(voce di SopraPensiero)
L’Italia sembra non rendersene conto: tutte le statistiche ci ricordano il basso livello di competenze degli studenti e della popolazione adulta, lo scarso numero di laureati e diplomati che il nostro invecchiato e gracile sistema produttivo non è capace di assorbire, la debole partecipazione dei nostri concittadini alla vita culturale.
Un paese povero di risorse materiali e in ritardo dovrebbe investire in formazione più degli altri paesi. Invece continua a non avere una politica della conoscenza, fondamentale per la costruzione del nostro futuro: gli investimenti in istruzione e ricerca ci costerebbero meno di quanto ci costa l’ignoranza. Questo è il paradosso di un’Italia senza sapere.
Martedì 17 giugno 2014, ore 18.30
Fandango Incontro
via dei Prefetti, 22
Roma
Presentazione del libro di Giovanni Solimine “Senza sapere : Il costo dell’ignoranza in Italia“, Editori Laterza. L’autore dialoga con Tullio De Mauro e Romano Montroni.
Giovanni Solimine ci spiega
il paradosso di un’Italia senza sapere
Sembra strano, ma adesso, a distanza di 150 anni, la situazione è sostanzialmente simile, ovviamente in modo diverso. I dati di un’indagine OCSE pubblicata nell’ottobre scorso ci ricordano che il 70% della popolazione adulta del nostro Paese non possiede le competenze minime ritenute indispensabili per poter vivere da cittadini consapevoli nel XXI secolo. Siamo all’ultimo posto tra i paesi europei per quanto riguarda la literacy, cioè le competenze linguistiche; al penultimo posto per quanto riguarda la numeracy, le competenze numeriche, matematiche.
Il costo di questa ignoranza pesa come un macigno sulla possibilità di sviluppo del nostro Paese. Ricordiamoci che siamo in una economia che dovrebbe essere fondata sulla conoscenza e dove i paesi che investono di più in istruzione e cultura sono quelli che viaggiano più velocemente.
L’Italia invece ha la metà dei laureati e molti meno diplomati della media europea e conta uno scarsissimo numero (poco più del 3%) di persone occupate nei settori ad alto livello di innovazione.
È alla qualità del capitale umano che i nostri governanti dovrebbero prestare maggiore attenzione. Lo ha ricordato di recente anche il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, quando ha detto che un paese povero di risorse naturali e in ritardo su tanti fronti dovrebbe investire più della media nella conoscenza.
Invece questo non accade. Gli italiani vanno a scuola meno dei nostri fratelli europei dei paesi avanzati, il numero di iscrizioni all’Università cala. Complessivamente assistiamo ad uno strano fenomeno: pur essendo una risorsa scarsa quella del numero delle persone qualificate, abbiamo un elevatissimo livello di disoccupazione intellettuale. Sembra una contraddizione. Questo dipende da un sistema produttivo che è talmente invecchiato e debole che non è in grado neppure di assorbire la manodopera più qualificata, quella su cui dovremmo puntare per crescere di più.
L’Italia ha disinvestito negli anni scorsi in istruzione. Sono diminuiti di molto gli investimenti in scuola e università (soltanto la Grecia e il Portogallo hanno fatto peggio di noi). L’Italia costringe molti dei nostri laureati ad emigrare.
Malgrado tutto questo, sembrerebbe esserci un barlume di speranza: se guardiamo i progetti di ricerca europei vediamo che mediamente i ricercatori italiani riescono ad ottenere più finanziamenti degli altri paesi. Però gran parte di questi progetti vengono realizzati all’estero, perché l’Italia non è in grado di ospitare i progetti più importanti, i migliori, quelli su cui dovremmo puntare.
Questo è il paradosso di un’Italia senza sapere.