All’insegna del Buon Corsiero è l’unico romanzo di D’Arzo che l’autore poté vedere pubblicato in vita. La prima edizione è infatti quella di Vallecchi del 1942.

Probabilmente fin da quando aveva quindici anni e cercava la sua strada letteraria tra poesia e prosa, D’Arzo aveva cominciato ad abbozzare questa narrazione con la quale cerca infine di superare l’accusa, derivante dalla sua racconta di racconti Maschere e da alcune novelle pubblicate su “Quadrivio” e “Meridiano di Roma”, di essere dedito a una letteratura d’evasione. Certamente tale dimensione va stretta al suo impegno esistenziale, ma ugualmente risulterebbe inutilmente delimitante la dimensione fantastica, e di certo neppure il Neorealismo, allora quasi egemone letterariamente, non era l’ambiente letterario nel quale avrebbe potuto trovarsi a suo agio.

Il suo modo di fare letteratura deve essere in linea con il modo con il quale gestisce la propria personalità. In Fra Cronaca e Arcadia D’Arzo afferma che la via più sicura per cadere nel falso è «proprio quella di voler affondare i denti addirittura nel nervo del vero». Per questo D’Arzo non ha interesse a chiudere l’intreccio, non gli interessa tanto fare la cronaca di un fatto. Il compito dello scrittore è quello di rivestire di poesia eventi che in sé non hanno nulla di poetico. Se pensiamo che negli stessi anni tra il 1938 e il 1941 Gadda pubblicava a puntate sulla rivista “Letteratura” La cognizione del dolore, possiamo formarci l’idea che, nonostante il conservatorismo linguistico e culturale del ventennio, si andava formando comunque una certa esperienza di innovazione letteraria.

Nel corso della narrazione D’Arzo, che per la prima volta ricorre allo pseudonimo che diverrà il più usato e quello sotto il quale ancora oggi è conosciuto, afferma – quasi come dichiarazione programmatica – «sempre che d’assurdo e di strano sia lecito parlare in quest’avventura terrena d’altri tempi». La vicenda è ambientata in epoca indefinita, collocabile forse alla fine del Settecento, e in località altrettanto vagamente delineata, collocabile probabilmente nella provincia veneta. È un Settecento frivolo, punteggiato da paggi e damine, lacchè e carrozze. Ma l’allegria e il clima festoso si interrompono e sfumano in una situazione dove sembra ci si attenda qualcosa. La marchesa dovrebbe far visita al vescovo; Mirandolina, figlia dell’oste, deve convolare a nozze, e il Funambolo darà il suo spettacolo camminando sulla fune da un lato all’altro della piazza.

Tutto questo prelude a un clima surreale di sospetto e apprensione. Ma la passeggiata sul filo ha esito nefasto per un sabotaggio. Ma il Fubambolo è davvero morto? Pare che ci sia chi lo ha visto dopo l’incidente. In tutto questo susseguirsi d’immagini che possono anche apparire labirintiche e che hanno il sapore della favola, D’Arzo affronta la profondità dei sentimenti, tuttavia sempre pervasi da un sentore di inquietudine. Abbiamo qui, forse per la prima volta, un tema che D’Arzo saprà sviluppare, cioè quello della dissimulazione dell’identità, soprattutto attraverso il personaggio del Funambolo, portatore di una logica aliena che si contrappone a quella di Lelio – il lacchè che gli recide la fune sulla quale deve camminare – che è la visione apparentemente concreta, convenzionale.

Con il successivo Essi pensano ad altro il tema dello sdoppiamento dell’identità e della “maschera” darziana farà ulteriori e importanti passi in avanti. Ma qui gioca in maniera vincente tutta la sua credibilità: anche gli spazi letterari si sdoppiano e si contrappongono: la Villa delle Statue – da dove Lauretta e la Marchesa fuggono – si contrappone all’Osteria; la prima sembra portatrice di un silenzio quasi diabolico, la seconda appare rassicurante e affettuosa. Credo che chi legge avrà da riflettere su questo Settecento darziano così profondamente anti-illuministico.

L’e-book che presentiamo è tratto dall’edizione Lombardi del 1988, che non presenta differenze rispetto a quella originale Vallecchi del 1942. Tra i commenti critici piace ricordare quello di Pietro Citati che definì All’insegna del Buon Corsiero «libro incantevole» non interamente riconducibile «ai tanti libri di quegli anni, in apparenza simili al suo»; il poeta Attilio Bertolucci si dichiarò entusiasta (per tutta la produzione darziana), mentre Giorgio Bassani, pur condividendo l’entusiasmo in generale di Bertolucci, opera un distinguo proprio per questo romanzo per il quale riserva una condanna.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Ad accorgersi che due carrozze, gentilizia l’una e trainata da due cavalli neri, più vasta ed alta, tanto da ricordare un po’ la diligenza, la seconda, avanzavano pacatamente per la strada, lungo i fossi, probabilmente dirette al «Buon Corsiero», fu uno staffiere della locanda stessa.
Aveva appena liberato un morello dalle briglie che era allora giunto spossato alla locanda portando un ufficiale doganiere, e già stava per condurre la bestia nella stalla, quando gli parve di avvertire un tintinnìo di campanelli in lontananza. Lo scalpitìo seppure pacato e stanco della bestia sopra le pietre erbose del cortile gli impedì sul momento di accertarsene: e già stava per dimenticarsi del tutto degli squilli portati dalla prim’aria serale fino a lui, quando questi gli giunsero di nuovo, se non più nitidi e precisi, in modo tale che non potè più dubitarne.
Attraversato allora di nuovo tutto il cortile, dove Lauretta, Mirandolina e altre ragazze cominciavano già ad aggirarsi con i vassoi e le stoviglie in mezzo ai tavoli, si portò nuovamente sul cancello e vide che le due carrozze, oltrepassato il convento delle Educande di Maria, si dirigevano appunto alla locanda.

Scarica gratis: All’insegna del “Buon corsiero” di Silvio D’Arzo.