Berenice

di
Edgar Allan Poe

tempo di lettura: 17 minuti


Dicebant mihi sodales, si sepulcrum amicæ
Visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas.

Ebn Zajat.

Molti sono i nostri mali; – la miseria in questa breve vita è grande e di ogni forma. Questa dominando il vasto nostro orizzonte, a guisa dell’arcobaleno, mostra i suoi colori distinti e svariatissimi, che tuttavia sono tra loro intimamente uniti e fusi. – Ho detto: «Dominando il vasto nostro orizzonte a guisa dell’arcobaleno»? E come mai da un esempio di beltà celeste ho io potuto trarre un tipo di schifosa bruttezza? Come dal simbolo di alleanza una similitudine del dolore? Allo stesso modo che nella filosofia il male è figlio del bene, così – nella realtà – dalla gioja scaturisce l’affanno, o sia che il ricordo del passato formi l’angoscia del presente, o sia che le agonie che esistono piglino le origini dalle estasi che possono essere esistite.

Racconto una storia la cui essenza è piena d’orrore. E, per verità, la tacerei molto volentieri, se non fosse piuttosto una cronaca di sensazioni anzichè di fatti!

Il mio nome di battesimo è Egeo; quello della famiglia no’ l dico. Non v’è in paese castello più ricco di gloria o vecchio d’anni della malinconica ed antica dimora de’ miei padri. Ivi da immemorabile tempo la mia famiglia era tenuta per una razza di visionari; il fatto è, che in molte particolarità strane e meravigliose, – nel carattere della nostra casa feudale, negli affreschi della grande sala, – nelle tappezzerie delle camere – nelle cesellature delle colonne della sala d’armi, – e più specialmente nella galleria de’ vecchi quadri, – nella fisionomia della biblioteca e nella natura tutta speciale de’ suoi oggetti – in tutto questo, dico, v’era, e v’è in abbondanza di che giustificare tal credenza.

I ricordi de’ miei primi anni sono intimamente legati a questa sala e a’ suoi molti volumi, – di cui non farò più parola. È là dove morì mia madre; ed è là dov’io nacqui. – Riescirebbe molto inutile l’affermare che io non abbia vissuto anteriormente, – che la mia anima non abbia esistito prima di questa vita. Lo neghereste voi? Capisco; questa non è materia di controversia. Convinto, io non cerco di convincere. Vi ha, d’altronde, tali ricordanze aeree, indistinte, indefinite, – quasi punti visivi e parlanti dell’intelletto, quasi echi melodiosi e mesti d’impercettibil lontano; ricordanze sempre svolazzanti, persistenti; specie di memoria simile ad ombra, – vaga, variabile, infinita, vacillante; ombra esistente, essenziale, di cui mi sarà impossibile liberarmi, tanto che risplenderà il sole della mia ragione.

Ripeto, è in quella camera che sono nato. Adunque, venendo io dal fitto di una lunga notte che pareva sì, ma non era la non esistenza, per piombar d’un tratto in un paese fatato, – in un palazzo tutto fantastico, – negli strani dominii del pensiero e dell’erudizione monastica, – non vi sembrerà cosa molto singolare che mi sia guardato d’attorno con occhio spaventato ed ardente; che abbia logorato la mia infanzia su libri e consumato la mia giovinezza ne’ sogni.

Ma – quegli anni essendo passati e il bello della mia virilità avendomi tuttavia trovato nella dimora de’ miei antenati – ciò che deve invero parere strano è quella specie d’immobilità, di inazione avvenuta nelle sorgenti della mia vita, – è quell’invertimento completo operatosi nel carattere de’ miei più comuni e semplici pensieri.

Le realtà delle umane cose m’impressionavano a guisa di visioni, e niente più che visioni, – mentre per lo contrario, le folli idee del paese dei sogni, le fantasime del soprannaturale e dello spiritismo, formavano non dirò l’ordinario alimento de’ giorni miei, ma quello positivo ed unico dell’intera mia esistenza.

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Berenice ed io eravamo cugini, ed amendue venimmo su negli anni presso la casa paterna. Ma, crescendo presto spiegammo disposizioni fisiche differenti: – io era sempre malaticcio e sepolto nella mia mestizia, – essa tutta agile, tutta grazia e di rigogliosa energia. A lei lo scorrazzare per campi e pendici, a me gli studi del chiostro continui e pesanti. Io, tutto a vivere nell’intimo del cuore, dedito anima e corpo alla più intensa, alla più macerante meditazione; ed essa a errare spensierata per le vie, senza un sorriso all’esuberante giocondità del mattino, senza un poetico sospiro al solenne e mistico silenzio della sera.

Berenice! – Io invoco il tuo nome, Berenice, e dalla stanca memoria si svegliano tuttavia mille ricordi tumultuosi del nostro passato! – Oh, la di lei immagine è ancor lì lì vivente innanzi a me, come a’ giorni sereni della sua gioja e della sua felicità! O beltà magnifica e fantastica ad una! O silfide, errante nei cari boschetti di Arnheim! O najade, tra’ rivi di argento! – Ed ora? ora tutto è mistero e terrore profondo, è una storia che sdegna di aprir le sue pagine. Un male, un fatal male l’avvinghiò nelle sue spire e – a guisa del vento del deserto – l’abbattè: quale spettacolo! durante il tempo stesso ch’io la stava osservando, lo spirito di trasformazione passava su di lei e la tramutava, compenetrando il suo spirito, le sue abitudini, il suo carattere – e, sottile sottile, terribile terribile, turbando persino la stessa sua identità! Ahimè! il distruttore invisibile veniva e se ne andava – a guisa di ladro; ma la vittima, la vera Berenice ch’era ella mai divenuta? In verità non la conosceva più omai, io non la riconosceva più, almeno come Berenice.

Tra le numerose serie di mali venuti dietro a questo primo e fatale assalto, il quale operò una sì orribile rivoluzione nell’essere fisico morale di mia cugina, è importante il rilevare come il più tristo e pertinace fosse una specie di epilessia, che il più delle volte mutavasi in catalessi. Catalessi perfettamente simile allo stato di morte, da cui ella talvolta destavasi come di soprassalto, spaventata e lassa. Contemporaneamente, il mio proprio male (era stato assicurato essere della stessa origine) cresceva rapido rapido, sino a che – aggravandosi per un immoderato uso di oppio – prese in fine il carattere d’una monomania tutta straordinaria e nuova. D’ora in ora, di minuto in minuto, la sua energia cresceva, e col volger dei dì giunse a tale che nella più singolare ed incomprensibil maniera dominava tutto il povero mio individuo. Questa monomania – giacchè è necessario la chiami con tali parole, – consisteva in una morbida irritabilità delle facoltà dello spirito, stato che in linguaggio filosofico si chiama facoltà d’attenzione. Probabilmente io non sarò qui compreso, o ben poco; ma temo davvero di trovarmi nell’assoluta impossibilità di dare alla comune dei lettori un’idea esatta di questa nervosa intensità d’interesse con cui nel mio caso (per evitare termini tecnici) la facoltà meditativa si fissava e si approfondava nella contemplazione degli oggetti i più volgari della vita.

Indefessamente meditare per lunghe e lunghe ore condensando l’attenzione su qualche nota puerile tra il margine di un libro o l’intervallo del testo; restare intieramente assorto, la maggior parte del giorno, in un’ombra bizzarra obliquamente projettantesi su’ damaschi polverosi, sul pavimento tarlato; lasciarsi ire per una notte intiera a fissare la fiamma vibrante di una lampada o le brage rosseggianti del camino; fantasticare continui e continui giorni sul profumo dei fiori; ripetere nella più monotona spensieratezza qualche volgarissima parola, ripeterla tanto che tal suono, a furia di essere ripetuto, finisse di presentare allo spirito un’idea qualsisia; perdere ogni sentimento di moto e di esistenza fisica in un ozio assoluto, ostinar lamento protratto, – eccovi, amici, alcune delle più comuni e delle meno dannevoli aberrazioni delle mie facoltà mentali, – aberrazioni che certamente non son fuori di esempio, ma che rifiutano al certo ogni spiegazione ed ogni analisi.

Oh, lo spirito!

Avanti; io voglio essere ben compreso.

L’anormale, l’intensa, la solenne attrazione che per tal modo in me si eccitava da oggetti di per sè stessi frivolissimi, è di tale natura da non confondersi con quell’inclinazione al fantasticare, comune a tutta l’umanità, a cui soprammodo abbandonansi le persone di un’immaginazione ardente. Quest’attenzione, come potrebbe parere dapprima, non solo era un limite eccessivo, un’esagerazione di questa tendenza; ma ne era eziandio per origine e per essenza affatto distinta.

Nell’un dei casi, il fantasticatore, l’uomo dall’immaginativa potente, venendo d’ordinario interessato da un oggetto anzichenò serio, lo perde a poco a poco di vista a traverso le immensità delle deduzioni e degli stimoli che ne scaturiscono, – e con tale efficacia, che all’invanire di questi sogni pieni spessissimo di voluttà arcana, egli – il povero fantasticatore – trova, riconosce l’incitamentum, causa prima delle sue riflessioni, intieramente svanito ed obliato.

Nel caso mio, il punto di partenza era invariabilmente frivolo, quantunque nei fantasmi della malata fantasia rivelasse un’importanza superficiale e di rifrazione. Io faceva invero poche deduzioni, se pur talora ne faceva; nella quale circostanza esse volteggiavano sino a fissarsi nell’oggetto primitivo, siccome in lor centro. Le mie meditazioni ritraevano un non so che di amaro; e al dileguarsi di quelle strambe chimere, la causa primitiva, invece di essermisi dileguata dagli occhi della mente, aveva raggiunto quell’interesse tanto soprannaturalmente esagerato, che formava la più spiccata qualità del mio male. – In una parola, la facoltà dello spirito, più specialmente eccitata in me, era come dissi, quella dell’attenzione; mentre la facoltà del fantasticatore comune è sempre la meditazione.

Di quel tempo, i miei libri in uso, se direttamente non servivano ad irritare il mio male, partecipavano però largamente (ed è facile il comprenderlo) alle qualità caratteristiche di esso, in forza appunto della loro immaginaria ed irragionevole natura. Tra gli altri, mi ricordo assai bene del trattato del degnissimo italiano Celio Secondo Curione: De Amplitudine Beati Regni Dei; della grand’opera di Sant’Agostino: De Civitate Dei, e De Carne Christi; e di Tertulliano, il cui inintelligibile pensiero – Mortuus est Dei Filius; credibile est, quia ineptum est; et sepultus resurrexit; certum est, quia, impossibile est, – per più settimane assorbì proprio tutto il mio tempo in un’inutile e laboriosissima investigazione d’intelletto.

Vedete mo’ quale malìa!

Com’è facile a pensarsi, bruscamente disturbata dalle più futili cose, la mia ragione poteva benissimo rassomigliarsi a quella rupe di mare, di cui fa parola Tolomeo Efestione, rupe che qual torre resisteva immobile ad ogni violenza umana ed al furore più terribile delle acque e dei venti, e che tuttavia, tocca appena dall’asfodelo, cupamente vacillava in sua base. A un filosofo superficiale potrà sembrare semplicissimo e fuor dubbio che la terribile alterazione prodotta nelle condizioni morali di Berenice dalla sua deplorabile malattia potesse apprestarmi il precipuo soggetto di esercitare quell’intensa ed anormale meditazione, di cui testè provai non poca difficoltà a spiegare la natura. E pure, chi lo crederebbe? Nulla, proprio nulla vi era di tutto questo.

Nei lucidi intervalli della mia infermità, è vero, la sua malattia mi dava un grande affanno; quella completa ruina della sua vita bella e dolce, mi schiantava il cuore: di spesso, colmo di amarezza, io andava meditando sulle misteriose e strane vie in cui sarebbe scoppiata una rivoluzione sì pronta e misteriosa. Ma questi pensamenti non facevan parte dell’idiosincrasia del mio male; essi erano tali che, in circostanze analoghe, si sarebbero presentati egualmente all’ordinaria maggioranza degli uomini. Fedele al suo proprio carattere, la mia malattia si pasceva de’ mutamenti meno importanti, ma più forti ed improvvisi, che si manifestavano nel sistema fisico di Berenice, in quel singolare e spaventevole sfacelo della sua identità personale.

Nei giorni più splendidi dell’incomparabile sua bellezza, io era certissimo di non averla mai amata. Nella strana anomalia della mia esistenza posso affermare che i sentimenti non mi vennero mai dal cuore, e che le mie passioni sono sempre discese dallo spirito.

A traverso i brancicanti barlumi del crepuscolo mattinale, – a traverso le folte e fresche ombre del meriggio, – di notte, nel silenzio sepolcrale della mia biblioteca, oh, quante e quante volte erami ella balenata allo sguardo! e io l’aveva contemplata lì lì non come la Berenice vivente e palpitante, ma come la Berenice di un sogno; non come un essere della terra, un essere carnale, ma come l’astrazione di un tale essere; non come una cosa da ammirarsi, ma da studiare in ogni sua parte; non come un oggetto d’amore, ma come il tema di una meditazione quanto astrusa altrettanto irregolare. E ora, ora io tremava convulso in sua presenza, io impallidiva al suo accostarsi; nondimeno, nello struggermi amaramente della sua deplorabile condizione di languore e deperimento, mi rammentai ch’essa mi aveva lungamente amato, e in un cattivo momento le parlai schiettamente di matrimonio. – E l’epoca stabilita alle nostre nozze alfin si avvicinava, – allora che un dopo pranzo d’inverno, in una di quelle rare giornate calde, calme e nebbiose – predilette di Alciona la bella – credendomi solo, io mi era assiso nel gabinetto della biblioteca. Poco dopo, alzo gli occhi, ed eccoti ritta ritta innanzi a me Berenice.

Qual vista, mio Dio, quale vista! Ell’era una vera apparizione fosforescente. Ma era questo dunque effetto dell’immaginazione esaltata, o era l’influenza dell’atmosfera nebbiosa, o il crepuscolo incerto della stanza, o le vesti oscure che avvolgevano la sua persona, che le dessero contorni sì ondeggianti ed indefiniti? Invero non lo saprei dire; forse nel progresso della sua malattia ella s’era fatta più alta. – Non mi disse motto; ed io per tutto l’oro del mondo non le avrei rivolto una sillaba. Un gelido ribrezzo mi serpeggiò in ogni fibra: una sensazione di angoscia insopportabile mi opprimeva; una curiosità divorante mi penetrava l’anima; abbandonandomi vinto di forze sopra una poltrona, restai alcun tempo senza respiro e senza moto, gli occhi sbarrati e fissi sulla di lei apparizione. Ohimè! la sua magrezza era divenuta estrema, e nè un sol contrassegno del primitivo suo essere era sopravvissuto o rimasto a darle l’aria dei lineamenti passati. Infine, i miei occhi presero passionatamente a fissare il suo volto con ardore convulsivo.

Alta la fronte, pallidissima e singolarmente calma; e i capelli che, già di un nero di pirite, le coprivano in parte, ombreggiandole, le scarne tempia d’innumerevoli anella, adesso erano tratti ad un biondo rossiccio, la cui fantastica apparenza scempiamente contrastava con la dominante mestizia di tutta la fisionomia. Senza vita e splendore, i suoi occhi, mi apparivano privi di pupille; ond’io penosamente e quas’inconscio stornai i lumi da quella vitrea fissezza e li trassi alle sue labbra, sottili sottili e come sconciamente avvizzite. E queste si aprirono; ed ecco in un sorriso singolarmente significativo lenti lenti apparire al mio sguardo i denti della nuova Berenice. Mio Dio, mio Dio, quei denti! Oh, non li avessi mai veduti quei denti, o – visti appena – fossi morto! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il lento lento stridere di una porta che si chiudeva, scossemi di quell’astrazione, ed io, levati gli occhi, mi accorsi che mia cugina aveva lasciato la stanza. Ma lo spettro bianco de’ suoi denti scorreva nel mio cervello, ed era sempre lì lì come vagolante. Però l’impressione di quel suo sorriso passeggiero fu tanto viva e profonda nella mia memoria, che non mi sarebbe sfuggito il menomo screpolo della superficie di quei denti, la menoma tinta in quella nitidissima loro uniformità, la più lieve ineguaglianza sulle loro punte. Oh, ma quei denti, que’ denti erano troppo stupendamente belli! Anzi, rimasto solo, io li vidi ancor più distintamente che non li avessi osservati poc’anzi. – Quei denti! quei denti! eran là, e poi là, sempre là e dappertutto – visibili, palpabili – a me dinanzi, lunghi, affilati, eccessivamente bianchi tra quelle labbra pallide – livide, or bruttamente convulse, or scempiamente vizze, ora spaventosamente tese, come poc’anzi.

E qui riassalimmi la piena furia della mia monomania, ed invano dovetti lottare contro l’irresistibile e strano suo influsso. Non più un pensiero per il numero sterminato d’oggetti di questo mondo esteriore; – tutta la mia mente, tutte le mie idee non erano che per quei denti. Quanto a loro, io provava una specie di frenesia irresistibile. Ogni altro oggetto, ogn’interesse diverso venne tutto assorto in questa contemplazione. Essi, essi soli, i denti – erano dinanzi al mio spirito, tanto che la loro esclusiva individualità diventò la vera essenza della mia vita intellettuale. Io me li vedeva presenti le intiere giornate, io li considerava, li passava persistentemente ad esame per tutti i versi; ne studiava tutti i caratteri – ne osservava le particolari loro linee – ne meditava la conformazione – rifletteva all’alterazione della loro natura. E tremava a verga a verga attribuendo loro con la mente le facoltà di sensazione e di sentimento, sino a pensarmeli senza l’indumento delle labbra per accordar loro una potenza di espressione morale. Molto a proposito si è detto, parlando di madamigella Saltè, che tutti i suoi passi erano sentimenti, – e di Berenice, molto più seriamente, che tutti i suoi denti erano idee. Idee! Ah! ecco, ecco l’assurdo pensiero di cui caddi vittima! I dentiidee! Ah, ah, ah! eccovi, eccovi il perchè li vedeva, li contemplava li studiava, li desiava tanto. I denti erano idee; e sentiva che solo il poterli possedere m’avrebbe ridato la pace e riammesso nella ragione.

Erano idee!

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E la notte scese su di me, e vennero le tenebre, e dominarono – e poi lente lente dileguaronsi; – e venne un nuovo giorno, – e le ombre di una seconda notte si addensarono su me, – e sempre io rimaneva immobile in quella camera solitaria, – sempre seduto, sempre sepolto nella mia meditazione fittissima; – e sempre in fantasma quei denti lì lì a librarmisi intorno, a mantenere quegl’influssi, così che la larva vivissima e ributtantissima volteggiava qua e là a traverso la luce e le ombre cangianti della camera.

In fine, a mezzo di questi sogni, scoppiò un grido di grande orrore, di grande spavento, a cui dopo una breve pausa successe un rumor di voci desolate, interrotte da gemiti di sordo dolore e di straziante affanno. Mi rizzai su e, aprendo una delle porte della biblioteca, incontrai nell’anticamera un famiglio tutto in lagrime, il quale mi annunziò che Berenice era morta. Colpita d’epilessia al mattino, aveva soccombuto; ed ora, al venir della sera, la fossa attendeva l’ospite novella: e già tutti i preparativi della sepoltura eran compiti….

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Pieno il cuore d’angoscia, oppresso dal terrore, con forte ripugnanza diressi i miei passi verso la camera da letto della defunta. Questa camera era ampia e tetra, e ad ogni passo inciampavo nei preparamenti della sepoltura. Le cortine del letto, mi disse un famiglio, essere chiuse sopra la bara, nella quale – aggiunse con voce bassa e commossa – giace tutto quanto resta della Berenice. – Chi è dunque che mi chiese se voleva vedere il cadavere di lei?

Stravaganza! Nessun labbro si era mosso, nè io lo vidi almeno; e tuttavia questa domanda erami stata propriamente rivolta, e l’eco delle ultime sillabe vibrava ancora nella camera. Essendo impossibile un rifiuto, fu con gran sentimento d’oppressione che mi avvicinai alla proda del letto. Lento lento sollevai i funebri drappi del cortinaggio; e, nel lasciarli andare, essi ricaddero sulle mie spalle – per cui, separato dai viventi, mi trovai come chiuso nella più stretta comunione con la defunta.

Tutta l’atmosfera della camera sapeva di morte; ma l’esalazione particolarissima della bara mi faceva male, e mi pareva già di sentire venir su dal cadavere i deleterii principii del suo sfacelo. Per liberarmi di là avrei pagato un mondo, avrei donato l’anima per fuggire all’influsso pernicioso della mortalità, per respirare ancora una volta l’acre puro de’ cieli eterni e sereni. Ma io non aveva più il potere di muovermi, mi sentiva inchiodato là, quasi masso; mi vacillavano fortemente le ginocchia, sembrava che fossi piantato nel suolo, continuando a guardare fisso fisso l’irrigidito cadavere lungo disteso nell’aperta bara.

Cielo! è egli mai possibile? ha dunque il mio cervello dato la volta? o il dito della defunta si è mosso nella bianca tela che lo copriva? – Possibile?

Tutto tremante d’inesprimibil paura, alzai lentamente gli occhi per vedere la fisionomia del cadavere. La benda con cui egli aveva fasciato la bocca, non so come, erasi rallentata e caduta; le labbra contorcevansi lividamente in una specie di indefinibil sorriso, ed a traverso il melanconico loro contorno i denti di Berenice bianchi, lucenti, affilati, terribili mi fissavano tuttavia con una vivezza di vita reale. Quasi preso di convulsioni diaboliche, mi staccai dal letto e, senza proferire parola, mi slanciai come un maniaco fuori di quella camera di mistero, di orrore e di morte.

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Mi trovai nella mia biblioteca; stava seduto, – ed era solo – solo! Mi sembrava di essere uscito da un sogno confuso ed agitato. – Mi accorsi ch’erasi fatto notte: io aveva però preso tutte le precauzioni possibili perchè Berenice fosse seppellita dopo il tramonto del sole; ma non serbai alcun reale nè ben definito ricordo di quanto si era passato durante sì lugubre intervallo. Nondimeno la mia memoria era invasa di orrore, – orrore tanto più orribile quanto più vago, – di un terrore renduto più vivo per la stessa sua ambiguità. Era una specie di pagina spaventosa del registro della mia esistenza, intieramente scritta con oscure rimembranze di ribrezzo, inintelligibili. Ogni mio sforzo per leggere in queste strane linee, vano: e tuttavolta, di tanto in tanto, simile a lamento di suon che s’involi, un grido flebile, acuto acuto, – una voce di donna – sembrava arrivasse a ferirmi le orecchie.

Aveva io forse per avventura tentato e compito qualche cosa? – Ma, e qual era mai questa cosa? E a voce alta rivolsi a me stesso la domanda, e gli echi della camera con un susurro decrescente mi rimandavano in risposta: Qual è dessa mai questa cosa?

Sopra la tavola, al mio fianco, ardeva una lampada, e presso di essa un cofanetto di ebano. Non molto notevole il suo stile; e un tale oggetto io l’aveva già visto spesse volte, essendo esso proprietà del medico di mia famiglia. Ora, come mai questo cofanetto trovavasi là, là sulla tavola, – e perchè al solo guardarlo mi sentii scuotere per lo spavento ogni fibra? È vero: queste erano cose a cui non valeva la pena di volger lo sguardo: ma, alla fine, i miei occhi caddero sulle aperte pagine di un libro, e si fissarono sopra una frase sottolineata. Questa frase energica nella sua semplicità, e singolare, apparteneva al poeta Ebn Zajat, – ed era: Dicebant mini sodales, si sepulcrum amicæ visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas.

Come è dunque mai che, al leggere queste parole i capelli mi si rizzassero sul capo ed il sangue mi si agghiadasse nelle vene?

In questa, eccoti picchiar lieve alla porta della biblioteca e, pallido come un essere di oltretomba, farsi innanzi in punta di piedi un mio famiglio. Aveva lo sguardo per terrore stravolto: e si appressò a parlarmi con voce bassa, bassa, tremula e come soffocata. Che cosa mi diss’egli? Io ne capii appena qualche frase interrotta. Parmi che mi narrasse come uno spaventevole grido avesse turbato il silenzio della notte, – che tutti i famigli s’erano riuniti, – che s’erano fatte ricerche nella direzione del suolo… Infine, la sua voce bassa bassa si fece distinta sino a farmi fremere, quando l’ebbi inteso affermarmi che si parlava di una violazione di sepolcro, d’un corpo sfigurato, privo del suo lenzuolo, che tuttavia respirava, che tuttavia palpitava, – che era vivente!

Ei guardò i miei vestimenti; erano tutti oscenamente grommati di fango e di sangue. Senza proferire parola, mi prese dolcemente per la mano, – e in essa apparivano larghe stimmate di unghie umane. Allora e’ diresse l’attenzion mia verso un oggetto locato contro il muro; – era una bara. Con un grido straziante mi slanciai alla tavola ed afferrai convulso il cofanetto d’ebano. Ma non ebbi la forza di aprirlo e, in quel mio tremito nervoso sguizzatomi di mano, pesantemente cadde e andò in minuzzoli. E rotolando sul pavimento con enorme fracasso, quasi suono di vecchie ferramenta, vidi uscirne alcuni istrumenti di chirurgia dentaria, e tra essi trentadue coselline bianche bianche, come l’avorio, che scricchiolando si sparpagliarono sul nudo pavimento…

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Berenice
AUTORE: Poe, Edgar Allan

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti straordinari / di Edgardo Poe. - Milano : Sonzogno, 1883. – 96 p. ; 18 cm.

SOGGETTO: FIC027040 FICTION / Romantico / Gotico