà attraverso la critica astratta, il giudizio moraleggiante o la rappresentazione di un modello che debba obbligatoriamente uniformarsi alle esigenze occidentali che verrà segnata una svolta decisiva.

La rappresentazione, che spesso si trasforma in una sorta di demonizzazione, di certe situazioni vissute da altre, non tiene conto del contesto e penalizza le donne del terzo mondo rappresentate perennemente come vittime sacrificali, senza voce,  impossibilitate a rappresentare loro stesse. Un racconto che sminuisce le spinte interne che stanno coinvolgendo tante femministe nei loro paesi facendole apparire, nuovamente, come bisognose di interventi esterni. Se il termine stesso di femminismo dovrebbe corrispondere ad una “libertà di scelta”, che questa sia condivisa in base alla propria cultura ed al proprio vissuto, che è differente per ognuna di noi.

Ritornando al discorso in premessa, se femminismo significa appoggiare le minoranze, affinchè vi siano maggiori riconoscimenti della libertà di ognuno, contro l’oppressione dei sistemi sociali, allora questa parola ha ancora un senso, e forse oggi più che mai assume un ruolo fondamentale. La vera femminista si batte per la manager come per la prostituta, si batte per il gay e per la lesbica, per il disabile e per la detenuta con figli. Si batte sia per i diritti della ragazzina che per quelli dell’anziana. E si spende anche per l’uomo che viene discriminato, essendo lei stessa portatrice di un fattore discriminatorio presente nel suo stesso dna. Anche l’uomo può appoggiare la battaglia femminista, se inquadrata in questi termini. Questo non deve tradursi in un’esaltazione sessista, dove la donna è depositaria della bontà e l’uomo della cattiveria, altro palliativo di un certo tipo di femminismo disgregante, bensì il motivo che dovrebbe spingerci tutte ad essere femministe permettendo agli uomini di appoggiare determinate battaglie.

La narrazione va dunque ripensata e aggiornata. La lotta delle nostre nonne e bis-nonne occidentali, private di qualsivoglia potere decisionale all’interno della famiglia patriarcale e delle istituzioni, va rivista alla luce del nostro tempo. Oggi l’uomo si è fatto carico delle sue responsabilità in modo molto maggiore rispetto al passato trasformandosi spesso in alleato, non è più quel padre-padrone privo di qualsivoglia empatia che incuteva timore, almeno non qui e non nella maggior parte dei casi. Ma la rivendicazione di alcuni diritti, periodicamente rimessi in discussione anche nelle società maggiormente all’avanguardia in merito ai diritti civili, aggravata dai continui femminicidi, si riaffaccia puntualmente alla ribalta costringendoci a non abbassare la guardia.

In alcuni contesti arabi la donna musulmana, dopo aver goduto di una breve parentesi paritaria, ha dovuto subire uno sconvolgimento di ruoli che l’hanno riportata indietro, e si trova ancora una volta a combattere contro il patriarcato imperante. Allo stesso tempo però paradossalmente la sua battaglia và anche contro certi canoni imposti da altre società che la considerano inferiore sul piano dell’uguaglianza, come se spettasse ad altri  giudicare in quali termini ella debba manifestare le proprie istanze. Ella deve invece essere libera di essere ciò che è. La donna africana ha nuove strategie da mettere in atto. Non può più basare la sua lotta utilizzando le stesse modalità degli anni ’70, le cui portavoci gettavano le fondamenta esclusivamente sugli effetti coloniali dell’uomo bianco-padrone sulla donna. Anche se il contesto coloniale ed il razzismo sono stati fortemente caratterizzanti nella sua evoluzione storica,  e lo sono ancora oggi, partendo da lì dovrà necessariamente sviluppare anche altri modi e tempi di emancipazione nel contesto odierno che possano apparentarla ad altre donne che spingono su altre tematiche universali (temi che sicuramente vanno approfonditi e che meritano un articolo a parte).

In questa nuova narrazione globale bisogna poi inserire, come accennato, tutti quei soggetti che vivono una sessualità ed una identità a cavallo tra due generi, e che hanno gli stessi diritti di espressione e di pacifica convivenza rispetto alle altre categorie.

Non più un femminismo che si basi sul binomio uomo-donna, ma un concetto più ampio e malleabile rispetto alle nozioni tradizionali di identità, che tenga conto altresì di fattori sociali ed economici: le criticità di una donna affrancata economicamente mal si apparentano a quelle di una donna povera costretta a vivere di espedienti.

Un femminismo “nuovo” non può discernere da quella nozione di intersezionalità che distingua tra le tipologie di differenze, che siano di genere, di etnicità, di classe o di scelte sessuali, senza tuttavia perdere di vista quella forma di predominio patriarcale che ci accomuna nello squilibrio di potere.

Mi dà da riflettere e mi fa un po’ sorridere ogni qual volta sento teorizzare sul femminismo quelle donne che si ostinano a essere portavoci di altre, che pretendono di conoscere il vissuto di tutte, assumendo come punto di riferimento le proprie esperienze a modello unico, come se ci fosse un femminismo più avanzato di altri: si rischia di finire in stereotipi che racchiudono una visione che invece ha la necessità di esprimersi non come soggetto forzatamente omogeneo ma in modo eterogeneo.

Ogni donna è un mondo a sé, e come tale andrebbe rispettata.

(di Agatha Orrico)