Titolo: Il divo di Paolo Sorrentino, 2008
Con: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Alberto Cracco, Piera Degli Esposti, Lorenzo Gioielli, Paolo Graziosi, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo, Fanny Ardant.
Riconoscimenti: Cannes 2008, Prix du Jury.
Un altro “amico di famiglia” ? Il paragone ci può stare, fatte le debite differenze e proporzioni tra il precedente film di Sorrentino, L’amico di famiglia appunto (2006), e questa sarcastica e, in diverso modo, surreale “biografia” di Giulio Andreotti. Se l’usuraio Geremia (il bravo Giacomo Rizzo) riteneva, perfino con una punta di esistenzialismo, di svolgere nell’Agro Pontino un’attività socialmente utile, Andreotti (il bravissimo Toni Servillo), fermo e chiuso nel suo potere “divino” (poté dire a Papa Wojtyla: «Se permette, Santità, Lei non conosce il Vaticano») sembra recitare – e forse ne è convinto – il ruolo di chi, per la salvezza del suo Paese (salvezza dal comunismo, progressivamente incombente dal dopoguerra all’assassinio di Moro), sopporta su di sé l’enorme peso del Male necessario. Assediato da quotidiane emicranie, il Divo si fa forza con una serie infinita di battute di spirito, che vanno via via a formare un cumulo di spunti riflessivi, tanto efficaci nella funzione impermeabilizzante verso l’orpello politico (la sostanza è invece il suo vero nutrimento) quanto inconsistenti, forse, nel loro effettivo portato filosofico. L’ambiguità è insopprimibile, pena la caduta del mito: favola della quotidianità assunta nel cielo degli affari e degli intrecci di sopravvivenza, scambiati per strategie di Stato. Il regista costruisce la figura del Divo in chiave simbolica non tralasciando di assisterne la fisicità, con una carica di provocazione insistita fino al rischio della contaminazione universale. E tuttavia non fermandosi all’indicazione “personale”, per andare invece al di là di Andreotti Giulio, oltre i nomi e i fatti, che pure l’agenda segnala in rosso scrivendo sullo schermo annotazioni per un vero e proprio “ripasso” di 50 anni di storia. Al di là, non perché la figura dell’uomo politico italiano «più importante dell’ultimo mezzo secolo» debba dissolversi nell’orizzonte grigio dei silenzi mortali e delle feroci invenzioni machiavelliche, ma piuttosto per un respiro stilistico (non sembri una parolaccia), che sappia dare alla rappresentazione la sua forma più degna, di metafora della sofferenza sociale e culturale, cui è costretto tutto un popolo inconsapevole e credente. Da questo profondo dolore nasce lo sbigottimento per un film che certo non va preso per “neorealistico” – basti pensare alla fotografia di Luca Bigazzi, niente di più lontano dalla (falsa) tradizione “documentaria” del nostro nobilissimo cinema d’autore del dopoguerra. Il divo si offre invece come thriller del mutismo. Quell’uomo, stretto nelle sue spallucce e soffocato dalla montagna di faldoni del suo archivio, è in realtà un oggetto il cui mistero attende di essere indagato, la cui scorza durissima chiede, forse, di venire infranta al di là delle 26 “archiviazioni” della Giustizia ordinaria. Pur nell’orribile sequela di misfatti accadutigli attorno, il Divo denuncia la propria essenza in forma di mutismo storico, ben oltre le battute di spirito. Ed è questa sensazione terribile che Sorrentino riesce a trasmetterci.