Un romanzo “quasi breve” in confronto dei lunghissimi romanzi d’appendice a cui Dumas ha abituato i suoi lettori, Amaury fu pubblicato nel 1843 e in Italia nel…; questa edizione è del 1875 ed è illustrata da 20 tavole; non conosciamo né il traduttore né l’incisore che hanno contribuito. Si possono rilevare due traduzioni italiane successive, l’ultima del 2018 di Angela Fracchiolla.
La storia è una classica vicenda di amore e di morte, protagonisti il giovane Amaury, la fidanzata Maddalena e la cugina Antonietta. Il destino li unisce e li divide nel corso del romanzo in maniera tutt’altro che imprevedibile, eppure come sempre Dumas si fa leggere con piacere dal suo pubblico, e si arriva di filato all’ultima pagina per smettere di piangere e finalmente divertirsi con il classico lieto fine. Personaggio non secondario, e protagonista di un amore diverso, ma non meno intenso, è il dottor d’Aigrigny, padre di Maddalena e suo medico, che lotta contro la malattia della figlia, ma decide di non lottare quando ad ammalarsi è lui stesso. Si può poi dire che la gelosia, che i diversi personaggi provano verso chi contende loro l’amore, sia il secondo tema fondamentale della vicenda.
Nessuna trama storica fa da sfondo alla vicenda, che si svolge a Parigi e dintorni nel 1838-39; siamo in un mondo nobile e di alta borghesia, e tutti i personaggi sono ricchi e inconsapevoli rispetto alle classi meno abbienti, se si eccettua un ricordo di Maddalena, che da bambina aiutò una donna indigente. Parafrasando il titolo di una telenovela di quasi due secoli successiva, “Anche i ricchi piangono” in questo romanzo. Da notare che questo è il primo ed unico tentativo di Dumas nello sviluppo di un romanzo epistolare, e il fatto che non abbia avuto seguito mostra che non era la forma più congeniale alle sue doti espressive.
Sinossi a cura di Gabriella Dodero
Dall’incipit del libro:
C’è una cosa che è presso a poco sconosciuta a tutto il resto dell’Europa e che è speciale alla Francia, ed è la chiacchiera.
In tutti gli altri paesi della terra, si discute, si parla, si perora; è in Francia soltanto che si chiacchiera.
Quando ero in Italia, in Germania od in Inghilterra, e che ad un tratto annunziavo che il giorno dopo sarei partito per Parigi, taluni si facevano meraviglia di quella improvvisa partenza, e chiedevano:
– Che cosa andate a fare a Parigi?
– Vado a chiacchierare, io rispondeva.
E allora tutti si stupivano perchè, stanco di parlare o di udir parlare, facessi cinquecento leghe per chiaccherare.
I soli Francesi mi capivano e dicevano:
– Felice voi!
E talora uno o due dei meno proclivi a restar laggiù si distaccavano e venivano meco.
Infatti, conoscete voi nulla di più grazioso di uno di quei ristretti crocchi, in un angolo di una elegante sala, fra cinque o sei persone che lasciano capricciosamente libera la via alla loro parola in balìa del loro capriccio, seguendo ed accarezzando un’idea finchè essa sorrida loro, abbandonandola quando ne hanno esausto ogni sapore, per riattacarsi poi ad un’altra la quale cresce e si sviluppa alla sua volta in mezzo ai motteggi degli uni, ai paradossi degli altri, allo spirito di tutti, e che poi tutto ad un tratto, giunto all’apogeo del suo splendore, allo zenit del suo sviluppo, si dilegua, svapora, si volatilizza come una bolla di sapone, al tocco della padrona di casa la quale, con una tazza di tè in mano, si approssima, navicella vivente che porta da un crocchio all’altro l’argenteo filo della chiacchera generale, raccogliendo le opinioni, chiedendo i pareri, posando problemi, costringendo ogni tanto ciascuna brigata, a gettare la sua parola in questo vaglio delle Dannaidi che chiamasi conversazione?
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