Alessandro Rivali, Il mio nome nel vento. Storia della famiglia Moncalvi, Mondadori, Milano 2023, pp. 264, € 18,50, isbn: 9788804746560

Alessandro Rivali è uno dei migliori poeti dell’attuale generazione. Tre le raccolte maggiori: La riviera del sangue (Mimesis, 2005), La caduta di Bisanzio (Jaca Book, 2010), La terra di Caino (Mondadori, 2021). Organizzate secondo un chiaro disegno poematico, al centro sempre il mistero del male che opera nella storia; ma al collasso delle civiltà in fiamme si oppone la speranza dei custodi della pietas, che impediscono l’annientamento definitivo.

Oggi (ma il concepimento e l’elaborazione sono durati anni), per la prima volta Rivali si addentra nei territori della narrativa, e lo fa con il passo sicuro del grande romanziere. La violenza del male nella storia è ancora centrale, ma a partire da una storia “personale”, quella della sua famiglia (narrativamente trasfigurata – ma non troppo – in quella dell’immaginaria famiglia Moncalvi). L’innesco di tale creazione risale al fascino bambino dei racconti ascoltati da suo padre Augusto. E quella di Augusto è la voce narrante che in queste pagine rivela sé stesso e un tratto cruciale della nostra storia recente: 1936-1946.

Il periodo dei fatti è uno di quelli in cui la storia non concede tregua. La famiglia, da Genova si era avventurosamente trasferita a Barcellona, dove aveva fatto fortuna. Il racconto di Augusto bambino ha una data di inizio: il 18 luglio 1936, al divampare della guerra civile. Come avverrà anche per la successiva guerra civile italiana, Rivali ne ricostruisce alla perfezione il clima di sospetto, di efferatezze, di saccheggi. E lo fa senza alcuna retorica ideologica, sulla scorta di un lungo studio della “storia maggiore” e di quella familiare, grazie anche a un ritrovato baule di documenti e al diario della sorella del protagonista. In quella notte la famiglia Moncalvi perse tutto, ma ebbe salva la vita grazie al piroscafo “Principessa Maria” mandato dal governo a trarre in salvo gli italiani intrappolati nella città catalana.

Di grande e appassionata bellezza le pagine che ritraggono Genova, la città originaria eppure mai conosciuta dai tre fratelli Moncalvi: Augusto, il più piccolo, l’inquieto Carlo e Giulia, la sorella maggiore, la cui figura, nel corso della narrazione, acquisisce uno spessore umano sempre maggiore. Alla morte precoce dei genitori «Giulia aveva guidato la famiglia nella tempesta» (p. 226).

Passano pochi mesi e ora è la guerra mondiale ad azzannare la vita degli uomini. La famiglia si ritira nell’Oltregiogo, a Rovereto di Gavi, da cui non si vede il mare ma sì, si intuisce il bagliore di Genova infiammata dalle bombe. Ma dopo qualche mese di tregua, la guerra raggiunge anche quei luoghi: la principale via di comunicazione tra Genova e Milano è un’osservata speciale sia per i germanici che per gli alleati. Finché la guerra giunge in casa: un distaccamento di soldati tedeschi sceglie proprio la bianca villetta sulla collina come acquartieramento. Augusto non è più un bambino, ora: ha quattordici anni, un’intensa passione per lo studio e un giovane amore nel cuore. Mesi terribili di lotta e di morte, osservati con occhi dilatati e attenti, colmi di fatti. Anche in questo caso, lo dicevo, nessuna retorica e nessuna forzatura ideologica. Piuttosto, nel cantiere della scrittura, giorni di andirivieni a incontrare chi ancora ricordava.

Non si faccia dunque l’errore di considerarla una delle tante saghe familiari. E neppure memorialistica. È vera letteratura, con un’appassionata sete di verità (sull’animo umano, prima ancora che sui fatti); pagine colme di umanità e di pietas: dove l’orrore grandeggia anche l’umanità rifulge con maggior forza. Rivali, dopo la dedica (a suo padre Augusto, naturalmente), appone in esergo un diamante de Il partigiano Johnny. Beppe Fenoglio, molto amato e a lungo studiato da Rivali, è forse il più grande narratore del Novecento italiano. E la sua prosa è modello di limpidità, di esattezza, di oggettività. In modo diverso, personale, queste stesse caratteristiche possiede la prosa di Rivali. C’è, mi pare, qualcosa di autobiografico nell’osservazione del protagonista che sul piroscafo che si allontana da Barcellona osserva una cerchia di persone rapite dal racconto di uno dei fuggiaschi: «Anni dopo avrei compreso la forza delle parole. Chi parla bene tocca le anime, cambia i destini» (p. 53). Davide Brullo, in una recensione apparsa sul “Venerdì di Repubblica” dice dell’autore che «dimostra di credere nell’arte ardita e lenta del narrare». Sono, in effetti pagine di grande potenza espressiva e di vasto respiro, tanto lavorate da apparire naturali; e di tale efficacia espressiva da coinvolgere in maniera trascinante il lettore.

Se, a lettura del romanzo conclusa, si tornano a leggere i suoi versi, è facile capire come quasi ogni pagina del libro abbia radici profonde, lungamente lavorate nella riflessione e nella contemplazione. Giuseppe “Yusuf” Conte, scrittore e poeta di incontestato valore, ha firmato la prima recensione del romanzo di Rivali, pubblicata su “Il Giornale” il giorno stesso dell’uscita del volume in libreria (lo scorso 4 luglio). La chiude su queste parole: «Si afferma come un romanzo nuovo, sorprendente, necessario, che solo un poeta poteva scrivere». Difficile dargli torto.