Manca solo il via libera formale del giudice federale, ma ormai il dado è tratto: oggi a suon di milioni di dollari Google ha convinto gli editori e gli autori americani a cedere i diritti per il suo progetto di digitalizzazione di libri, Google Book Search.
Il modello di business del motore che rende già 7 milioni di volumi ricercabili via Internet, considerato fino a ieri improponibile, è apparso di colpo talmente interessante che è stata ritirata la causa per violazione di copyright intentata nel 2005: in cambio, Google ha promesso che stanzierà 125 milioni di dollari per costituire un «Book Rights Registry» per chiudere le vertenze esistenti, coprire le spese legali e offrire una vetrina pubblicitaria online ad autori ed editori. Google si riserva il 37 per cento delle entrate garantite dalla vendita dei libri e dalla pubblicità affiancata alle anteprime dei testi, il resto verrà equamente diviso dal Registro fra i detentori dei diritti.
«E’ un accordo storico per Google e sicuramente un passo avanti per l’editoria, ma si rischia una nuova Siae» commenta Marco Calvo, fondatore di Liber Liber, la libreria elettronica del progetto Manuzio che mette a disposizione in Rete i classici della letteratura caduti nel pubblico dominio, in vari formati scaricabili. Secondo Calvo, tra i sostenitori della Carta dei Diritti digitali proposta settimana scorsa all’Internet Governance Forum di Cagliari, il vero traguardo che rivoluzionerà l’editoria sarà raggiunto quando autori ed editori decideranno di gestire in proprio il passaggio al digitale, senza bisogno di appoggiarsi a Google.
«Affidare la gestione del proprio archivio a terzi non è lungimirante, prima o poi capiranno che possono tranquillamente, grazie a piattaforme con standard interoperabili come quella del progetto Manuzio, pubblicarsi da soli online il loro archivio, con enormi risparmi e incassi certi».
Solo tre anni fa il presidente della Authors Guild (il sindacato degli autori Usa) aveva definito il progetto di Google «una evidente e spudorata violazione del diritto d’autore» e aveva fatto scattare la class action, seguita dalla denuncia di mega-editori dell’Association of American Publishers del calibro di McGraw-Hill, Pearson Education e Penguin Group, John Wiley e Simon & Schuster.
A nessuno di loro sembrava importare che Google offrisse testi caduti in pubblico dominio (tra cui le opere orfane), aumentasse l’accesso a libri non più stampati e la visibilità per milioni di opere non più reperibili sugli scaffali, a vantaggio di autori che non vendono più attraverso i canali tradizionali. Nè che biblioteche e scuole potessero accedere alle opere fuori catalogo per intero, o che venissero agevolati gli utenti disabili nella fruizione dei testi. Si erano impuntati sul fatto che gli internauti potessero leggere senza aver fatto richiesta ai detentori dei diritti.
Da ieri invece le case editrici riconoscono che il servizio http://books.google.com/ (che peraltro per ora dato l’accordo è previsto solo per il pubblico negli Usa…) è uno strumento utile ad aumentare le vendite. Meglio tardi che mai: anche perché il problema vero degli editori non è che la gente copia o scarica illegalmente i libri per leggerseli, ma semmai che la gente non legge. Per cui, a costo di regalarli per qualche anno in via promozionale, benvenga la diffusione via Internet: comunque avvenga, è una buona notizia.
Anna Masera
La Stampa
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29 ottobre 2008