Essendo legato da “affettuosa riverenza” al suo vecchio professore, Giulio Augusto Levi coglie l’occasione per replicare ad alcuni giudizi negativi di Benedetto Croce sull’opera poetica di Arturo Graf.
Pur consapevole delle ambiguità e dei limiti di questa esperienza poetica nella quale confluiscono ritardi romantici e tentativi di aggiornamento simbolisti spesso coniugati nello svolgimento con motivi decadenti, G.A. Levi mette in risalto la sincerità dei versi del Graf e la loro ispirazione compiutamente poetica, laddove Croce trova invece sciattezza e prosaicità.
Da grande conoscitore dell’opera leopardiana l’autore non manca di rilevare paralleli tra un primo periodo dei lavori poetici del Leopardi, dove le sue meditazioni sono ricche di immagini e simboli, e la poesia di Graf. Prende in esame alcuni lavori, in particolare Medusa, Le Danaidi e Le rime della Selva ed evitando di rilevare e citare qualunque brano dove il senso tragico dell’esistenza e la disperazione funebre sconfinino in fantasia spettrale ed effetto puramente esteriore di mistero, riesce a mettere in evidenza quei momenti nei quali il Graf, pur se attraverso un linguaggio eccessivamente aulico, giunge all’efficacia della rappresentazione di luoghi oggetti e miti.
Interessante la volontà programmatica di Levi di studiare successivamente in parallelo l’attività di poeta e quella di critico, “la storia del suo pensiero con la storia della sua arte”.
Una scelta significativa dell’opera di Graf può essere letta in questa biblioteca Manuzio, compreso il suo unico romanzo Il riscatto che, per proseguire il discorso di Levi sulle molteplici sfaccettature del pensiero del Graf stesso, è uno dei frutti più caratteristici dello spiritualismo del primo Novecento, dando corpo alla contrapposizione fra la legge dell’ereditarietà nella sua forma deterministica e la volontà individuale che riesce a liberarsi e a svincolarsi da questa gabbia.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del saggio:
Io tenterò di giustificare coll’analisi l’impressione mia, diversa da quella di un critico illustre, sopra un poeta che, per molti rispetti, mi è caro.
La città dei Titani a me parve una bella cosa. Comincio parlando di questa poesia, perchè proprio essa fu citata dal Croce solamente per biasimarla. «La descrizione della città titanica ha questi tocchi:
«E in infiniti modi in ogni parte
All’opra ingente ed al maggior disegno
A sovrumana possa, a divo ingegno
Appar congiunta inimitabil arte»
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