di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Istoria del secondo Calender

tempo di lettura: 17 minuti


— Signora – disse il secondo Calender – io era uscito appena d’infanzia, quando il Re mio padre, osservando in me molto ingegno, fece di tutto per coltivarlo: feci tanti progressi, che avanzai tutt’i primi scrittori del Regno.

La fama mi onorò più che io meritassi; né contentossi di diffondere il grido del mio ingegno negli Stati di mio padre, ma portollo ancora fino alla Corte delle Indie, il cui possente Monarca, ansioso di vedermi, inviò un ambasciatore con ricchi doni per domandarmi a mio padre, il quale, fu lieto di quell’ambasciata.

Era persuaso che nulla meglio conveniva ad un Principe della mia età che viaggiare nelle corti straniere. Partii dunque coll’ambasciatore, ma con poco equipaggio.

Era un mese che stavamo in viaggio, quando scorgemmo apparire cinquanta cavalieri ben armati. Essi erano ladri che venivano a noi.

Non essendo nello stato di respingere la forza con la forza, dicemmo loro che eravamo ambasciatori del Sultano delle Indie, sperando di salvare col nostro equipaggio la vita, ma i ladri ci risposero:

— Perché volete che rispettiamo il Sultano vostro padrone? Noi non siamo suoi sudditi e neppure siamo sul suo territorio.

Terminate queste parole ci circondarono e ci investirono.

Io mi difesi più che potei: ma sentendomi ferito, e vedendo che l’ambasciatore, le sue genti e le mie erano state tutte gettate a terra, profittai del residuo delle forze del mio cavallo, e mi allontanai da loro. Lo spinsi per quanto poté portarmi: ma venendo a mancarmi di sotto, cadde morto di stanchezza. Mi sciolsi sollecitamente da esso, osservando che nessuno mi inseguiva.

Rimasi dunque solo, ferito, privo di soccorso in paese sconosciuto. Dopo avermi fasciate le piaghe camminai il resto del giorno, e giunsi al piede di una montagna, in mezzo al cui fianco scopersi l’apertura di una grotta. Entrai, e vi passai tutta la notte tranquillamente, dopo aver mangiato qualche frutto raccolto per via.

Continuai a camminare la mattina ed i giorni seguenti senza trovar luogo dove arrestarmi: ma al finir del mese scopersi una grande città popolatissima.

Entrato in città per prender notizia ed informarmi ov’era, mi diressi ad un sarto che lavorava nella sua bottega. Egli mi fece sedere accanto a lui e volle conoscere la mia istoria, che gli raccontai.

Il sarto mi udì attentamente: ma quando ebbi terminato di parlare, invece di confortarmi, mi rattristò.

— Guardatevi di dire agli altri ciò che avete raccontato a me: perché il Principe che regna qui è il più fiero nemico di vostro padre, e vi farebbe senza dubbio oltraggio se fosse informato del vostro arrivo in città.

Ringraziai il sarto dell’avviso datomi, e mi affidai ai suoi consigli.

Qualche giorno dopo il mio arrivo egli, osservandomi molto rimesso dalla fatica del lungo e penoso viaggio fatto, mi disse:

— Se volete seguire un mio consiglio, prendete un abito corto: e andate nella vicina foresta a far legna da bruciare. Verrete ad esporle e vendere in piazza e vi assicuro che vi trarrete tanto da poter vivere.

Il giorno seguente il sarto mi comprò una scure ed una corda, con un abito corto, raccomandandomi a’ poveri abitanti che guadagnavano la loro vita nello stesso modo, li pregò di condurmi con loro, il che fecero: ed io, fin dai primi giorni, portai in testa un grosso carico di legna, che vendei per mezza piastra d’oro del paese. In poco tempo guadagnai molto e restituii al sarto il danaro che aveva anticipato per me.

Era più d’un anno ch’io viveva così, quando un giorno, essendomi più del solito inoltrato nella foresta arrivai in un luogo delizioso ove mi posi a tagliar legna. Strappando la radice di un albero scopersi un anello di ferro attaccato ad una botola dello stesso metallo. Tolsi tosto la terra che lo copriva, l’alzai, e vidi una scala ove scesi con la mia scure.

Quando fui al basso della scala mi vidi in un vasto Palazzo.

M’inoltrai: ma vedendomi venire dinanzi una donna che parea avere un’aria nobile, svelta ed una bellezza straordinaria, mi fermai a guardarla.

Per risparmiare alla bella donna la pena di venir fino a me, mi sollecitai, e mentre le faceva una profonda riverenza mi domandò:

— Chi siete? Siete uomo o Genio?

— Son uomo, signora; e non ho alcun commercio coi Genii.

— E per quale avventura vi trovate qui? Son venticinque anni che vi dimoro, e non ho veduto altro che voi.

Le raccontai fedelmente per quale strana avventura ella vedeva nella mia persona il figlio d’un Re, e come il caso mi avesse fatto scoprire l’entrata della prigione.

— Ah! principe – diss’ella sospirando – Non è possibile che non abbiate mai udito parlare del grande Epitimario, Re dell’Isola d’Ebano, così detta per l’abbondanza di questo legno prezioso ch’essa produce. Io sono la principessa sua figlia. Il Re mio padre mi aveva scelto per isposo un Principe, mio cugino: ma la prima notte delle mie nozze un Genio mi rapì. In quel momento svenni, perdei ogni conoscenza, e quando ebbi ripresi i miei spiriti, mi trovai in questo Palazzo.
Son venticinque anni, come vi ho detto, che sono qui, dove posso dire che ho in abbondanza tutto quanto è necessario alla vita, e quanto può contentare una Principessa.

— Di dieci in dieci giorni – continuò la Principessa – il Genio viene a trattenersi una sola volta con me. Nonostante, quando io ho bisogno di lui, sia di giorno, sia di notte, tocco un talismano ch’è nella mia stanza, ed il Genio comparisce.

Sono oggi quattro giorni ch’è venuto, e l’aspetto fra sei altri, perciò potrete dimorar con me cinque giorni per tenermi compagnia.

Io, che mi sarei stimato troppo fortunato ottenere sì gran favore, domandandolo, ad una offerta così obbligante l’accettai con immensa gioia.

Ci sedemmo sopra un sofà, e poco dopo ella pose sur una tavola delle vivande delicatissime. Mangiammo insieme e passammo il resto della giornata lietamente.

L’indomani, le dissi:

— Bella Principessa, è molto tempo che siete sotterrata viva! Seguitemi; venite a goder la luce del giorno, di cui siete priva da tanti anni.

— Principe – essa mi rispose sorridendo – lasciamo questi discorsi. Io conto per nulla il più bel giorno del mondo purché de’ dieci vogliate trattenervi nove con me, lasciando il decimo al Genio.

— Principessa – le risposi – mi accorgo che il timore del Genio vi fa parlare così: per me io lo temo sì poco, che vado a mettere in pezzi il suo talismano. Che venga allora: io l’aspetto. Comunque bravo, comunque formidabile che egli possa essere, gli farò sentir il peso del mio braccio. Giuro di sterminare tutti i Genii del mondo, e lui per il primo!

La Principessa, che ne conosceva le conseguenze, mi scongiurò di non toccare il talismano.

I vapori del vino non mi permisero di capir le ragioni della Principessa, e con un colpo di piede misi in pezzi il talismano.

Non sì tosto fu rotto, il Palazzo si scosse come per frangersi con un rumore spaventevole.

Questo orribile fracasso dissipò in un momento i fumi del vino, e mi fecero conoscere, ma troppo tardi, l’errore commesso.

— Principessa – esclamai – che vuol dir ciò?

Ella mi rispose spaventata e senza pensare alla sua sventura:

— Ahi! è finita per voi, se non vi salvate!

Seguii il suo consiglio, e il mio terrore fu sì grande, che dimenticai la scure e le mie pantofole.

Aveva appena guadagnata la scala per dov’era disceso, che il palazzo incantato si aprì, e diede passaggio al Genio.

Domandò adirato alla Principessa:

— Che vi avvenne? Perché mi chiamate?

— Un mal di cuore – gli rispose la principessa – mi ha obbligata di andar a cercare la bottiglia che qui vedete; ho bevuto due o tre volte, per disgrazia ho fatto un passo falso e son caduta sul talismano, che si è spezzato. Non è altro.

A questa risposta il Genio furioso, le disse:

— Siete un’imprudente, una mentitrice! queste pantofole perché sono qui?

— Io non le ho vedute che adesso – disse la Principessa – Con l’impeto che siete venuto, forse l’avete portate senza accorgervene.

Il Genio rispose con ingiurie e con busse, di cui intesi il rumore. Non ebbi fermezza di udire i pianti e le grida pietose della principessa, maltrattata sì crudelmente.

Così terminai di salire, tanto più penetrato di dolore e di compassione, inquantoché ero io la cagione di sì grande sventura, e perché sacrificando la più bella Principessa della terra alle barbarie di un Genio, io m’era reso il più ingrato di tutti gli uomini.

— È vero – diceva io – ch’ella è prigioniera da venticinque anni, ma toltane la libertà, essa non avea null’altro a desiderare per esser felice. Il mio trascorso distrugge la sua felicità e la sottomette alla crudeltà d’un demone spietato!

Abbassai la botola, la ricopersi di terra, e ritornai in città con un carico di legna, che accomodai senza saper ciò che facessi, tanto ero turbato ed afflitto.

Il sarto, mio ospite, mostrò molta gioia nel vedermi. Lo ringraziai del suo zelo e della sua affezione, ma non gli confidai nulla di quello che mi era avvenuto. Mi ritirai nella mia stanza, rimproverandomi mille volte l’eccesso della mia imprudenza.

Mentre mi abbandonava a questi pensieri, entrò il sarto e mi disse:

— Un vecchio che io non conosco è giunto con la scure e le vostre pantofole, che dice aver trovate per via. Ha saputo dai vostri compagni boscaiuoli che voi dimorate qui, e vuole che andiate a parlargli per restituirvele.

A tai detti cangiai di colore, e tutto il corpo mi tremò.

Il sarto me ne domandava la cagione, quando il pavimento della mia stanza si aprì.

Il vecchio, che non aveva avuta la pazienza d’aspettare, apparve, e presentossi a noi con la scure e le pantofole.

— Io sono il Genio figlio della figlia d’Eblis, Principe de’ Genî. Non è questa la tua scure? Non son queste le tue pantofole? – disse volgendosi a me, e dopo fatta questa domanda, non mi diede tempo a rispondere, né io avrei potuto farlo; tanto la sua spaventevole presenza mi avea posto fuori di me.

Mi prese per mezzo il corpo, mi trascinò fuori della stanza, e lanciandosi nell’aria mi elevò al cielo con rapidità. Piombò poi sulla terra, e facendola schiudere con un colpo del suo piede, vi si sprofondò: e tosto io mi vidi nel palazzo incantato, dinanzi alla bella Principessa dell’Isola d’Ebano.

Quella Principessa era nuda, insanguinata tutta, stesa per terra più morta che viva.

— Perfida – le disse il Genio mostrandomi a lei – non è questo il mio rivale?

Essa gettò su di me i suoi languidi sguardi, e rispose tristamente:

— Io non lo conosco.

— Ebbene – disse il Genio traendo una sciabola e presentandola alla Principessa – se non lo hai veduto mai, prendi questa sciabola e spiccagli la testa!

— Oh! – disse la Principessa – come potrei eseguire ciò ch’esigete da me? Le mie forze sono esauste, che non potrei alzare un braccio: e quand’anche lo potessi, avrei io il coraggio di dar la morte ad un uomo che non conosco, ad un innocente?

— Questo rifiuto – disse allora il Genio alla Principessa – mi fa manifesto tutto il tuo delitto.

Indi volgendosi a me:

— E tu non la conosci, tu?

Sarei stato il più ingrato di tutti gli uomini se non avessi avuto per la Principessa la stessa fermezza, che ella ebbe per me. Onde risposi al Genio:

— Come posso conoscerla se non l’ho mai veduta?

— S’è vero – egli riprese – prendi dunque questa sciabola, e tagliale la testa. A tal prezzo ti porrò in libertà, e potrò allora assicurarmi se come dici, non l’hai mai veduta.

— Volentieri – io risposi, e presa la sciabola dalle sue mani mi avvicinai all’infelice…

Lo feci soltanto per mostrarle col gesto, per quanto mi era permesso, che come essa aveva la fermezza di sacrificar la sua vita per amor mio, io non rifiutava di sacrificar la mia per amor suo.

La Principessa, come comprese il mio disegno ad onta dei suoi dolori e delle sue afflizioni, mi espresse con uno sguardo affettuoso la sua gratitudine e mi fece intendere che ella moriva volentieri, e ch’era lieta di vedere il mio sacrificio.

Retrocessi allora, e gettando a terra la sciabola, dissi al Genio:

— Sarei biasimato eternamente da tutti gli uomini se avessi la viltà di ammazzare una persona come costei vicina a morire. Fate di me quel che volete, perché sono in vostro potere, ma non obbedirò mai al vostro barbaro comando!

— Veggo bene – disse il Genio – che entrambi mi corbellate, insultando alla mia gelosia, ma conoscerete di che cosa sono capace.

A queste parole il mostro riprese la sciabola e tagliò una mano alla Principessa, che ebbe appena il tempo d’alzar l’altra per darmi un eterno addio.

Dopo questa crudeltà io svenni…

Quando rinsensai, il Genio mi disse:

— Ecco come i Genii trattan le donne sospette di infedeltà. Essa t’ha ricevuto qui; s’io fossi sicuro che ella mi ha fatto un oltraggio maggiore, ti farei morire all’istante; ma mi contenterò di mutarti in cane, in asino, in leone, o in uccello.

— Tutto ciò che posso fare per te – mi disse egli – si è di non toglierti la vita: ma non ti lusingare ch’io ti mandi via sano e salvo; voglio almeno farti sentire quanto posso io co’ miei incantesimi.

A queste parole mi prese con violenza, e mi trasportò sì alto, che la terra mi parve una piccola nube bianca.

In siffatta altezza lanciommi verso la terra come il fulmine, e mi pose in cima d’una montagna.

Ivi raccolse un pugno di terra, e gittandola su di me, disse:

— Lascia la forma umana, e prendi quella di scimmia – e disparve.

Dall’alto della montagna scesi in una pianura, e dopo un lunghissimo cammino giunsi alle rive d’un mare, su cui scorsi a mezza lega un vascello. Ruppi tosto un grosso ramo d’albero, e trattolo meco nell’acqua mi vi gettai sopra a cavalcioni, con due bastoni in ambe le mani per servirmi di remi. Così vogando mi avanzai verso il vascello. Arrivai a bordo, ed afferratomi ad una corda mi arrampicai sul ponte: ma siccome io non poteva parlare, mi trovai in un terribile cimento.

I mercanti, superstiziosi e scrupolosi, pensarono che lasciandomi a bordo sarei stato di sventura alla navigazione, uno disse:

— Bisogna gettarlo in mare!

Non avrebbero mancato di far ciò, s’io collocandomi al fianco del capitano non mi fossi prostrato a’ suoi piedi e prendendolo per l’abito, in atto supplichevole, non lo avessi commosso colle mie lacrime, di modo che egli mi prese sotto la sua protezione, minacciando di far pentire chi volesse farmi il menomo male.

Il vento che successe alla calma, ci fece felicemente approdare e gittar l’ancora nel Porto di una bella città, di grande commercio, capitale di un potente Stato. Giunsero pertanto alcuni uffiziali che domandavano di parlare per parte del Sultano ai mercanti del nostro bordo.

I mercanti si presentarono a loro, ed uno degli uffiziali disse:

— Il Sultano nostro padrone ci ha incaricati di manifestarvi la sua gioia pel vostro arrivo, e di pregar ciascuno di voi a prendersi la pena di scrivere su questo involto di carta un rigo del suo carattere.

Per mostrarvi qual sia il suo disegno, sappiate ch’egli aveva un primo Visir, che alla grandissima abilità di maneggiar gli affari univa il pregio di scrivere perfettamente.

Il ministro è morto da pochi giorni e il Sultano n’è afflitto: e siccome egli riguardava con ammirazione le scritture di sua mano, ha fatto un solenne giuramento di non dare il suo luogo che ad un uomo il quale scriverà bene quanto lui.

Quei mercanti, credendo scriver assai bene onde pretender quella dignità, scrissero l’uno dopo l’altro quello che vollero. Quand’ebbero terminato io mi alzai, e tolsi il foglio dalle mani di chi lo aveva facendo segno di volere scrivere a mia volta. Vedendo che nessuno si opponeva al mio disegno, presi la penna, e non lasciai se prima non ebbi scritto sei specie di caratteri usati dagli Arabi. Il mio carattere non solo superava quello dei mercanti, ma oso dire che in quel paese non se n’era mai veduto uno così bello. Quando ebbi terminato, gli ufficiali presero il foglio e lo portarono al Sultano.

Questi non fece attenzione alle altre scritture, ma osservò soltanto la mia la quale piacquegli tanto che disse agli ufficiali:

— Prendete il cavallo meglio bardato della mia scuderia e la più magnifica veste di broccato per vestire la persona che ha fatto questi caratteri e menatela a me.

A quest’ordine del Sultano gli ufficiali si posero a ridere, ed il Principe irritato del loro ardire, stava per punirli, ma quei gli dissero:

— Sire, supplichiamo Vostra Maestà di perdonarci; queste scritture non sono di un uomo, bensì di una scimmia…

— Come! – esclamò il Sultano – questi caratteri meravigliosi non sono di un uomo?

— No, Sire – rispose uno degli ufficiali.

Il Sultano trovò la cosa sorprendente, da non poter non esser curioso di vedermi.

— Fate ciò che vi ho comandato – disse – conducete a me questa scimmia così rara.

Gli ufficiali ritornarono al vascello ed esposero l’ordine al capitano, il quale disse loro che il Sultano n’era il padrone.

Cominciammo il cammino: il Porto, le strade, le piazze pubbliche, le finestre, i terrazzi dei palagi e delle case, tutto era pieno d’una moltitudine innumerevole di gente dell’uno e dell’altro sesso e di ogni età, venuti da tutti i luoghi della città, curiosi di vedere, perché s’era sparso in un momento il grido, che il Sultano aveva scelto per suo gran Visir una scimmia.

Dopo aver dato uno spettacolo così nuovo a tutto quel popolo giunsi al Palazzo del Sultano. Trovai questo principe seduto sul suo trono in mezzo ai grandi della Corte. Gli feci tre profonde riverenze, e all’ultima mi prostrai e baciai la terra al suo piede.

Il Sultano congedò i suoi cortigiani. Passò poi dalla sala d’udienza al suo appartamento ove si fece recar da mangiare.

Quando fu a tavola mi fe’ cenno di avvicinarmi e mangiare con lui.

Prima che si apparecchiasse scopersi un calamaio e feci segno che mi venisse dato; quando l’ebbi, scrissi su d’una pesca versi di mia invenzione, per mostrare la mia riconoscenza al Sultano il quale accrebbe la sua meraviglia quando glieli porsi.

Levata la tavola, il Principe, fattosi portare un giuoco di scacchi, mi domandò con segni s’io sapessi giuocare, e se volessi fare una partita con lui. Io baciai la terra, e portata una mano sulla testa, mostrai ch’era pronto a ricevere tanto onore. Egli mi guadagnò la prima partita, ma io guadagnai la seconda e la terza.

Tante cose, sembrando al Sultano molto al di là di quanto aveva veduto o inteso della destrezza delle scimmie e dell’ingegno loro, non volle essere il solo testimonio di tanti prodigi.

Egli aveva una figliuola chiamata Donna di bellezza.

— Andate – disse al capo degli eunuchi cui era presente, e al quale era affidata questa Principessa, – andate e fate venire la vostra signora; mi è caro che ella partecipi al piacere ch’io prendo.

Il capo degli eunuchi partì, e subito condusse la Principessa.

Essa aveva il volto scoperto, ma non sì tosto fu nella stanza si coprì subito col suo velo, dicendo al Sultano:

— Sire, sono molto sorpresa che Vostra Maestà mi faccia comparire alla presenza degli uomini.

— Figlia – disse il Sultano – Vi è qui solamente l’eunuco vostro governatore ed io, che abbiamo la libertà di mirarvi il viso.

— Sire – replicò la Principessa – Vostra maestà conoscerà non avere io torto. Questa scimmia, quantunque ne abbia la forma, è un giovane principe figlio d’un Re. Egli è stato mutato in scimmia per incantesimo.

Il Sultano sorpreso di questo discorso, si volse a me, e non parlandomi più con segni, mi domandò se era vero quanto diceva sua figlia. Poiché io non poteva parlare mi posi la mano sulla testa, per confermare che la Principessa diceva la verità.

— Figlia – esclamò allora il Sultano – come sapete voi che questo principe è stato trasformato in scimmia per incantesimo?

— Sire – rispose la principessa – Vostra Maestà può ricordarsi che nell’uscir dall’infanzia io ebbi con me una vecchia donna. Questa è una valentissima maga, e mi ha insegnato sessanta regole della sua scienza. Con questa scienza conosco tutte le persone ammaliate.

— Poiché è così – ripigliò il Sultano – potreste voi dissipar l’incantesimo del Principe?

— Sì, o Sire – ella rispose – posso rendergli la forma primiera.

— Restituitegliela dunque – interruppe il Sultano – non potreste farmi un piacere maggiore, perché voglio ch’ei sia mio gran Visir, e che vi prenda in isposa.

Ella andò nel suo appartamento, dove aveva preso un coltello che aveva inciso sulla lama delle parole ebraiche; indi fece scender in un segreto cortile il Sultano, il capo degli eunuchi e me: ed ivi lasciandoci in una galleria che girava intorno, si avanzò nel mezzo della corte, ove descrisse un gran cerchio, e vi scrisse molte parole in caratteri di Cleopatra. Quand’ebbe terminato e formato il cerchio nel modo che desiderava si collocò nel mezzo del medesimo ove fece degli scongiuri, e recitò dei versetti del Corano. A poco a poco l’aria si oscurò e parve che tutto il mondo andasse a dissolversi.

Noi ci sentimmo prendere da immenso spavento tanto più quando vedemmo all’improvviso comparire il Genio figliuolo d’Eblis, sotto la forma d’un leone di una forma immensamente grande.

Appena la Principessa vide quel mostro gli disse:

— Come, invece d’inchinarti innanzi a me, osi presentarti sotto questa orribile sembianza, e credi di spaventarmi?

— E tu, – rispose il leone – non temi di contravvenire al trattato fatto tra noi, e confermato da un solenne giuramento di non nuocerci l’un l’altro? Tu pagherai la pena che m’hai dato nel farmi venire – riprese fieramente il Leone ed aperta una gola spaventevole s’avanzò verso di lei per divorarla: ma ella fece un salto indietro, strappossi un capello, e pronunziando due o tre parole si mutò in una spada tagliente colla quale divise in due il corpo del leone.

Le due parti del leone disparvero, e non rimase che la testa, la quale mutossi in un grosso scorpione: allora la Principessa si cangiò in un grosso serpente, e diede un fiero combattimento allo scorpione, il quale vedendosi inferiore prese la forma d’aquila e sen volò.

Poco dopo vedemmo il Genio e la Principessa.

L’uno e l’altra si lanciavano fiamme dalla bocca, fino a che vennero a prendersi corpo a corpo. Allora si aumentarono le due fiamme e mandarono un fumo denso e infuocato che si elevò altissimo.

Tememmo e con ragione che s’incendiasse il Palazzo, ma subito una cagione più forte di tema sopravvenne: perocché il Genio essendosi staccato dalla Principessa, venne fino nella galleria ove noi eravamo, e ci soffiò contro dei globi di fuoco.

Era spacciata per noi, se la Principessa correndo in nostro soccorso, non l’avesse obbligato con le sue grida ad allontanarsi.

Nondimeno non poté impedire che il Governatore non fosse affogato e consumato all’istante e che una scintilla, non entrasse nel mio occhio dritto rendendomi cieco.

Il Sultano ed io credemmo di morire: ma bentosto udimmo gridare: «Vittoria! vittoria!» e vedemmo ad un tratto comparir la Principessa sotto la forma mortale, ed il Genio ridotto in un mucchio di cenere.

Essa si appressò a noi, e per non perder tempo domandò una tazza piena d’acqua, che le venne recata da un giovane schiavo.

La prese, e dopo averci profferite sopra alcune parole, gittò su di me l’acqua dicendo:

— Se tu sei scimmia per incantesimo, muta figura e prendi quella d’uomo cui avevi per lo innanzi.

Finito appena queste parole io tornai uomo come prima. Mi apparecchiavo a ringraziare la principessa, quando essa voltasi al Sultano suo padre, gli disse:

— Sire, io ho riportato la vittoria sul Genio, ma è una vittoria che mi costa cara; mi restano soltanto pochi momenti di vita e voi non avrete la soddisfazione di mandare ad effetto il matrimonio propostomi.

Ad onta del potere della sua arte formidabile e della sua esperienza, ho fatto conoscere al Genio ch’io ne sapeva più di lui, l’ho vinto e l’ho ridotto in cenere. Ma io non posso sfuggire la morte che s’avvicina!

Il Sultano lasciò che la principessa terminasse il racconto del suo combattimento, e quand’ebbe finito, le disse d’un tono dimostrante il vivo dolore di cui era penetrato:

— Figlia, vedete in che stato è vostro padre! L’eunuco vostro governatore è morto, e il Principe, che avete salvato dal suo incantesimo ha perduto un occhio.

Non poté dir di più, perché le lagrime, i sospiri ed i singhiozzi gli troncarono la parola. Fummo estremamente commossi della sua afflizione, e sua figlia ed io piangemmo con lui.

Mentre ci addoloravamo a chi più poteva, l’un per l’altro, la Principessa si pose a gridare:

— Ah io brucio!

Il fuoco che la consumava s’era infatti impadronito del suo corpo, onde non cessava di gridare:

— Io brucio!

La morte finalmente pose termine ai suoi insopportabili dolori.

L’effetto di quel fuoco fu così straordinario da ridurla in poco tempo in cenere.

Quando la voce di questo tragico avvenimento si sparse per il palazzo e per la città, tutti piangevano la principessa Donna di bellezza, e parteciparono al dolore del Sultano.

Il dispiacere provato dal Sultano per la perdita di sua figlia, gli cagionò una malattia che lo confinò per un buon mese nel letto.

Non aveva ancora ricuperata interamente la salute, quando mi fece chiamare e mi disse:

— Io era sempre vissuto in una perfetta felicità e nessun accidente non m’aveva mai attraversata l’esistenza; il vostro arrivo ha fatto svanire ogni mio contento; mia figlia è morta; il suo governatore non è più; per miracolo io vivo. Voi dunque che siete stato la cagione di tutte queste sventure, partite tosto e non tornate mai più nei miei Stati!

Rifiutato, scacciato, abbandonato da tutti, entrai in un bagno, mi feci rader barba e sopracciglia, e vestii l’abito di Calender.

Quando il secondo Calender ebbe terminato la sua storia, Zobeida, alla quale parlava, gli disse:

— Va bene; andate, ritiratevi dove più vi piace, ve lo permetto.

Continua…


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TITOLO: Istoria del secondo Calender

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale