«L’abolizione della lotta politica nell’esaltata unanimità delle folle è un regresso evidente se si pensa che non si possono elaborare idee politiche quando gli uomini che le pensano sono soffocati.»
Lo scrive Gobetti pochi mesi dopo la marcia su Roma, in questo saggio del 1923 che prelude alla sua più matura opera politica, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, del 1924. Pur dichiarando di non poter ancora formulare un giudizio obiettivo sulle vicende storiche in atto, riesce a coglierne l’aspetto cruciale inerente al tema del saggio, la “cultura politica“.
Dal bolscevismo al fascismo è il frutto del parziale rifacimento di un articolo pubblicato qualche mese prima sulla rivista settimanale “La rivoluzione liberale”, fondata dallo stesso Gobetti agli inizi del ’22 con l’intento di contribuire alla formazione di una nuova classe politica in grado di coniugare i valori ideali con una realtà in continua trasformazione. Con questo saggio egli intende trarre un «bilancio del pensiero espresso dai vari partiti nel processo normale della vita italiana prima delle ultime convulsioni», nella convinzione che errori e carenze della classe dirigente e dei partiti di opposizione abbiano creato terreno fertile per l’ascesa del fascismo.
Gobetti prende in esame la classe dirigente italiana dagli anni ’70 al presente, a suo parere inadeguata per cultura ed esperienza, che si limita ad occuparsi delle questioni amministrative: ne è un esempio «Giolitti che si potrebbe dire la sublimazione più rara e quasi unica dell’ordinaria amministrazione». Prosegue poi con un’impietosa disamina dei partiti di opposizione, ed in particolare dei socialisti, che progressivamente hanno abbandonato i propri valori ideali per scendere a compromessi ed accontentarsi di piccole riforme, senza mettere in discussione il sistema. Mancano ovunque cultura politica e capacità di calare nella prassi le teorie rivoluzionarie, e pertanto
«La pratica riformista era perciò curiosamente priva di ogni lume della cultura e della tecnica, la predicazione rivoluzionaria s’inebriava di parole.»
In sintesi, quindi,
«nè i liberali, nè i socialisti, nè i cattolici popolari trovano la via per la formazione precisa di ideologie politiche vitali per il futuro.»
Un quadro, quindi, desolante, benché non manchino eccezioni come Nitti, Salvemini, «il nuovo Cattaneo della nuova incompiuta unità», e Sturzo, «il riformista del messianismo», dei quali Gobetti analizza pensiero ed azione politica.
Non meno grave, secondo Gobetti, è la responsabilità della stampa: quella del nord, pur all’altezza delle coeve esperienze europee, è «di un illuminismo caratteristicamente borghese», nettamente migliore, comunque, di «certo grossolano giornalismo opportunista e parlamentaristico della capitale e quello demagogico del sud.» Eccezioni positive, che Gobetti mette in risalto valorizzandole, “L’Unità” di Salvemini e “L’Ordine nuovo” di Gramsci, intellettuale che nella sua esperienza torinese riesce a coniugare efficacemente, nella rivista e nell’azione all’interno della FIAT, valori ideali e prassi.
«Nell’Unità s’incontrano almeno tre diverse aspirazioni: il pensiero di creare una nuova élite, la preoccupazione mazziniana di rinnovare lo spirito popolare, l’esigenza di studiare a fondo i problemi della vita italiana. […] Il mito di riscossa proletaria ebbe più vigorosamente e realisticamente i suoi teorici in una piccola rivista torinese, L’Ordine Nuovo, che fu forse il più curioso tentativo di creare una classe dirigente che aderisse alle reali condizioni economiche del proletariato e ne fosse l’espressione e il potenziamento.»
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
Dopo il Risorgimento l’Italia non ha saputo creare più i grandi miti intorno a cui si organizza nel corso della storia il pensiero di una nazione sintetizzando le manifestazioni più diverse. I miti stessi del Risorgimento erano stati poveri e generici, o meglio, non avendo avuto un sufficiente periodo di maturazione, erano rimasti allo stato di ideologie, non avevano avuto il tempo di cimentarsi con la realtà costringendo gli uomini a sentire il dissidio tra pensiero e azione, a risolverlo chiaramente
ossia a formarsi una coscienza realistica. Non nascendo dalle esigenze morali, l’azione politica era per gli Italiani qualcosa di esterno e di dilettantesco; Cavour non diventò popolare per le sue qualità di realizzatore, ma per quella sua astuzia esterna e niente affatto eccezionale che lo faceva protagonista di mistificazioni internazionali.
Scarica gratis: Dal bolscevismo al fascismo di Piero Gobetti.