Lavinia fuggita[Pubblichiamo le due letture una sotto l’altra per facilitare il raffronto. bdm]

Anna Banti: “Lavinia fuggita”, in «Le donne muoiono», Mondadori, 1952

Nell’ampia e importante produzione di questa narratrice fa spicco il racconto «Lavinia fuggita» contenuto nella raccolta «Le donne muoiono», la quale si aggiudicò nello stesso anno di uscita il premio Viareggio 1952. Cesare Garboli definì questo racconto uno dei più belli del Novecento.
Ce ne occupiamo perché alcuni hanno sostenuto che il vincitore del Premio Strega 2009, Tiziano Scarpa con il suo «Stabat Mater», si sia ispirato ad esso. Hanno perfino parlato di plagio, scatenando le ire del vincitore.
Vediamo di che si tratta, scrivendo per primo del racconto della Banti.
Iseppo Pomo, diciotto anni, è un «battellante» e pescatore. Si reca con il barco a Venezia a prelevare una giovane e povera orfana («colta in lazzaretto sul seno di una viaggiatrice appestata»), Orsola, che va sposa ad un ricco e vecchio mercante di Chioggia, un certo Bertozzi. Zanetta lo vede, gli fa la posta; è insieme con le amiche affacciate alla grata dell’orfanotrofio della Pietà. Stanno a guardare l’amica che se ne va a Chioggia. Vi andrà presto anche lei, poiché sposerà proprio Iseppo. Là, tutti i giorni si recherà a visitare la compagna che, così giovane, non ha buona salute. Orsola accoglie Zanetta con gioia e ad entrambe pare di non essersi mai separate.
Hanno nostalgia di Venezia e della vita innocente che vi trascorrevano. Ne parlano sempre con malinconia e pensano alle compagne: Apollonia, Giuditta, Lavinia, Angelica, Ignazia, Chiara, Lucetta. A Lavinia in modo particolare: taciturna sempre, mai del tutto allegra: «stavano in pensiero che non facesse qualche sciocchezza.»; «era stata trovata nella ruota ravvolta in un lembo di vela d’oriente.» Lavinia ha ventiquattro anni.
È una scrittura sapiente, doviziosa, quella che ci accompagna. Echi di una letteratura colta si raccolgono intorno alle figure e agli ambienti, che paiono toccati da una mano leggera, dotata al contempo di una sensibilità rara.
Lavinia riesce in tutto, ogni cosa le è congeniale: «per sortilegio le difficoltà si scioglievano.» Orsola e Zanetta devono molto a lei. Si sono accorte che nel corso delle loro passeggiate, uno straniero, un turco forse, «aveva squadrato Lavinia». È alto, ha degli enormi baffi e «portava campanelle alle orecchie.» Lavinia non è insensibile al suo sguardo. Si volta spesso, rimproverata da Pompeo, «il capo ciurma di fiducia».
Lavinia deve avere qualche pensiero segreto, si confidano tra di loro le due amiche.
E una sera, al momento dell’appello, ci si accorge che Lavinia non c’è. La si cerca per tutto l’edificio, ma niente. Sparita: nemmeno Orsola e Zanetta ne sanno qualcosa. Le superiori già la definiscono «scellerata» e temono le conseguenze negative sull’Ospedale della Pietà, fin ora assistito da privilegi e rispetto: «Così tante innocenti pagheranno per una sola scellerata.» La Priora esclama: «bastarda di una levantina.»
Lavinia appare come un ragazza generosa e volitiva, ribelle alla costrizione e al soffocamento della propria personalità. Innamorata della musica arriva a sostituire in segreto (le donne erano considerate incapaci di comporre musica) un suo componimento, un oratorio, a quello di don Antonio Vivaldi, il prete rosso. L’esecuzione sarà sospesa senza alcuna spiegazione. Orsola le rimprovererà di aver taciuto e subìto: «Alla fine, chi te l’ha detto che non è permesso comporre?». I suoi ventiquattro anni all’Ospedale le hanno fatto scoprire di essere come una sepolta viva. Da ciò la malinconia ininterrotta, la sua improvvisa irrequietudine e il desiderio di fuga. Orsola e Zanetta sono certe che «non l’avrebbero vista mai più.» La sua scomparsa si ripercuote anche su di esse. È una scintilla che infiamma anche la loro mente. Cominciano a desiderare anch’esse di uscire dall’Ospedale. Si sposeranno a breve distanza l’una dall’altra. A Chioggia, dove ora vivono rassegnate, ancora sentono la presenza di Lavinia. Non possono dimenticarla.
S’interrogano se Lavinia abbia o meno avuto un colloquio con il Maestro, con Vivaldi, per sfogare con lui la sua passione per la musica. Orsola ricorda di essersi avvicinata all’uscio della stanza dove Vivaldi si ritirava quando era assalito dall’asma nel corso delle prove, ma non aveva sentito nessuno parlare o muoversi. Finché non era entrata dentro e nell’oscurità aveva scorto Lavinia, sola, davanti alla finestra: «Che cosa guardava Lavinia?» Stupita, impressionata, non domanda nemmeno se il colloquio vi è stato. Il Maestro già è tornato alle prove.
In Lavinia il suo desiderio ha ormai occupato tutta la sua anima. Sogna i luoghi da dove è venuta, quell’oriente che immagina sia il luogo della libertà: «Devo tornare laggiù, qui non c’è posto per me, e ho bisogno di spazio. Mi vestirò da uomo, farò il pastore, all’aperto, sotto il sole e la luna.» Si compie, dunque, una trasfigurazione. Lavinia si fa mito e sogno. Orsola e Zanetta la immaginano finalmente quieta e felice.
Il racconto si conclude con pagine di intensa poesia, sorrette da una scrittura quasi rarefatta, leggera come il mito e il sogno che Lavinia è diventata: «Lavinia non è più che una voce sotto il cielo, e nessuno può dirle: no.»

Stabat MaterTiziano Scarpa: “Stabat Mater”, Einaudi, 2008

Il libro si è aggiudicato il premio Strega 2009, suscitando qualche polemica. Una delle accuse mosse all’autore è quella di essersi ispirato al racconto «Lavinia fuggita» di Anna Banti, uscito nel 1952 nella raccolta «Le donne muoiono».
Vediamo.
Cecilia ha sedici anni, è rinchiusa nell’Ospedale della Pietà, a Venezia. Si tormenta, si sente prigioniera: «Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli.» È un brano di una delle lettere che di notte scrive alla madre, che l’ha abbandonata.
È una ragazza che si sente frustrata, come Lavinia. Il suo desiderio è interrompere quell’agonia, quella specie di sepoltura nella quale è confinata.
Il desiderio che la spinge è tuttavia diverso da quello di Lavinia. Quest’ultima non soffre per una mancanza di identità, come accade a Cecilia; cerca invece di uscire da una specie di prigione che le impedisce di appropriarsi della propria libertà. Non avverte mai l’assenza di una madre. In Cecilia, al contrario, il desiderio è di trovare un punto di appoggio che le è mancato e che le manca: la madre. La sua assenza è in lei dirompente. Ogni cosa è sentita dentro quell’assenza: «voi non sapete niente di me, non sapete niente di niente.»; «Quando arriva l’angoscia, quasi ogni notte, il rimedio infallibile è non indugiare a letto. Allora mi alzo e vengo qui a trovarvi. Estate e inverno.»; «Signora Madre, io vi avvolgo con il mio pensiero, mi sentite?»; «Signora Madre, vi è mai capitato di immaginarmi? Vi siete mai chiesta come ho trascorso i miei primi anni di vita?
Viene in mente, piuttosto, «Lettera ad un bambino mai nato» di Oriana Fallaci, del 1975. Mentre nell’opera della Fallaci, una madre parla al bambino che è nel suo ventre e si domanda se debba o meno farlo nascere, in Scarpa le parti sono invertite, ed è l’orfana che scrive alla madre che non conosce per ritrovarla. Più avanti si leggerà: «Perché mi avete fatta nascere, Signora Madre? Mi chiedo se non sia stata una mia decisione, quella di venire al mondo.» Si potrebbe dire che il libro di Scarpa sia la risposta ad una donna che, sebbene abbia scelto di non abortire, non ha avuto il coraggio di tenere per sé il bambino. Il collegamento con il libro della Fallaci è pregnante, intenso.
Tornando a Cecilia, se ha la irrequietezza di Lavinia, non ne possiede la dolente sicurezza: «io non mi appartenevo, non ero di mia proprietà, non lo sarei mai stata.»
Le lettere alla madre sono, dunque, un tentativo per riconoscersi, identificarsi. Una ricognizione di sé fatta in un tormentato processo che cerca di ricollegarla alla sua origine, a quella madre a cui si sente, anche quando la maledirà, in qualche modo vicina: «Voi non potete vedermi, ma i miei occhi spalancati vi guardano.»; «Non illudetevi, non basta questo a perdonarvi, non basterà mai nulla.» Ma non diventerà mai una vera condanna, giacché sente che la madre è la sua ancora di salvezza, come lei è la salvezza della madre: «Forse vi scrivo per liberarvi.» (ma dirà anche, più avanti: «non voglio soccorrervi»). La ricerca della propria identità, passa attraverso una ragnatela di sensazioni che a volte l’abbattono e a volte la esaltano: «Io sono l’invincibile, la solitaria.», ma anche: «Ogni parola che scrivo è soltanto un altro modo per dire il vostro nome, il nome che non conosco.»; «Vi penso dove posso, quando posso, fra una cosa e l’altra, ma non dovete credere che per me siete secondaria. Siete talmente importante che vi metto dappertutto. Dovunque c’è posto, voi l’occupate, siete come l’aria.»
La scrittura di Scarpa, a tratti onirica, visionaria, si articola per brevi frasi, in cui un velo di poesia tenta di recuperare una disperazione che appare irreversibile. Maddalena, l’amica che dorme sopra la sua branda, diventa improvvisamente la morte dai capelli di serpente. Quando parla con lei, parla con la morte.
Le lettere rappresentano anche un delirio, hanno la sconclusionatezza dello smarrimento, ci sorprendono per una improvvisa ingenuità che scaturisce da una incerta e affannosa ricerca di sé. Le lamentazioni di Cecilia hanno la cadenza di un’anima in pena che si attende da un momento all’altro un qualche miracolo e continua a pregare, ad evocare la sua disgrazia e ad implorare l’aiuto di cui sente di non poter fare a meno. La madre è amata e odiata a seconda del suo stato d’animo, confuso e dolorante. Vorrebbe che avesse lasciato all’orfanotrofio un segno di riconoscimento per venirla un giorno a riprendere: ciò le permetterebbe «di considerarvi ancora mia madre, di pensarvi come madre.» Dirà anche: «preferisco essere una figlia.»
La Lavinia della Banti è una ragazza triste ma sicura delle sue azioni. Non implora, ma va diritta alla ricerca di una soluzione, fosse anche estrema, che le riconsegni la sua libertà.
Cecilia è una debole infelice che, fino al momento del riscatto, arranca chiusa nel suo continuo e monotono rifrangere il dolore e la solitudine. Si sente assente e vuota tanto quanto Lavinia avverte, al contrario, la propria forza e il vigore della propria personalità: «Io sono assente da tutti quanti i posti che ci sono al mondo.», scrive Cecilia.
La ricerca della madre, il colloquio a distanza con lei deve colmare il vuoto e l’assenza che appartengono ad entrambe, sia a lei come alla madre sconosciuta. Una notte nella latrina dell’orfanotrofio scorge una ragazza che sta partorendo di nascosto. È di spalle e non può riconoscerla. Si allontana inorridita. Poi scrive: «E se foste anche voi qui dentro? Se mi aveste partorita qui dentro anche voi?»
La desolazione, l’assenza e il vuoto conducono la protagonista a considerarsi un escremento, un qualcosa di vivente gettato via come cosa sporca e ributtante. La Lavinia della Banti non pensa mai di sé a questo modo. Anzi è fiera della sua intelligenza e della sua bellezza.
La ragazza dalla «testa piena di orribili serpenti neri» (la morte) le dice: «Ti accoccoli nella tua lagna.»
È il ritratto preciso di ciò che Cecilia è nel mare magnum del suo dolore. Cecilia non è mai cresciuta, le sue scoperte non sono del tutto assimilate. Ancora è una debole canna al vento.
Nell’orfanotrofio troviamo in un primo tempo don Giulio, che educa le ragazze alla musica. È vecchio, scrive sempre le stesse cose, confessa Cecilia: «scrive musica da una vita, non ha più idee, non ha più ispirazione. [ […]] Scrive per inerzia.» Quando giungerà Vivaldi e Cecilia, come Lavinia, insegnerà musica alle allieve, si troverà il primo punto di contatto incandescente, sebbene nello «Stabat Mater» non vi si respirerà mai né il contenuto né le atmosfere della «Lavinia fuggita». Sono due mondi diversi e distanti, visti e scritti con due ispirazioni estranee l’una all’altra. Anche la passeggiata «in una dozzina di barche» sulla laguna; la breve malattia di Cecilia dopo che ha volutamente stonato nel coro diretto da don Giulio; anche quella frase: «Noi siamo il suono puro, la voce staccata dal corpo.» che si ricollega a quella della Banti: «Lavinia non è più che una voce sotto il cielo, e nessuno può dirle: no.», allo stesso modo che vi si ricollegherà pure quella in finale del libro di Scarpa: «Non c’è più nessun soffitto sopra la mia testa.»; anche la veste con cui è stata ritrovata, e la nave che deve averla trasportata fino all’orfanotrofio, diretta poi verso la Dalmazia o la Grecia; pure l’asma di Vivaldi che si accascia in chiesa, pure questi momenti che sembrerebbero, anch’essi, vicini al libro della Banti, in realtà ne restano lontani.
La Banti, infatti, si avvale di una sapienza della scrittura che le consente misura e controllo dell’ispirazione, a tal punto da aver generato un racconto senza sbavature, esemplare, perfetto, che giustamente viene riconosciuto tra i più belli della nostra narrativa. La Banti crea un’ambientazione compatta, un’atmosfera intensa, una storia lucida e ficcante, impregnata di quella cultura raffinata e mai esibita che si trasforma in confidente intimità. Tutto questo è assente in «Stabat Mater» che, caso mai, copre la figura di Cecilia di una religiosità sofferta ma desiderata, ricercata, che manca in Lavinia. Un Vivaldi giovane dal «naso grande e i capelli rossi» occupa, più che in «Lavinia fuggita», le parti migliori dell’opera scarpiana, seppure anche qui ci si metta in mezzo una copiatura. Cecilia infatti scrive: «Ha copiato l’idea che avevo avuto in classe con le bambine.» Lo stesso era accaduto a Lavinia quando aveva sostituito una sua partitura a quella di Vivaldi. Tutta la descrizione della composizione ed esecuzione insieme con le ragazze de «Le quattro stagioni» vale il libro di Scarpa: «noi che le suonavamo non le abbiamo semplicemente ascoltate, queste cose ci hanno attraversate.» La musica e i colloqui frequenti con Vivaldi cambieranno Cecilia, le daranno quel coraggio che mancava, le tracceranno una meta, i primi segni di una propria fisionomia: «In un’ora vivere tutto quanto può accadere a un essere umano.»
Gliela cambieranno anche i contatti con le ragazze ricche che vengono ad imparare la musica. Attraverso di loro ascolta parole nuove, di cui non conosceva l’esistenza e soprattutto il significato. È confusa: «non so che tipo di vita conducevano sulla bocca degli altri, che cosa vogliono dire veramente.» Questo processo non c’è in Lavinia, poiché fino a quel momento Lavinia è diversa da Cecilia.
Quando il cambiamento sarà avvenuto, e la ricerca della madre avrà sortito il suo effetto, Cecilia si libera di ogni residuo del passato e sulla nave che la porterà verso oriente dirà: «sono io in carne e ossa, tutta intera, che mi sono riconsegnata a me stessa, sono io che adesso vado incontro al mio destino. È il momento in cui Lavinia e Cecilia diventano una cosa sola.
Scarpa sostiene di non aver mai letto il racconto della Banti, almeno nel tempo che ha preceduto la scrittura del romanzo, ma le somiglianze, soprattutto dal momento in cui entra in scena Vivaldi, ci sono. Ancora: ad un certo punto Cecilia riflette: «Perché non esistono musiciste? Perché le donne non compongono musica?, che ricorda molto da vicino il rimprovero che, nel romanzo della Banti, Orsola fa a Lavinia: «Alla fine chi te l’ha detto che non è permesso comporre?» E quando Cecilia, come Lavinia, fuggirà dall’orfanotrofio, lo farà «travestita da uomo e mi sono imbarcata.» Ma sono marginali, giacché prodotte da una differente ispirazione e motivazione. Pertanto, entro questi limitati confini si potrebbe collocare il contatto tra i due libri.
Invece, Scarpa ha un filo diretto con il libro della Fallaci, «Lettera a un bambino mai nato». Consapevolmente o meno è a questo libro che risponde.
Dà anche un’altra risposta, diretta al mondo dell’arte. A proposito de «Le quattro stagioni» Vivaldi dice a Cecilia: «Hai ragione, è la cosa più stupida che ho scritto, ma mi serve per arrivare alle orecchie di tutti. Dobbiamo avere l’umiltà di farci capire. Dobbiamo usare la nostra complicazione per tirarne ingegnosamente fuori la semplicità.»

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