Biblioteche viventi, Pirandello e il drammaturgo Liv Ferracchiati. Sei regioni al lavoro per raccontare le storie perdute dei territori.

Da “Ciascuno a suo modo” dello scrittore siciliano Pirandello ai “libri umani”, l’originale progetto di Oltre le parole sostenuto dal Ministero della Cultura (“progetto speciale 24”) toccherà sei città con diverse compagnie. Un lavoro corale con tappa finale ad Agrigento capitale italiana della cultura 2025.

Call aperta per candidarsi come narratori (vedi più in basso).

Nell’epoca delle opinioni espresse e brandite compulsivamente, nel tempo dei like facili, il testo di Luigi Pirandello “Ciascuno a suo modo” ci si rivela – come accade ogni volta che ci accostiamo al grande scrittore e drammaturgo – di una sorprendente attualità. Scritto e andato in scena esattamente cento anni fa, oggi il copione è al centro di un itinerario artistico e socialesostenuto dal Ministero della Cultura – Progetti speciali 2024 Teatro, ideato dall’associazione Oltre le parole (teatrocivile.it) e in partenza a settembre. Pirandello scrisse quest’opera dopo l’incontro con Jacob Levi Moreno ideatore dello psicodramma ed essa contiene chiari influssi moreniani, non soltanto il nome della “signora Moreno” dato a uno dei personaggi.

Liv Ferracchiati (foto di Mario Zanaria)
Liv Ferracchiati (foto di Mario Zanaria)

La “riscrittura” dell’opera è affidata al giovane drammaturgo e regista Liv Ferracchiati (tra i suoi ultimi lavori, La morte a Venezia ha debuttato a luglio scorso al Festival dei due mondi di Spoleto). “Il centro tematico – spiega – è questo: il reciproco influenzarsi della realtà e dell’arte. La mia riscrittura si incentra sulla coppia, reale e di finzione, e la storia viene poi raccontata da personaggi-narratori che danno voce alla pluralità originaria. Mi affascina molto il rapporto tra arte e realtà. Mi appassiona come la finzione, quindi il dato artistico, influenzi la realtà. Spesso ci si sofferma su come la vita sia di ispirazione all’arte, ma quanto l’arte può influenzare la vita?”.

Partendo dal teatro nel teatro pirandelliano, il progetto trova punti di connessione con le vite di persone comuni le quali, ognuna portando il proprio punto di vista, diventerà un libro aperto narrante la propria storia. Lo si farà a partire dall’autunno in sei città di sei regioni con i professionisti di sei diverse compagnie teatrali: lo stesso testo è portato in scena contemporaneamente da:

  • Oltre le Parole a Roma,
  • Compagnia Ex-Novo a Fano,
  • Compagnia STA a Prato,
  • Compagnia Monolocale a L’Aquila,
  • Teatro dei Fliaci a Cosenza,
  • I vetri blu ad Agrigento.

Accanto alla messa in scena di “Ciascuno a suo modo” rivisto da Ferracchiati, su ognuno dei territori si svolgerà una sperimentazione che punta sul rapporto tra attore/narratore e spettatore/uditore; nella modalità, si ispira alle human library nate un quarto di secolo fa in Danimarca come risposta a gravi episodi di razzismo per sfidare stigma e stereotipi: le “biblioteche umane” – gente comune di ogni provenienza sociale, economica e culturale, autoctona e non – saranno volontari disponibili, proprio come un libro aperto, a raccontare storie e luoghi attraverso il filtro del proprio vissuto. In una società dove la velocità rischia di triturare esperienze e contesti, questa modalità di narrazione implica un ascolto profondo e permette di far circolare storie, idee e visioni destinate altrimenti a disperdersi.

L’intuizione di connettere le human library al testo pirandelliano si deve a Pascal La Delfa (vedi intervista più in basso), attore e regista, da decenni impegnato nel teatro in ambito sociale, presidente di Oltre le parole e direttore artistico del progetto: “In un’epoca di social, è necessario che il teatro ritorni ad essere catalizzatore di incontri, di scambi, di contaminazioni: che torni a raccontare, a tu per tu, piccole storie uniche e sorprendenti. Ci fa piacere che l’iniziativa, oltre al contributo del MiC, stia raccogliendo adesioni e sostegni anche da enti, istituzioni e realtà locali, nei diversi territori coinvolti”.

Anche i luoghi saranno non convenzionali: non teatri, ma ogni luogo in cui l’umanità possa organizzare uno spazio scenico per raccontarsi e in cui gli spettatori occasionali siano invogliati a fermarsi. Tappa finale sarà Agrigento a fine dicembre: un omaggio alla città capitale italiana della cultura 2025, nel segno del suo più illustre rappresentante.

Aperte le candidature per le human library

Chi desidera candidarsi per partecipare al progetto come “libro vivente” può visitare questa pagina: www.teatrocivile.it/ciascuno-a-suo-modo. Saranno selezionati dai dieci ai quindici narratori/narratrici per ogni territorio, che avranno la preziosa opportunità di formarsi con attori professionisti.

Contatti con la stampa

Elisabetta Proietti
Tel. 329.6214465
comunicazione@teatrocivile.it


Intervista a Pascal La Delfa,
direttore artistico “Ciascuno a suo modo”

Noi, le nostre opinioni e le ragioni degli altri. Le storie come pietre d’inciampo.

Pascal La Delfa, che cos’è questo progetto riconosciuto dal MiC tra i “progetti speciali 2024”?

Pascal La Delfa
Pascal La Delfa

Ammetto che possa sembrare strano il mischiare un autore classico con un’idea così moderna come le “human library”. Ma, guardando bene, non è così: il testo di Pirandello, molto all’avanguardia per i suoi tempi, partiva proprio dalla strada, dagli strilloni che vendevano i giornali, che sono un po’ i nostri social di oggi, fatti per attirare l’attenzione del “passante”, di stimolarne una curiosità su fatti di cronaca anche superficiali. Sotto quella superficie, c’era qualcosa di ben più profondo e denso. Pirandello non dà risposte, ma si limita a constatare, a dimostrare, a suggerire, che non solo cambiare punto di vista è fondamentale per comprendere qualcosa in toto, ma che addirittura si possono cambiare le proprie radicate idee ed opinioni senza per questo sentirsi dei “traditori”. Ritengo che in un mondo che ci continua a chiedere di schierarci davanti a ogni cosa come a un derby di calcio, che non ammette la possibilità si sentire le ragioni dell’altro, che cerca la risposta facile e preconfezionata, sia bene poter trasmettere il valore delle sfumature, gli infiniti colori tra il bianco e nero e la possibilità di mettere in gioco le proprie opinioni e conoscenze, a patto che si abbia voglia di conoscere (con la fatica che ne consegue).

Perché una riscrittura di Pirandello? Qualcuno non la vedrà come un’azione sacrilega?

Innanzitutto non è una vera e propria riscrittura, ma un lavoro ispirato alle tematiche del testo originale. Pur con la bravura e la versatilità di Liv Ferracchiati, sarebbe impensabile ridurre un testo di “due atti forse tre” e di decine di personaggi dell’opera originale alla formula immaginata per il nostro progetto: ovvero solo quattro personaggi e una durata complessiva che non andrà oltre i 45 minuti. D’altra parte, questo testo centenario è uno dei meno noti e rappresentati dell’autore mio conterraneo: vuoi appunto per il numero dei personaggi, vuoi per la complessità dell’opera stessa (“la più ingarbugliata che abbia mai scritto”, diceva lo stesso Pirandello), nonostante faccia parte della celebre trilogia del “teatro nel teatro”. Vorrei stimolare la rilettura di questo testo misconosciuto e rispolverare la sua genesi: non è infatti molto nota la vicenda dell’incontro tra Pirandello e Moreno (allievo di Freud nonché fondatore dello Psicodramma), tanto importante che nel testo originale uno dei personaggi (che abbiamo mantenuto nella riscrittura) porta il suo nome. Un’occasione per tornare ad approfondire il pensiero di due grandi personaggi che hanno segnato pagine fondamentali nei rispettivi campi d’azione.

Perché ha chiesto al giovane drammaturgo Liv Ferracchiati di confrontarsi con questo lavoro?

Il primo motivo è la sua giovane età: sento sempre il bisogno di confrontarmi con artisti che possano portare quella freschezza che ritengo essenziale per arieggiare, in contrapposizione a certe produzioni teatrali che sanno di naftalina. Nel contempo, Ferracchiati non è uno sperimentatore di quelli che oggi più che mai si vedono in giro con una finta aria di svecchiamento del linguaggio teatrale, autori che puntano più sull’effetto wow che allo spessore dei testi e ai risultati che coinvolgano davvero lo spettatore. La sua scrittura è moderna e non banale, non affettata né effettata. Inoltre, Liv si è già misurato egregiamente con riscritture/reinterpretazioni di autori classici, uno su tutti Cechov. Tra le persone che avevo immaginato per il nostro progetto, è stato il primo a cui ho pensato: nonostante non ci conoscessimo, ha avuto una particolare cura nell’ascolto del senso del progetto e si è immediatamente appassionato all’idea. Oltre alla sua indubbia bravura, ho apprezzato molto la sua onestà, la sua chiarezza. Questa apertura rispecchia molto l’idea di dialogo, ascolto, empatia che ho: molto lontana dalla patina edulcorata con cui si abusa di questi termini.

Perché proprio “Ciascuno a suo modo”?

Oltre ai motivi appena citati, il centenario della scrittura e messa in scena del testo mi è sembrata una bella congiuntura. Originariamente il progetto era nato con un altro testo di Pirandello, ovvero “Quando si è qualcuno”, per rafforzare l’idea delle human library, cioè la narrazione simmetrica e opposta di “quando si è qualcuno”: storie di perfetti sconosciuti. Ma quando, indagando sulla genesi del testo centenario, ho scoperto la sua bellissima storia poco raccontata, ho trovato che “Ciascuno a suo modo” potesse essere ancora più pertinente rispetto all’idea iniziale. Questo accade quando si cammina per i viottoli della curiosità, anziché nelle autostrade delle certezze.

Da dove nasce l’intuizione di connettere la poetica pirandelliana con le human library?

Pirandello è per antonomasia il “così è, se vi pare”. La verità è molteplice, non esistono certezze inconfutabili. E non esistono neanche “buoni o cattivi” a prescindere. Le nostre convinzioni possono essere sempre messe in discussione, il dubbio sano (quello che fa crescere e non quello distruttivo) è sempre un motore che vivifica. Un episodio particolare del testo di Pirandello è quello in cui due personaggi, scontratisi la sera prima per le proprie idee, il giorno dopo si incontrano avendo cambiato idea entrambi: il magnifico paradosso letterario vuole che gli stessi finiscano per andare a duello per sostenere uno le tesi dell’altro! Ci auguriamo che chi ascolterà i libri viventi possa non andare a duello ma certamente sviluppare un’empatia vera: un pregiudizio che potrà essere intaccato, una scoperta che susciterà curiosità, una storia che toccherà nel profondo.

Narrazione dei territori, voce alle persone. Quali risultati attesi?

Innanzitutto una attenzione diversa al potere della narrazione. Siamo stati sommersi dall’usa e getta dei social e abbiamo quasi dimenticato la forza delle narrazioni in presenza, il loro potere evocativo, la multidimensionalità e multisensorialità. Non è una battaglia contro i social, beninteso. Ma è darsi un’opportunità che non va smarrita, anzi recuperata e valorizzata: i social sono più veloci, trasversali, economici e “virali”, ma non è detto che questi siano tutti valori positivi o quantomeno gli unici da tenere presenti come parametri della comunicazione. Poi ci saranno delle storie che vedranno finalmente la luce e avranno la loro occasione di riscatto. E con esse, le persone, persone vere e non algoritmi che si metteranno in gioco a narrarle. Dall’altra parte, cittadini e cittadine che ascolteranno, ci si augura con una attenzione “diversa”. Il nostro progetto vuole fare innamorare, incuriosire, “inciampare” gente comune che possa trarre nuovi stimoli dagli incontri. Se avessimo un ascolto, a nostra volta, da parte di istituzioni, associazioni e realtà varie del territorio, la ricaduta potrebbe essere una “buona pratica”, un “bene comune”. Il progetto può essere valido a tutte le età, per la sua versatilità.

Con il suo lavoro lei è attento all’effetto moltiplicatore e al rapporto tra azione e coinvolgimento degli abitanti di un territorio, si può dire che questa è una cifra distintiva di ogni suo lavoro. Quale valore c’è in questo modo di procedere?

Nelle mie attività ho incontrato e continuo a incontrare migliaia di persone. Quello che mi colpisce sempre sono almeno due cose: ciascuno ha delle storie personali/familiari profonde, interessanti e uniche. E la stessa cosa capita per le esperienze e competenze: professionali, artistiche, artigianali, umane… È davvero innaturale che in questo scorrere continuo nel magma della narrazione che fanno i media, i social, ci si senta comunque incompiuti, inferiori, inadeguati. Così come si sta allargando il divario tra benestanti e malestanti, si allarga il divario tra narcisisti e depressi, tra rampanti e arrendevoli. Se lo “stare bene” un tempo era un cammino di conquista fatto nel dipanarsi della propria vita, adesso siamo bombardati fin dalla nascita da stimoli che continuano a proporci modelli spesso irraggiungibili, accanto al senso di impotenza per quanto di male accade nel mondo. Questo ci porta all’isolamento e all’omologazione, magari con l’illusione di avere cinquemila “amici” e centomila follower. È uno stato a rischio di frustrazione, oltre all’innaturalezza dell’umano animale sociale e non social.

Poi grazie all’arte, al teatro, al gioco, le persone cambiano velocemente e radicalmente i pregiudizi, i luoghi comuni, a volte persino le idee. E, pretendo di immaginare, in maniera positiva: mai guerrafondaie, spesso collaborative, comprensive, inclusive. Che non vuol dire idee buoniste.

Abbiamo bisogno di “ragioni” che prendano avvio da un sommovimento interno. Perché io so tutto di come si è formato il pianeta Urano e non so nulla della storia del mio territorio? Perché conosco la storia dei Sumeri e non conosco gli avvenimenti che hanno portato al governo attuale della città in cui vivo, alle leggi, alle modalità di accesso alla sanità o alla scuola? Tutto questo mi sembra innaturale. La storia va raccontata in altra maniera, per non perderne la memoria: iniziare dal presente per tornare a ritroso nel passato. Così si attiverebbe un interesse diverso e sicuramente una consapevolezza più attinente al quotidiano. Il mio modo di procedere è dunque quello di connettersi al presente, a quello che si è, oltre quello che si ha.

Lei ha scritto un libro dedicato al rapporto tra teatro e sociale e lavora da anni per il riconoscimento dell’operatore di teatro in contesti di disagio. La pratica teatrale fa la differenza?

Non potrei dire il contrario in nessun modo, per i risultati che ho visto e che immagino. E poi non lo dico io. Ogni tanto qualche ministro scopre che fare teatro a scuola è necessario, ogni tanto qualcuno si ricorda delle esperienze di Orazio Costa e del Mim di Firenze, o della storia del Piccolo di Milano dopo la guerra, o di Basaglia e il suo Marco Cavallo, di Giuliano Scabia… Insomma dati ne abbiamo e tanti. Il teatro è pure una pratica a basso costo, facilmente realizzabile, agevolmente replicabile… L’unico motivo che vedo per non applicarla sistematicamente (e professionalmente, senza affidarsi all’approssimazione) è che aiuta a conoscere e conoscersi meglio, a pensare e a fare gruppo. E questo può essere sovversivo. Sono necessarie azioni strutturate perché si usi la buona pratica del teatro come strumento di evoluzione.

Il progetto “Ciascuno a suo modo” poggia sul lavoro di tante compagnie teatrali con attori e attrici professionisti/te. Lei che mette in rete territori anche molto diversi tra loro, si è fatta un’idea di come sta il teatro oggi in Italia?

Qui torna il discorso della “forbice”. C’è un teatro classico, che alterna stanche e immote repliche di autori del passato (o anche di autori e registi contemporanei che scrivono e mettono in scena con stili dello scorso millennio) ma che ha spettatori altrettanto datati, quasi nostalgici: d’altronde siamo il secondo Paese più anziano del mondo e questo primato anagrafico forse si rispecchia anche nelle modalità di approccio culturali e artistiche. Vedi quello che ti aspetti di vedere, che magari hai già visto o letto, e quello che rimane è un commento sulla scenografia, i costumi o il physique du rôle di certi/e interpreti. Con la buonanotte della regia e del testo. Poi c’è un teatro figlio della sperimentazione degli anni Settanta, spacciata ancora come innovativa ma che invece è già storia: mettere in scena performance più che testi, che ammicchino alla provocazione più che all’introspezione, che del valore sociale e culturale del messaggio teatrale non hanno più nulla, perché la confezione è più importante del contenuto, che non ti lasciano nulla come spettatore, perché il mondo è cambiato ma i meccanismi del controllo delle masse sono rimasti uguali, anzi probabilmente sono peggiorati con la finta libertà di internet.

E infine ci sono altre realtà: non solo giovani volenterosi e preparati che hanno una formazione “cross- over”, una professionalità elevata e la capacità di resistere alle sirene mediatiche, ma anche compagnie, gruppi di lavoro o singoli che portano avanti il lavoro come botteghe di artigiani: piccoli gioielli che non trovi nei cataloghi mediatici e raramente nei cartelloni dei teatri di giro, ma che – se ti capita di incontrarle – ti svelano il valore profondo del teatro. Questi gruppi di lavoro a volte puoi trovarli nel teatro cosiddetto sociale, integrato e di comunità. Ecco, “comunità” è una parola che andrebbe svecchiata e rimodulata. Il teatro è comunità, gruppo con rispetto del singolo e ampiezza dello sguardo, con una capacità di comprensione che andrebbe seminata, coltivata, innestata.

La parola “comunità” è al centro di “Ciascuno a suo modo”…

L’avventura non è semplice: vogliamo fare teatro ma fuori dai teatri. Vogliamo raccontare storie a spettatori che non sono spettatori abituali. Vogliamo parlare di cultura alla gente comune. Un progetto che scardina i cardini: il mediterraneo Pirandello del Novecento mescolato a una pratica del terzo millennio nata nel Nord Europa… Visionario, incosciente da parte nostra, ma anche coraggioso da parte del Ministero della cultura che ha sposato l’idea. Stiamo riscuotendo una curiosità e un interesse sorprendenti: non solo le persone che avrebbero storie da raccontare, ma anche le istituzioni, le associazioni del territorio, le aziende locali che vedono l’originalità del progetto e la possibile replicabilità e contaminazione. La trasversalità degli argomenti è un altro punto che suscita interesse: sociale, cultura, storia, geografia, memoria, inclusione, formazione, umanità… Non un progetto fine a se stesso, ma un progetto che regaleremo alle comunità locali. Le associazioni, le compagnie, le istituzioni locali potranno continuarlo in seguito, anche senza di noi, adattandolo alle risorse e necessità locali. Questo piantare un seme è un piccolo sogno ma anche una missione. Sarebbe bello, infine, poter trarre un “sunto” di questa esperienza: un video-documentario, un libro, un podcast.