Nel 1920, quando fu dato alle stampe Così per ridere, le agitazioni sociali nelle campagne e nelle città che avevano avuto inizio nel 1919 stavano proseguendo con pari intensità. Nel marzo del 1920 nasceva la Confederazione Generale dell’Industria e si assisteva ad uno dei maggiori scioperi industriali il 22 marzo alla Fiat, lo sciopero che fu poi ricordato come lo sciopero “delle lancette”. Nella Breve autobiografia – che chiude il volume – indirizzata a Cavacchioli, Mariani afferma che intende esprimere la propria visione del mondo attraverso una «letteratura di pensiero».
«Io, per conto mio, intendo che la mia arte sia una battaglia per le mie idee e che in ogni mio scritto, romanzo, novella, verso, saggio, le mie idee stiano ben chiare in primissimo piano».
Ma le idee politiche di Mariani, alimentate ovviamente dalla situazione di cambiamento sociale che si andava delineando, apparivano tuttavia incoerenti e velleitarie; propugnava certamente la distruzione della società borghese e capitalista, attraverso il superamento della morale cristiana che la società industriale cercava di fare propria. Ma nella sua narrativa tutto questo appare irto di contraddizioni delle quali il Mariani sembra a volte non rendersi affatto conto, forte soprattutto del successo di pubblico e di vendite. Scrive infatti, ancora nella Breve autobiografia che chiude il volume:
«Bisogna considerare che le università, gli istituti tecnici commerciali e i licei d’Italia, buttano sulle strade ogni anno sessanta o settanta mila persone che hanno una laurea e una cultura sufficiente per giudicare un libro e un autore. […] Ora, quando questo pubblico colto seguita a comprare i miei libri, vuol dire che li ama. E siccome i miei lettori sono diecine di migliaia e in quel pubblico si reclutano, e il loro amore è senza preconcetti e senza secondi fini, io m’attengo al loro giudizio, senza lasciarmi impressionare dagli schizzi di bile degli imbecilletti critici di gazzette da due soldi.»
Ma non si può certo affermare che le idee politiche di Mariani fossero, nel 1920, una novità, e lui stesso ne è consapevole. Infatti difendendosi dalle critiche afferma di non «averle enunciate, ma difese». Nello scritto già citato diretto a Cavacchioli polemizza con Lazzeri che aveva scritto un testo per presentare Mariani (testo che può essere letto in questa biblioteca Manuzio); ma le perplessità verso l’opera di Mariani non provenivano solo da Lazzeri ma anche, per esempio, da Leonida Repaci che pare fosse anche suo “fraterno amico”. Scrive Repaci, a firma Gamelin, su “Ordine nuovo” del 2 giugno 1921:
«Per quel che riguarda la critica estetica un giudizio completo e definitivo sull’opera di Mariani è giocare d’azzardo. È meglio aspettare. E questa riluttanza giova allo scrittore, perché gli riconosce una possibilità di sviluppo. Egli deve purificare il suo mondo estetico. Ci sono troppi filamenti nella sua capacità di espressione. La sua visione è torbida, discontinua. I suoi tipi non sono il frutto di una sintesi che si risolva in un equilibrio, L’equilibrio deve essere nella mente del burattinaio prima che nei burattini. Se il capo non ha potenza di dominare la carnevalata, diventa lui stesso una vittima.»
In altra sede lo stesso Repaci affermò che il Mariani coltivando nel contempo filosofia ed arte correva il rischio «di essere un signore del dilettantismo» in entrambe. Certamente la lettura di Così… per ridere aveva contribuito non poco a formare queste convinzioni del Repaci. Nei racconti e nei due romanzi brevi che compongono questa raccolta vediamo infatti che l’impostazione programmatica di Mariani, tesa a voler approdare a una narrativa priva di descrizioni e ricca di idee, vacilla parecchio perché ci imbattiamo in pagine che sono invece ricche di descrizioni di matrice smaccatamente ottocentesca e permeate di un decadentismo esibito spesso con poco gusto. Nel romanzo breve L’eredità dispersa – che induce chi legge ad un immediato confronto con Il Piacere di D’Annunzio – un gruppo di signore dell’alta società, radunate in una lussuosa villa sul mare, e per quanto isolate toccate dalle vibrazioni, se pur molto attenuate, della rivoluzione bolscevica, ascoltano i racconti di Donna Amalia Montaspro. Sono racconti delle infedeltà reciproche di Donna Amalia stessa e del di lei marito.
Il racconto prosegue poi con la vicenda di Gedda di Villarena e della sua storia d’amore con il cugino del marito Giannetto Lauria, malato di tubercolosi. Porto ad esempio questo breve romanzo per sottolineare la poca coerenza dell’autore che usa questi racconti di Donna Amalia per formulare una generica condanna della borghesia e aristocrazia ricca e della sua scarsa moralità, alla quale si contrappone l’idea che l’autore vorrebbe proporre dell’amore e dell’onestà. Lo stile è scorrevole e la capacità dell’autore di tenere desta l’attenzione e l’interesse di lettrici e lettori è fuori dubbio. Se Mariani non avesse voluto in quella sorta di postfazione già citata rivendicare la sua battaglia per le idee rivoluzionarie, perché davvero riesce difficile comprendere come possano essere considerate “rivoluzionarie” queste trame e questi personaggi, potremmo tranquillamente presentare questi testi come esempio riuscito di letteratura d’appendice.
Ugualmente interessante – ma ugualmente lontanissimo dal poter ricercare in questo spunti innovatori o rivoluzionari – è il racconto Il superbo volo delle aquile latine, dove l’idea rivoluzionaria dovrebbe trovarsi nella spiegazione che viene data del suicidio del protagonista come conseguenza della disfatta di Caporetto, da dove è fuggito; ma il padre era fuggito a Custoza, il nonno a Novara, il fratello ad Adua. Gli italiani che in testi precedenti di Mariani, che già abbiamo proposto in questa biblioteca Manuzio, apparivano eroici e disposti al sacrificio, appaiono adesso come vigliacchi in fuga e suicidi per disperazione. Per concludere, certamente Mariani scriveva di fretta e probabilmente non rileggeva. Le contraddizioni e le incoerenze narrative si sprecano. Cito solo la più clamorosa, nel racconto Assassini, dove troviamo una donna in ospedale con questa situazione: «La testa era fasciata da un gran turbante di ovatta e garza. Dalle bende, sulle tempie […]» ma meno di due pagine dopo apprendiamo che deve subire un’operazione «poco sotto il cuore» per estrarre un proiettile mentre un altro «ha sfiorato la testa»…
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del primo racconto Il funerale di Pierrot:
Squillò nella camera alta, tinnulo un singhiozzo di pianto. Dalla bifora gotica si sporse una pallida faccia, un seno giovane si piegò sulla balaustra fra i ciuffi rossi dei gerani e una voce femminea dolorosa disse nell’imbuto del cortile:
— Colombina! Colombina! È morto Pierrot!
E Colombina corse, si sporse, alzò la faccia verso il balcone di Pierrette e rise a gola piena:
— Non è vero. Menti. Non è vero, non è vero. Bugiarda! Vuoi ferirmi perchè m’ama. M’ama, m’ama, m’ama.
Ma Pierrette singhiozzò:
— No, no, no. Gelosa e cattiva sei. T’amava e m’amava. Pierrot è morto.
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