Castel Romito.

di
Egisto Roggero

tempo di lettura: 9 minuti


La strada mi appariva interminabile.

La grande vettura da viaggio saliva l’erta faticosa, sotto il cielo livido, sotto la diaccia pioggia che batteva fitta contro i vetri degli sportelli.

Imbruniva.

Il lividore dell’ora triste si univa a quello del cielo, corso da grandi nubi, e al tenebrore del triste paesaggio che traverso i vetri appannati dalla pioggia io vedeva sfilare davanti ai miei occhi stanchi e assonnati.

Grandi alberi neri, cupe colline, valli profonde e paurose si profilavan un momento, con la oscura evanescenza di un sogno, davanti alla mia giovanetta mente turbata e poi dileguavan, ritornando nel buio, d’onde erano usciti un istante, al passaggio della nostra lenta e stanca carrozza.

Io avevo quindici anni e per la prima volta lasciavo la bella e rumorosa città che mi aveva veduto crescere, che aveva avuto le mie prime impressioni, i miei primi pensieri, i miei sogni di fanciullo fantasioso e, ahimè! forse, poeta….

Nulla io sapevo della Villa dove andavamo a passare un anno, due, forse molti….

La cagionevole – quasi disperata – salute della mia povera madre aveva imposto a noi tutti l’abbandono della bella e rumorosa città mondana ed operosa per la conquista dell’aria montana, ossigenata, ricca dalle essenze dei boschi e de’ grandi orizzonti aperti.

Sapevo che la Villa alla quale mia madre andava a chiedere l’aria pura – forse la vita – per i suoi poveri polmoni consunti, era sull’alto d’una vetta selvaggia, libera, lontana da ogni rumore di vita e da ogni alito men che puro, e si chiamava Castel Romito.

E non sapevo altro.

Eravamo partiti all’alba d’una plumbea giornata d’Aprile – l’ultimo anelito di collera dell’inverno ormai a presso a morire – e mentre il sole si spegneva laggiù, in basso, in fondo alla valle, nella sua agonia di porpora e d’oro, io scorgevo finalmente, per la prima volta, sulla vetta del colle davanti a noi, il profilo fantastico e severo di Castel Romito.

Esso spiccava in alto, sul cupo fondo del cielo, che gli ultimi guizzi del sole morente chiazzavano qua e là di macchie sanguigne.

Una svelta torretta sovrastava al nero ammasso indeciso che ne formava il solido corpo e sull’apice di quella torretta un’asta altissima scintillava a quegli ultimi palpiti del grande astro che se ne andava: e in cima a quell’asta era uno scudo e una piccola croce.

Quando la carrozza si arrestò davanti al grande cancello bruno, sotto il pesante arco di pietra, io discesi smarrito e come in sogno.

Era una grande quiete e un buio enorme, intorno.

Dalla valle grandiosa, sotto di noi, che io intuiva e non vedeva, veniva a me un lontano e profondo frastuono di acque correnti, risvegliate dalla pioggia recente e un infinito anelito di vuoto e di mistero.

E come in sogno sempre, entrai nella Villa, salii i vecchi gradini del castello, traversai le camere spaziose dalle quali la lampada non riusciva a scacciare le ombre immense.

Come in sogno, sempre, assistetti al breve ristoro de’ miei genitori nella grande sala da pranzo, fiancheggiata da credenze enormi, dipinta a grandi stemmi sbiaditi, sulla gran tavola bruna, nel cui mezzo la lampada d’argento proiettava la sua luce smorta e tarda dopo tanti anni di sonno….

E come in sogno mi cacciai infine nel troppo ampio, per me, letto di noce, e mi raggomitolai sotto le coltri.

Ma la mente stanca e turbata non riuscì ad accogliere subito il sonno.

La grande quiete con che la Villa ci aveva accolti al nostro arrivo non era più.

Una grande collera di vento era succeduta al silenzio e alla calma di poc’anzi.

Un grande fremito di tempesta passava ora sulla Villa.

E tutta la squassava, e tutta la empieva di urla o di gemiti, di convulsi cigolii e di terrore.

Io sentivo gli alti alberi – scheletri immensi nella notte – contorcersi urlando e scricchiolando in tutte le membra, divincolarsi violenti contro una forza misteriosa e terribile, come fiere contro una belva più potente di esse.

E io – gelido e turbato e tremante e atterrito sotto le coltri – sentivo quasi nelle ossa il freddo che sferzava quegli alberi – scheletri immensi nella notte – e il fremito potente che li contorceva.

Ma il mattino dopo, all’alba, discesi all’aperto….

Rimasi trasognato.

Era una chiara e dolcissima alba d’Aprile, e tutto intorno a me era chiaro, luminoso, fresco, delicato.

Il tragico paesaggio pauroso della notte innanzi ov’era egli dunque?

Intorno a me tutta la Villa rideva, d’un tenero sorriso innocente.

Gli alberi avean tutti, nelle rame nude ancora, una sottile pelurie d’un verdolino morbido ed evanescente, quasi, nella grande delicatezza sua.

Qua e là de’ mandorli in fiore mettevan la trina candida delle loro corolle.

L’aria avea un sottile odore buono; era un odore fresco e misterioso che sapeva di viole, di piccole foglie tenere, appena sbocciate, e della terra che si svegliava lieta e felice dopo un lungo sonno invernale!

Io vedeva tutta la valle – immensa – e tutta verde e tutta fragrante, tutta susurrante e tutta luminosa.

Dietro a me Castel Romito, cupo e severo, nelle sue vecchie pietre che il tempo aveva annerite, non pareva più cattivo, ora, nè triste.

Come un caro vecchio bonario in mezzo a’ nipotini fanciulletti egli pareva guardare, sorridendo alquanto, la cara gioia della vita agreste che da tanti secoli lo circondava.

Castel Romito era posto sulla vetta della collina, intorno avea un piccolo giardino, scavato tra i duri macigni, saldissime fondamenta del fabbricato; poi i fianchi in parte dirupavan giù, scoscesi e irti, in parte discendevan meno scabrosi, popolati di alti roveri e di faggi e quivi si volgeva la villa, selvaggia e libera, sì, ma non nemica.

Un ciarliero ruscello, di cascatella in cascatella, sgorgando da un’ampia crepa della roccia, si raccoglieva in giù, ove la china era più mansueta, in un rivo limpido e cristallino, traversato ad un certo punto da un rustico ponticello di legno.

Divenni subito padrone della Villa e amico de’ vecchi alberi ruvidi e bonari….

Oh! le belle ore ch’io passavo fra essi, ascoltando le voci che mi mandava la valle, la grande valle piena di luci e susurrante, e il cinguettio dei passeri e de’ merli sulle verdi fronde sopra la mia testa!…

E una grande melodia veniva sino a me a farmi sognare.

Era il picciol corso del torrentello, che traversava la Villa – il picciol corso ciarliero che balzellando da un dirupo all’altro scendeva giù cantando una vecchia canzone da secoli, ch’io ascoltavo rapito e pensoso….

C’era un punto, del breve cammino di questo torrentello, ov’io amava fermarmi e sedermi a lungo misteriosamente attratto.

Era un grosso gomito nel macigno.

Un ruvido scoglio s’ergeva da un lato: l’acqua azzurrina lo lambiva dapprima, poi, voltando improvvisa gli si scagliava contro spumante e con uno strano e bizzarro fragore.

E c’eran mille strani suoni vaghi in quell’urto improvviso dell’acqua, sino allora sì pazzerella e lieta, contro quel grosso macigno ruvido e bruno.

Come un cupo rimbombo che andava a risolversi in un tintinnar metallico e argentino….

Sopra lo scoglio un grosso cespo di rose: in maggio dovea rifulger tutto di olezzo e colori….

Ora un giorno ch’io, seduto presso allo scoglio, guardava l’acqua – limpida sino allora – turbarsi e incollerirsi quasi nell’assalto furioso contro la roccia, osservando bene verso il fondo mi parve scorgere la forma regolare di uno spigolo verdastro che rompeva la liquida corrente.

Osservai bene e a lungo, ma non compresi….

Chiamai mio padre.

Egli osservò, tastò con la punta di un bastone ferrato, poi disse:

— Questa non è roccia… sembra metallo….

Fu chiamato uno de’ servi che discese nell’acqua e osservò dappresso.

— Sembra di bronzo – mormorò costui.

Il giorno dopo il mio babbo incuriosito fe’ battere una picca sopra il curioso spigolo che ci aveva attratti.

Essa parve risuonare, come un corpo vuoto.

Allora mio padre dette ordine di scoprire il mistero.

Fu scalzato il macigno – durissimo.

Le picche d’acciaio gettavan faville sulla roccia adamantina quasi nella grande durezza.

Poi, a pezzi, la pietra si staccò intorno allo strano spigolo verdastro.

E una massa bruna, lunga, metallica apparve.

— Sembra una bara – qualcuno di noi esclamò.

Il lavoro continuò lento ed assiduo.

— È una bara – mormorò mio padre.

E alla fine una vera bara di bronzo apparì.

Di rame, impenetrabile, verdastra dal tempo, essa, da anni, da secoli forse! avea fatto corpo con la roccia, s’era compenetrata in essa, e baciata dall’onda ciarliera del ruscello avea posato ignorata e quieta tanti anni – dei secoli forse – nel suo silenzio.

E noi – curiosi ed irrequieti – ne avevamo turbato il sonno e la pace.

La massiccia bara di rame fu aperta.

Poche ossa bianchissime.

Un sottil filo di seta – color della neve – posava qua e là su quelle ossa fulgenti quasi, nel loro candore.

A chi avean appartenuto quelle spoglie?

Qual castellano o castellana avea voluto dormir l’eterno sonno lassù, incastrato nella viva roccia, baciato dal torrentello forse tanto noto e compagno?

Qual dramma o romanzo di amore o di collera, di dolcezza o di ira, di passione o di colpa rinserravan esse?

La mia mente giovanetta e turbata sel chiedeva.

Nulla.

Nessuno sapeva nulla.

Nessuna leggenda – giù nella valle – vagolava intorno alle brune pietre di Castel Romito.

Tozzo maniero del secolo XV era stato rimodernato nel seicento da un signorotto di que’ luoghi.

Nessuna romantica storia d’odio o d’amore, di dolcezza o d’ira, di passione o di colpa saliva su su dalla valle – de’ que’ semplici contadini – ad abbellire di poesia e di sogno quella vecchia dimora solenne e sì poco nota.

Io guardavo le ossa che – bianche, pure, immacolate – serbavan silenziose il loro mistero.

E – presso ad esse – risognai, chiudendo gli occhi, alcune delle vecchie e alate storie meravigliose perdute nelle ombre e nella dolcezza del passato lontano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Cecilia di Rosa Santa – bellissima e pia – aveva saputo notizia che lo sposo adorato era morto in guerra.

«Non volle prestar fede alla crudele notizia e, sopra una Rosa simboleggiante la Fede e l’Amore, innalzò ardentissima preghiera a Dio di cedere la sua giovane vita per quella dello sposo adorato, pur di rivederlo vivo e forte, come prima, ancora una volta.

«Il giorno dopo l’Atteso si presentò alla sposa.

«Ella lo baciò tremante e trasfigurata di letizia e di arcana dolcezza, poi lo condusse presso il tralcio, sulla cui rosa bellissima, simbolo di Fede e di Amore, ella avea profferito il suo voto, e lo baciò sulla fronte.

«Poi chinatasi davanti al rosaio in orazione, una bianchissima colomba ne raccolse l’anima celestiale conducendola in alto, nell’eterno azzurro che sulla sua bianca e giovane salma ormai sfolgorava.

«Ed ivi sepolta, sull’istesso piissimo luogo reso sacro dall’ineffabile sacrifizio di amore, gli anni e i secoli passarono sulla bianca salma e con essi l’oblio, ma non il profumo dell’ineffabile miracolo.»

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E, come questa, le alate leggende fiorirono per quel giorno nella mia anima giovinetta, davanti alle bianche ossa immacolate che silenziose serbavan il loro secreto.

Fine.


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TITOLO: Castel Romito
AUTORE: Egisto Roggero

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA:I racconti meravigliosi / Egisto Roggero. - Milano : La poligrafica, 1901. - 257 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale