È un romanzo abbastanza insolito rispetto a quelli che si leggevano nei primi decenni del ’900. Scritto tra il 1925 e il 1926 e pubblicato in prima ed unica edizione nel 1927, con questo romanzo l’autore sembra voler prendere le distanze dalla narrativa sua contemporanea per gettarsi a capofitto nel clima romantico, sentimentale, meraviglioso che era il frutto della ricerca letteraria ottocentesca.
Fin dalle prime pagine è facile per chi legge scorgere sotto la forma narrativa quasi moderna un qualcosa di insolito, enigmatico, bizzarro. Varaldo è abile, e la sua carriera letteraria lo dimostra, a tener desta la curiosità che deve correre velocemente per tenere dietro alla fantasia bizzarra dell’autore.
L’io narrante è un giovane, Stefano, che ha vissuto molto avventurosamente in varie parti del mondo la prima parte della sua vita e durante il viaggio di rientro in Italia conosce un barone siciliano spiantato e avventuriero che lo indirizza al “Covo” pensando che ci sia da sfruttare una grossa opportunità. Il romanzo è quindi la rivisitazione retrospettiva della propria vita da parte del narratore.
Il “Covo” è uno strano castello sperduto e isolato situato in Toscana tra le impervie montagne senesi. E già questo appellativo suggerisce subito un qualcosa di tenebroso e insidioso. Viene così introdotto l’ambiente adatto alle digressioni tipiche del romanzo gotico. Oltre a conoscere i componenti della famiglia del conte Luigi degli Uberti – la contessa consorte, una loro figlia, due nipoti e un nipotino, un’istitutrice, il cappellano di famiglia e l’intendente – ci imbattiamo anche in visioni di forme sfuggenti e misteriose, in particolare una giovane donna il cui aspetto richiama quello del quadro di un’antenata – romanticamente somigliante e concordante però a una attuale abitante del castello – e un evanescente cane apocalittico, silenziosamente ringhioso. D’altra parte il mulattiere che accompagna Stefano al castello avverte che nel castello «ci si sente». A queste apparizioni al chiar di luna si aggiungono a turbare la pace notturna anche le escursioni di un giovane sonnambulo. Ma i più pericolosi sono i vivi e reali: il vecchio intendente non è certo di virtù specchiate, un notaio con viso antipatico e astuto da faina è evidente al suo primo apparire che trama in maniera torbida.
Varaldo, da erudito quale era, ci delizia anche con stimolanti citazioni letterarie ispirate dalla ricca biblioteca del “Covo”; la scelta dei libri che Stefano, entrato al servizio della nobile famiglia tenutaria del castello come lettore e “professore” per i membri più giovani, consiglia alla bella Lea, è dettata dal fatto che è persuaso che certe letture possano essere propedeutiche all’innamoramento. E mentre il cappellano legge Voltaire e Rousseau, Stefano consiglia a Lea la Novella Eloisa e Clarissa Harlowe di Richardson nella traduzione di Giulio Janin. Ma in un volumetto di preghiere – Varaldo avverte che «nulla al mondo avviene senza che una volontà sconosciuta non lo voglia, a nostra insaputa» – Stefano ritrova tre vecchie lettere d’amore, la cui lettura condizionerà profondamente le sue azioni e quelle della stessa Lea. Sembra che il verso dantesco «amor che a nullo amato amar perdona» condizioni anche questa vicenda, per cui all’innamoramento di Lea segue la sincera passione del seduttore Stefano.
L’arte della narrazione non è semplice, ma se tra i suoi scopi c’è quello di tenere avvinto il lettore il risultato è certamente raggiunto. La combinazione tra elementi avventurosi e tradizionali, l’ambientazione gotica, il passato non sempre limpido ma anzi piuttosto equivoco di Stefano contrapposto all’immacolato fiore di innocenza e purezza di Lea, fornisce la chiave per una vivacità narrativa certamente affascinante. Se cerchiamo invece approfondimenti del carattere dei personaggi difficilmente li troveremo. D’altra parte non esistono particolari necessità “psicologiche”, e sentimenti e passioni sono limitati a quello che è sufficiente per poter comprendere gli atti e gli accadimenti. L’evoluzione delle emozioni appare quindi un po’ semplicistica e il comportamento dei personaggi – ma nel finale si riducono in pratica a solo due, Stefano e il barone siciliano – può risultare arruffato e poco comprensibile e non coerente al profilo iniziale della loro struttura umana. Ma questa semplicità è tuttavia funzionale all’immediatezza del racconto e consente alle rare divagazioni filosofiche e introspettive di rimanere confinate nell’ambito di una garbata ironia e certamente non invasive nella narrazione.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Secondavo il rullio della cavalcatura, una rozza tutta spigoli, e, pur trafitto a volte da qualche punta ossuta, socchiudevo gli occhi e dormicchiavo fidandomi al quadrato contadino che mi precedeva tenendo la cavezza. Il paesaggio non mi attirava davvero. Dove scomparsa la linea tenera e sinuosa dei dolci colli toscani? Passavamo attraverso avvallamenti vulcanici, gialli rossi e grigi, con poche apparizioni d’alberi macilenti e l’orizzonte breve non mostrava che crateri senza vita e sobbalzi di terriccio e di zolle a volte maestose.
E si camminava da piú di un’ora, lasciata l’ultima stazione sperduta d’una ferrovia secondaria, e non si vedeva ancora la fine dello spossante pellegrinaggio.
Il sole era quasi a mezzo il corso, l’afa incombeva. Un silenzio immane gravava sulla desolazione attraverso la quale m’aveva gettato la mia mala ventura. Cosí, sonnecchiando e risvegliandomi di soprassalto, la schiena bruciata dal sole, riarsa la gola e nel sudore che immollava il fazzoletto avvolto intorno al collo, proseguivo il cammino con quel senso di fatale abbandono, che è l’unica quasi morbida consolazione di chi si trova senza difesa e senza volontà.
Sicché allorquando la cavalcatura incespicando e traballando si fermò per un attimo, quasi non me ne accorsi.
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