Il 21 maggio 2008 ho conosciuto a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, Franz Krauspenhaar, spigliato, disinvolto, coi suoi occhi azzurri che sprigionano simpatia e gioia. Così lontana la sua fisicità dall’immagine di irrequietezza e ribellione che emerge dai suoi romanzi, sempre sanguigni, appassionati, portatori di una verità contorta, rivelatrice di un malessere segreto che ancora la scrittura non è riuscita a vincere del tutto.
Ora tocca a “Era mio padre” raccogliere questa eredità e una tale sfida. All’inizio incontriamo una frase molto bella, che è anche la chiave di lettura più significativa: “Il passato è passato, si dice. Come si può credere ad una idiozia del genere? Il passato è qui, ora, perché noi siamo passato, noi siamo il passato, il passato passa all’esterno ma rimane nel nostro interno notte – e giorno – giorno e notte; il passato ci sveglia nei sogni.”
Il romanzo è dichiaratamente autobiografico. Tutto quello che c’è scritto è vero, ha dichiarato più volte l’autore. Carl e Franz, dunque, sono personaggi reali, in carne e ossa. È un tentativo, questo, che Franz Krauspenhaar compie per diagnosticare e risolvere quel suo malessere che lo accompagna, recuperare una libertà dello spirito non più impedito dai legacci della memoria, invadenti e ossessivi: “mi sembra di avere più ricordi che speranze.”; “uomo che ha una tara da colmare, badante di un se stesso in sedia a rotelle.” Forse è il romanzo che dischiuderà a Franz nuove frontiere: “eccomi qui a interrogarmi su queste pagine, a fare di te un libro.”, “questo libro è un salvataggio estremo”, “Io qui sperimento me stesso”; necessario, dunque, affinché la tempra d’artista che è in lui si riveli nella sua pienezza. È un romanzo di passaggio, anche se l’autore ha già le idee chiare: “i libri davvero forti e veri devono suscitare emozioni, e se negative tanto meglio. Devono seguire la forma dello sballamento umorale della vita, del mondo. Il saliscendi. Il motocross è letteratura. E illusionismo al cento per cento.”
Sono gli irresistibili richiami alla beat generation, che Franz assimila e fa suoi per descrivere una parabola personale fatta di dolore, di alienazione e di morte: “questo sentire la vita come un lutto.”; “difficilmente io genererò un figlio: non si può mai dire, certo, ma con molta probabilità l’ultimo a sentire quel senso sovrano di morte sarò io”. Il tenersi attaccato alla memoria del padre è infatti non tanto un richiamo di vita, bensì di morte e un richiamo anche proveniente dalla morte, affidato quest’ultimo alla scrittura: “Questo padre che mi ha abbandonato troppo presto.”; “affonda nella prosa, resisti nella prosa.”; “ho scelto la prosa per venirti incontro e ricostruirti.” Solo attraverso una tale visione, come una luce opaca, e solo attraverso la scrittura Franz riuscirà a vedere intorno a sé e a leggere un nuovo rapporto con se stesso e con la vita.
La mobilità stilistica e la visionarietà che s’inerpica all’improvviso come a raggiungere una vetta impossibile, sono tra le caratteristiche principali del romanzo, al servizio di una ricerca complessa, tortuosa e disperata. L’immagine del padre finisce per scuotere nell’animo dell’autore il recondito coacervo di sentimenti repressi per troppo tempo. La felicità suscitata in lui dal padre quando era in vita, si scopre che si è trasformata a poco a poco in un deposito nascosto dove sono andati a fermentare sensi di colpa, dolore, angosce, insicurezze, frustrazioni e disperazione. Una felicità, dunque, ambigua, dalla doppia faccia ingannatrice. Franz ne paga lo scotto, a partire dal momento in cui l’oggetto di questa felicità scompare per sempre. Allora il miscuglio torbido che si è depositato nella sua anima principia a gorgogliare, a venire in superficie e a pretendere una specie di resa dei conti con la verità. Milano (“la puttana discreta”) e le donne che si alternano nell’attenzione di Franz, risultano, così, pur nella loro consistenza, soltanto presenze complementari, brevi scenari di giuntura, semplici raccordi di percorsi di ben più grave spessore, in cui un qualsiasi abbandono può causare la perdita della conoscenza di se stesso, oltre che della vita.
Scrivere libri come questi è sempre ad alto rischio. Ne possono uscire esiti liberatori, ma anche saldature imprescindibili che lasciano il segno. Ci vuole coraggio ad intraprendere un’impresa simile. Se pure la letteratura abbia già fornito esperienze di questo tipo, esse non sono poi così numerose, e va dato atto a Franz di averla affrontata senza menzogne, in un rapporto diretto con il lettore, come una confessione pubblica, generosa e appassionata.
Scendere negli abissi della propria anima è soprattutto farsi strada nel buio, cercare la luce, ma specialmente procedere in una oscurità assoluta il cui attraversamento corrisponde nella maggior parte dei casi ad uno smarrimento, quasi una perdita di coscienza. Franz la attraversa affidandosi ad una visionarietà lautréamontiana, dove la mente, se pure si affida al ricordo, prende strade autonome tutte percorse da una specie di sbriciolamento della propria personalità.
Il sogno di Franz di essere il padre di suo padre (“Io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio.“) e di portarlo per mano non ha il significato di una riappropriazione delle sue radici, piuttosto di uno smarrimento di se stesso, di una perdita di identità. Nella ricerca ossia di se stesso, Franz perde proprio l’unico legame che possa condurlo al se stesso che sta ricercando, quella forza di gravità che manca ad un uomo smarritosi nello spazio e nel tempo.
Franz, dunque, ha scelto – inconsapevolmente o meno – la strada più difficile. Egli fa omaggio ad Henry Miller (“Miller mi ha fatto diventare uno scrittore“), ma qualche volta viene in mente la rabbia di Céline, che in Franz si mescola ad un amore-odio (“vendetta liberatrice“), diretto più che al padre, a se stesso. Il padre Carl (Karlo), in questo romanzo, è in realtà un pretesto, o meglio una specie di specchio rovesciato e deformante (“Volevi essere come tuo padre“); il protagonista vero, perfino egocentrico e qualche volta eccessivo, è unicamente lui, colto nelle giravolte, neglisbandamenti, nelle insicurezze generate dalla sua speciale ricerca. È un romanzo da male oscuro, questo di Franz, ed una ricognizione a 360 gradi che può richiamare alla mente perfino il Kerouac di “On the road“.
La sua disorganicità, la sua improvvisazione diaristica, la mancanza di una linea sicura che non sia quella della spontaneità, generano nel lettore il subbuglio di una confidenza inattesa ed imbarazzante. Ci sono parti che si ripetono come girando intorno a se stesse: le quali sono lì, in realtà, per ricordarci che ci troviamo ancora di fronte ad un trauma irrisolto (“È un viaggio con te perché io diventi un uomo completo”) che l’autore cerca ripetutamente di sciogliere con la scrittura. Karlo altro non è che la malattia di Franz, è il suo doppio che il figlio vuole disperatamente raggiungere per potercisi identificare: “Diventare te per davvero“, “Sto scrivendo di mio padre ma io intervengo di continuo col personaggio di me stesso, a inchiostro spiegato, pennellando il mio ego in ogni spazio. Questo libro è anche un diario di me stesso, e forse sì, il me stesso, sempre lui si sovrappone in maniera eccessiva a quello di papà.” È una dichiarazione, quest’ultima, di consapevolezza letteraria, che ha una sua lucidità la quale, se si diluisce nel contenuto, resta, nell’artista, molto determinata: “Questo mio viaggio è fatto di stop continui, di accelerazioni, di frenate brusche, di avanti e indietro nel tempo e nello spazio.” Una scrittura magmatica, dunque, con i suoi alti e bassi dovuti ad uno spontaneismo cercato ad ogni costo, per il quale talvolta Franz paga un prezzo salatissimo: “ho messo in atto una vera e propria polverizzazione della narrazione. Non c’è un nucleo.[…] Non ci posso fare niente“. Si pensi a questa frase, che si riferisce al fratello Stefano morto tragicamente, lasciata incustodita nella sua provvisorietà: “si dissolve da qualche altra remota parte oltre l’universo – o già si è dissolto – per imbarcare nuova luce nella realizzazione di spirito nuovo.”
O a queste altre, troppo eccessive, al limite del sensazionalismo: “Affonda nella prosa, resisti nella prosa.”; “ho scelto la prosa per venirti incontro e ricostruirti, affondandoci insieme.”, “Io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio.” Non mancano, però, espressioni di nitida bellezza: riferendosi al padre che trascorre la vacanza a Palmi, la terra della mamma, scrive: “E quando nuotava in quel mare meraviglioso nuotava dentro la pelle chiara della mamma.”; “il passato ci sveglia nei sogni.”, allorché ricorda Svetlana invecchiata ed imbruttita, “pesta e ubriaca fradicia”, scrive: “Sentii il peso degli anni più di tante altre volte, fu un confronto duro col tempo che era trascorso nel peggiore dei modi. Con l’assenza di speranza. Con le illusioni perdute accartocciate nella mano, come un fascio di foglie secche.” E anche: “Fulmini caliginosi che entravano nella pelle, dopo aver polverizzato la crosta dell’aria.” Ma ne troveremo altre di simili.
L’egocentrismo e una certa abbondanza espressiva, tuttavia, continuano ad impregnare il libro, ne fanno il propulsore dinamico e roboante, insieme con la scrittura, spuria ed allucinata: il padre ha diciotto anni e viene arruolato nella Cavalleria Wehrmatch e inviato in Ungheria, dove, ai lati di una grande strada, vede penzolaredagli alberi un sfilza di ragazzi e uomini tedeschi in divisa, con appiccicato addosso un cartello con la scritta infamante che si tratta di disertori. Non sono ammesse fughe, dunque, anche se la guerra ormai è perduta: “Eccoti che fai il tuo dovere. Il tuo dovere è di rischiare di farti scannare, di esplodere in mille pezzi, di trascorrere le tue ultime ore in agonia.” Mi viene in mente “Kaputt” di Curzio Malaparte (uno scrittore amato dall’autore, e citato nel romanzo insieme con Henry Miller e Céline), del 1944, dove la tragedia della guerra è intessuta con una scrittura superbamente controllata e magistrale.
L’io che sta spuntando da queste confessioni di Franz è un io prepotente, perfino esaltato, ma necessario, il quale versa dappertutto il fiele della sua vendetta distruttiva. Per ricostruire o rinascere si deve distruggere, fare tabula rasa, chiudere tutti i legami, lottare strenuamente coi ricordi, senza temerli, ma per sconfiggerli: “io credo che l’idolo vada finalmente abbattuto per centrare meglio se stessi, e superare quell’inevitabile complesso d’inferiorità che ci sommerge a volte come una maledizione.”
Non teme di confessare le sue simpatie nazifasciste in gioventù, di contro al conformismo che dilagava nei giovani della buona società che si dicevano comunisti, ma non rinunciavano ai loro privilegi. In questo differiva, allora, dal padre, che odiava profondamente Hitler e il nazismo (“Hitler era un porco”), avendo conosciuto gli orrori della guerra e la ferocia delle persecuzioni. Scrive Franz: “Avevo capito che il comunismo era l’altra faccia – quella più presentabile, perlomeno qui, da noi – del fascismo e della sua versione più netta e radicale, il nazismo. E le mie idee su questo non sono affatto cambiate, nonostante siano passati trent’anni e più da quegli anni piombati.” È il Franz combattivo, risoluto e tenace che ogni tanto afferra per la gola se stesso e trasforma la sua debolezza in orgoglio.
È il Franz più sicuro, che non ha perso, nel ripescaggio di se stesso, quel punto di lucidità che lo tiene ancora attaccato al mondo. Sono le parti migliori del libro, anche stilisticamente, dove la confessione mantiene una sua salda linea di opposizione contro tutti i soprusi. Non ha peli sulla lingua, come non li ebbe Fenoglio. A proposito dei partigiani scrive: “Solo un certo numero io credo che fossero banditi. Come quelli che fecero saltare il camion di SS in via Rasella a Roma, causando la strage delle Fosse Ardeatine. Gente che sapeva benissimo cosa sarebbe successo, quale sarebbe stata la rappresaglia”.
Come pure sobrie e riuscite sono le pagine del capitolo 20 che descrivono il padre reduce sbandato, che sta cercando i suoi cari e di ricostruirsi una vita.
Giunto in Italia, deve vedersela con le ostilità della gente, “In un paese che aveva tradito tutti all’ultimo momento, che aveva in un primo momento inneggiato al suo duce e poi aveva voltato le spalle con un colpo di mano da piccolo illusionista d’avanspettacolo. Ed ora per i tedeschi erano tempi grami.” Non è senza significato che troviamo questa esplicita confessione, che riguarda le amicizie del padre: “Ora che ci penso, non ha mai avuto un amico italiano.”
Il romanzo si sta spogliando della malattia: ossia della retorica e della esaltazione dei sentimenti, quasi a svelare, dunque, che il percorso intrapreso dall’autore (“queste sedute di scrittura”) sta raccogliendo evidenti e importanti risultati.
È il Franz che mi piace e che desidero incontrare nei prossimi romanzi: “Se non s’è perso l’amore, in fondo non s’è perduto niente.” È una frase che segna una forza nuova ed una irresistibile speranza. Bella, in appendice, la dedica alla madre Teresa, che ha il nome bellissimo che fu anche della mia.
- Per le altre letture di Bartolomeo Di Monaco: http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?page_id=574
- Il blog: http://www.bartolomeodimonaco.it/