I centoautori hanno elaborato questo testo. Chiedono al mondo del cinema, della TV, del teatro, e più in generale al mondo della cultura e dell’informazione, di sottoscrivere questa lettera aperta. Chiedono a tutti coloro che la condividono di firmare individualmente, e di aiutare a diffonderla per raccogliere in breve tempo quante più adesioni possibile. Per aderire è sufficiente inviare una email all’indirizzo: coordinamento@100autori.it

La lettera nasce non per dividere ma per unire autori, registi, sceneggiatori, attori, tecnici, del cinema e della televisione, al di là delle sigle di appartenenza, attorno ad alcuni principi e problemi in cui gran parte del mondo dello spettacolo si può riconoscere. Non a caso adesioni come quelle di Gregoretti e Bellocchio, Rosi e Verdone, Sironi e Montaldo, Amelio e Luchetti, Scamarcio e Placido, configurano un ventaglio di storie ed esperienze assai variegate eppure tutte riconducibili alla volontà di riconoscersi in un’idea di cultura dove qualità e popolarità possono coniugarsi assieme. Ma per aprire nuovi varchi nel mercato audiovisivo, di fronte all’accentramento in atto nel settore delle televisioni pubbliche e private, pay-tv e internet, occorre ritrovare una nuova unità adeguata ai nuovi tempi e alle nuove sfide della globalizzazione. In questo spirito unitario è stata scritta la lettera, a cui hanno aderito più di mille artisti e intellettuali.

A seguire il testo della lettera.

Ai deputati e ai senatori della prossima legislatura,
ai ministri del futuro governo

Chi vi scrive rappresenta il mondo del cinema, della televisione, dell’audiovisivo. Ciò che raccontiamo si forma a poco a poco, mettendo insieme scrittori, registi, attori, scenografi, musicisti, operatori, maestranze: un insieme di creatività e competenze, un grappolo di saperi – studiati, appresi, tramandati. Oggi, in un momento in cui si parla di paese ‘bloccato’, vorremmo portare la vostra attenzione su alcune semplici riflessioni. E avanzare delle proposte. Non lo facciamo con timidezza, non mormoriamo nei corridoi, non chiediamo la vostra amicizia per vederle realizzate – come forse un tempo avveniva.

Chiediamo queste cose a voce alta, pubblicamente.

In primo luogo la difesa dell’universo dei nostri ‘diritti’, che sono poi la nostra identità. In fondo, l’unica cosa davvero nostra. I nostri ‘diritti d’autore’ – inalienabili, incedibili, intrattabili – sono il frutto delle nostre intelligenze e del nostro cuore, vengono dal nostro vivere nella comunità: è da qui, da questo ‘sentire e narrare’ degli scrittori, dei registi, degli artisti, che nasce e via via si rafforza l’immaginario del paese. Chi vorrebbe rinunciare a questo? Chi vorrebbe avere, al posto di un romanziere, un burocrate? Chi può mai pensare che un portaborse messo lì da un partito possa essere meglio di un poeta?

È per questo che vi proponiamo di rovesciare il punto di vista consueto: non stiamo chiedendo facilitazioni, favori, denaro. Chiediamo che l’avventura storica del nostro cinema e di tutto ciò che dal cinema ‘muove’ – il racconto televisivo ad esempio – possa tornare a essere centrale. Vi chiediamo dunque di pensare all’Italia non solo come a una fabbrica da far funzionare meglio o una famiglia di cui far quadrare i bilanci, ma anche come a un ambiente da affrescare, una grande parete chiara, una palpebra bianca su cui scrivere le storie che racconteranno – a chi verrà dopo di noi – ciò che eravamo, ciò che siamo stati, ciò che abbiamo cercato di essere.

Ci sono parole che sembrano dimenticate e che invece vorremmo che tornassero ad avere senso e forza. Parole come etica, trasparenza, competenza, passione. Parole che, una volte rese reali, significano che in alcuni ruoli ‘specifici’ non devono mai più andare persone che rispondano a patronati, ma persone capaci, oneste, felici di essere chiamate a quel ruolo, e ricche di volontà di fare, preoccupate esclusivamente del bene della collettività.

Nel cinema e nella TV, questo significherebbe avere persone disposte ad ascoltare, a proporre e a disporre, secondo coscienza personale e non su sollecitazioni esterne. Nel governo del paese, significherebbe avere un Ministro della Cultura immerso nel battito vivo del paesaggio intellettuale, capace di dialogare col mondo della creatività, dotato del linguaggio giusto.

Ci sono parole come ricerca, innovazione, sperimentazione, che sembrano diventate impronunciabili – parole che spaventano chi crede che un film debba essere pensato solo per un pubblico chiuso nel conformismo, sconcertato di fronte a qualunque racconto non elementare o nuovo. E invece non bisogna aver paura del nuovo. Perché il nuovo è il ghiaccio che si spezza – e sotto, piano piano, viene fuori una ricchezza che si faceva fatica ad accettare e che in breve diventa poi linguaggio condiviso.

Pensiamo alla parola meno usata di questa campagna elettorale: cultura. Nessuno è contro la cultura, nessuno ne prende le distanze, nessuno confessa di detestarla, nessuno ammette di considerarla un peso, una roba per intellettuali lamentosi. È una parola consumata, che non dice più nulla, e perfino noi abbiamo difficoltà a usarla, per l’uso mercantile e falso che se ne è fatto.

È una colpa imperdonabile aver logorato questa parola così importante, nella terra in cui la cultura è invece così vicina alle persone comuni: ci camminano dentro quando attraversano le strade, quando passano davanti alle nostre antiche chiese, quando guardano certi palazzi gentili, certe fontane armoniose, o quei lungofiumi che disegnano quinte di case in mirabili teatri all’aperto. Queste persone sono le stesse che provano una comunanza di sentimenti, pensiero e passione quando, al cinema o in TV, vedono quelle stesse strade, quelle stesse piazze, attraversate dal corpo e dalla voce dei nostri attori e delle nostre attrici. La nostra gente ama la cultura, anche se la chiama con tanti altri nomi. Ma la cultura va di nuovo messa al centro del campo di gioco, non va lasciata ai margini: bisogna far circolare le idee, far circolare i film, le musiche, i colori, i teatri, e tutto il resto che ci gira intorno.

Siamo una nazione ricca del nostro lavoro e della nostra cultura, ma proprio in questo settore, siamo dietro a molti, a troppi paesi. Abbiamo dunque bisogno di cambiare. Sembra difficile, ma non è difficile. Sembra avere dei costi, e invece, tanto per cominciare, si potrebbe partire quasi a costo zero: insegnare il cinema nelle scuole; promuovere il lavoro dei nostri documentaristi sui luoghi di lavoro, nelle case, nelle campagne; avere delle vere regole di mercato; ruotare le nomine; far valere persone brave e competenti. Cose semplici, cose abituali in altri paesi. Servirebbe a noi, e a quelli che verranno […]

‘Quelli che verranno’, sono i ragazzi. I nostri – e vostri – figli. Sono quelli che nelle loro stanze, davanti ai loro schermi privati, scaricano film dalla rete, talvolta legalmente, ma più spesso illegalmente, arricchendo i provider che usano il nostro lavoro senza riconoscerlo, privandoci dei nostri diritti. Noi riteniamo che sia giusto che gli autori tutelino lo sfruttamento delle proprie opere, arginando la marea montante della pirateria, anche telematica. Ma pensiamo che sia anche giusto che i giovani possano avere accesso ai nostri film senza pagare un costo che li rende di fatto inaccessibili.

È qualcosa di cui dovremmo ragionare assieme.

Quando diciamo ‘assieme’, intendiamo dire che, rispetto a quanto accaduto finora, vorremmo mettere le nostre competenze al servizio della collettività, proprio come sarete chiamati a fare voi una volta eletti. Vi proponiamo di prenderci delle responsabilità ‘dirette’. Se vorrete avere delle commissioni che ad esempio debbano decidere quali finanziamenti, a quali produttori, a quali registi, sulla base di quali garanzie – non cercate i nomi nella vostra rubrica privata, non chiamate i vostri amici, le vostre mogli, le vostre segretarie: chiamate noi. E non sottobanco, non come consulenti segreti. Ma, come in molti paesi europei, alla luce del sole. Per periodi di tempo stabiliti in cui non scriveremo, non gireremo i nostri film – ma assolveremo solo il compito che avremo accettato di svolgere.

Il cinema – quando una storia o un’immagine è allo stesso tempo semplice e profonda – ha la forza immensa di dirci ciò che non sapevamo, di mostrarci ciò che non potevamo immaginare, nemmeno su noi stessi. Infatti il cinema, e tutto ciò che dal cinema discende, è un’arte semplice. Ma semplice non vuol dire banale, semplice significa qualcosa che sta alla fine di un lungo lavoro. È per questo che, quando un film ‘parla’ al pubblico e lo colpisce al cuore, si assiste a una specie di miracolo: lo spettatore, passivo per vecchia definizione, in realtà non è passivo per niente: si anima, prende parte, si schiera, discute: che diavolo è il monolite di Odissea nello spazio? È colpa di Mamma Roma se il figlio muore? Marcello, nella sua dolce vita, è un tipo malinconico o è uno stronzo? Ha ragione o no il professor Silvio Orlando a dire che I promessi sposi sono una palla?

La domanda che occorre porsi è questa: di cosa ha bisogno il nostro paese per ritrovare se stesso, per specchiarsi senza paura della propria immagine, immobilizzata in una maschera? Può, chi governa, limitarsi ad avere il semplice ruolo di arbitro nella corsa dei cittadini al benessere economico individuale? Oppure, può limitarsi a chiedere ai cittadini di riconoscersi come comunità soltanto nel rispetto delle regole, delle compatibilità economiche, o di una maggiore equità fiscale?

C’è bisogno di qualcosa di più. Dobbiamo decifrare il disagio, e raccontarlo, cercando nei nostri film, una specie di ‘utopia concreta’, un progetto di ‘futuro possibile’, a portata di mano, una rivendicazione orgogliosa, capace di vibrare in sintonia col paese reale: vedersi rappresentati, vedersi raccontati, aiuta a capirsi. Perché di questo c’è bisogno: di tornare a ‘vederci’. Perché l’immagine che oggi ci rimanda gran parte della TV – la TV peggiore, schiacciata a rincorrere un consenso di puri numeri – non è il paese vero. Dove stanno quelle donne così finte, dove vivono quegli uomini così stupidi, quei giovani così vuoti? Chi incontra mai per strada o in un bar gente vestita in quel modo, atteggiata in quel modo, rincoglionita in quel modo? Bisogna restituire alla TV – questo potenziale grande strumento di democrazia e uguaglianza – il suo ‘occhio’: il che non significa deprimere l’ascolto, non significa non fare spettacolo, non fare intrattenimento, non fare fiction che appassioni il grande pubblico. Significa fare tutto quello che già si fa, ma pensando che chi guarda abbia voglia di vedersi come realmente è – o come realmente sogna – e non come viene sbrigativamente rappresentato.

Abbiamo bisogno di buon cinema e di buona TV perché abbiamo bisogno di un nuovo sguardo. Non solo per noi, ma per gli spettatori, perché è il pubblico ad avere bisogno di un racconto di sé più nuovo, più abitato dalla contemporaneità.

Nello stesso modo, non siamo noi – gli autori, i cineasti – ad aver bisogno dello Stato, ma è lo Stato che deve tornare a chiedersi se non abbia bisogno di noi: per sapere di nuovo chi siamo, dove siamo, come il paese può essere aiutato a ritrovarsi e a crescere.

Vi ricordiamo, per concludere, quanto il mondo del cinema e della TV e del teatro e della letteratura aveva scritto un anno fa, in occasione di una grande allegra manifestazione: «Crediamo che lo Stato abbia l’obbligo di assicurare ai propri cittadini il diritto di accedere alla più ampia varietà possibile di opere – nazionali e internazionali, commerciali e ‘di nicchia’, di qualità e di intrattenimento, di documentazione e di ricerca, restituendo al cinema e alla TV un ruolo di arricchimento culturale. Negli ultimi anni questo diritto si è indebolito, riducendo la libertà di scelta per autori e fruitori, semplificando i messaggi trasmessi alle giovani generazioni, impoverendo intellettualmente e umanamente tutta la collettività».

È da qui che pensiamo si debba ricominciare. Sediamoci, parliamo.

Articolo tratto da: CritamorCinema
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