Opera giovanile della scrittrice, firmata con il suo cognome soltanto, scritta prima del matrimonio con il professor Gentile, questo volume del 1872 raccoglie tre racconti più lunghi e diversi bozzetti, questi ultimi contenenti brevi immagini che assolvono all’intento educativo di stimolare il cuore delle giovinette verso i buoni sentimenti.
L’autrice aveva solo ventidue anni quando scrisse questa raccolta, ma i temi della sua produzione successiva sono già delineati, particolarmente nelle novelle più lunghe. Le protagoniste sono giovani capaci di sacrificare i sentimenti, i sogni di felicità e perfino il proprio amore per fare la felicità dei propri cari. Tecla, giovane negra accolta come una sorella in una casa italiana, si lascia morire per non essere d’ostacolo alla felicità del padroncino, di cui si è innamorata. Per Amina l’amore che supera ogni ostacolo è quello per la madre ed il fratellino, e lo esprime sacrificandosi in un lavoro tra gente insensibile pur di garantire loro il danaro per una vita dignitosa. Virginia si chiude in convento per poter lasciare la sua ricca dote alla sorellastra, che la contraccambia con invidia e alterigia. Solo quest’ultima giovinetta potrà alla fine trovare la felicità tra le braccia del giovane che l’ama e in compagnia dell’amatissimo babbo, dopo avere sfiorato la morte curando i malati. Ed è compito di Virginia soprattutto l’introduzione in questo libro di un elemento chiave della futura produzione della Vertua, cioè l’amore per la natura, che nell’alternarsi delle stagioni fornisce ogni giorno nuove immagini e nuove gioie a chi è capace di apprezzarla.
Articolo di Gabriella Dodero
Dall’incipit del primo racconto Tecla la negra:
L’aveva comperata in un suo lungo viaggio e portata seco in Italia il ricco negoziante B…. quand’ella toccava appena il primo lustro, per recarla in dono a sua moglie come un oggetto di lusso per la casa, che, ricca di più milioni, godeva non poca rinomanza nei dintorni. Ma sua moglie, una natura tutta sensibilità e tenerezza, si commosse alla vista della povera bimba, che, quasi impaurita, la guardava di sottocchi nascondendo il capo fra le spalle; l’accarezzò, l’affidò alla sua cameriera, le permise la compagnia dell’unico suo figlio, l’idolo della casa, Carlo, fanciullo di otto anni. La piccola negra guardava con curiosità le bianche carni del fanciullo, i suoi capelli d’un biondo dorato, i suoi occhi color del cielo, e se avveniva che nelle specchiere dei sontuosi salotti vedesse riflessa la di lei povera immagine, si copriva il volto colle mani e fuggiva a nascondersi piangendo. Ci volle molto prima che intendesse il linguaggio del paese, e riescisse a balbettarlo lei stessa; in quel frattempo strinse grande amicizia con Medor, un grosso cane barbone tutto nero e dal pelo ricciuto come i di lei capelli; si vedevano sempre insieme o accovacciati sotto il tavolo di cucina, o sul pratello del giardino rotolarsi insieme sull’erba, oppure distesi in corte dormicchiare l’uno presso l’altro al sole; ella stessa rispondeva ubbidientemente con una corsa a chi chiamava Medor; aveva perfino imparato a spiccare un salto per afferrare il pezzetto di carne o d’altro con che i servitori si divertivano a farle cilecca.
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