Questa festa teatrale, tutta allusiva ai sicuri segni d’indole generosa dati fin dalla prima sua adolescenza dal gran principe per cui è scritta, fu d’ordine sovrano composta in Vienna e rappresentata con musica dell’Hasse nella cesarea corte con magnificenza proporzionata all’occasione, alla presenza degli augustissimi regnanti, per le nozze delle Altezze Reali di Giuseppe II, arciduca d’Austria (poi imperatore de’ Romani), e della principessa Isabella di Borbone, l’anno 1760.

Al primo aprirsi del teatro la scena rappresenta un’ombrosa selva. folta di alte, robuste e frondose piante, interrotte da qualche reliquia di maestose fabbriche antiche. Si divide nel prospetto la selva in due lunghe ma differentissime strade, essendo la sinistra di esse agevole, fiorita ed amena, e l’altra all’opposto difficile, disastrosa e selvaggia, esce dalla destra il giovinetto alcide su l’orme di fronimo suo aio.

Dall’incipit del libro:

ALC.
A che fra queste opache
Solitudini ignote i passi erranti,
Fronimo, andiam volgendo?
FRON.
È tempo, Alcide,
Che di tante ch’io sparsi
Reggendoti fin or cure e sudori
Frutto al fin si raccolga. Il re de’ numi
Giove, il tuo genitor, vuol che a cimento
Oggi si esponga il tuo valore: ed io
Al cimento ti guido. Ah tu seconda
Il favor degli dèi,
Le speranze del mondo, i voti miei.
ALC.
Non dubitar di me. Quelle feconde
Scintille di valor che d’inspirarmi
Cercasti ognor, già dilatate in fiamme
Sento anelarmi in sen. Si voli all’opra.
A che più differir? Le fiere, i mostri,
I perigli ove son?
FRON.
Ferma. Più grande,
Ma diverso è l’impegno:
E d’un figlio di Giove il rischio è degno.
ALC.
Qual è? Spiegati.

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