Quanto dell’opera monumentale, che doveva essere stata in origine di almeno 16 libri, probabilmente 24, è giunto fino a noi, sopravvivendo ai molteplici interventi di censura degli amanuensi, non ci consente di ricostruirne la trama complessiva; il solo XV libro ci è pervenuto integralmente, assieme a frammenti del XIV e del XVI.
La parte a noi nota può essere suddivisa in tre sezioni: le avventure iniziali e la vendetta di Priapo; la cena di Trimalcione; l’incontro con Eumolpo, il viaggio in mare, il naufragio e il soggiorno a Crotone.
La trama del romanzo greco, cui il Satyricon s’ispira, poneva al centro delle vicende un giovane ed una giovane innamorati che, separati dalla sorte avversa, affrontavano una serie di peripezie per riuscire, alla fine della vicenda, a ricongiungersi. Qui viene ripresa, ma con intento parodistico: i protagonisti sono ora tre giovani uomini, Ascilto, Encolpio ed il suo schiavo Gitone, conteso dai due amanti in un tormentato triangolo amoroso che spesso sfocia nella violenza verbale e perfino fisica.
La vicenda è narrata in prima persona da Encolpio, che alcuni critici, fra i quali il traduttore di questa edizione dell’opera, l’erudito milanese Vincenzo Lancetti, vedono come un alter ego dell’autore. Secondo il latinista contemporaneo Gian Biagio Conte, invece, Petronio non può riconoscersi in Encolpio, «piccolo avventuriero spiantato, ladruncolo senza scrupoli e fors’anche malfattore, scholasticus velleitario», un mitomane che tende in tutte le sue avventure a riconoscersi in un personaggio celebre della storia o della letteratura. Egli vede uomini e situazioni con sguardo ingenuo, ben diverso da quello del lettore e dello stesso autore, dimostrandosi, secondo Conte, «lo strumento principale del rovesciamento parodico che Petronio opera nei confronti del romanzo d’amore e d’avventura in cui ha deciso di farlo muovere e vivere.» È quindi un antieroe, totalmente privo di valori come la castità e il coraggio, che costituivano i caratteri salienti degli eroi di poemi epici e romanzi.
L’inizio del romanzo, d’impronta picaresca, vede i tre personaggi in continuo movimento, dediti al furto ed alla lussuria e travolti da una frenetica sequenza di colpi di scena. Encolpio, proprio quando si sente al sicuro e crede di non essere più perseguitato dalla sfortuna, incappa in nuove disavventure: furti, risse, aggressioni sessuali subite o sventate, pestaggi, frustate…
Ad un incipit tanto dinamico che il lettore fatica a star dietro ai personaggi, subentra la staticità nel momento in cui Ascilto ed Encolpio, accompagnati da Gitone, entrano nella casa di Trimalcione per partecipare a quella cena che costituisce la parte più celebre del Satyricon, non a caso l’unico libro dell’opera pervenutoci integralmente. Il distacco con cui Petronio, l’arbiter elegantiae, guarda al mondo volgare dell’arricchito milionario si palesa già prima dell’ingresso nel palazzo non attraverso giudizi (abbiamo visto che il narratore non coincide con l’autore), ma nell’aggettivazione antifrastica, qui sotto particolarmente evidente in “splendidezze“, per descrivere l’immagine grottesca di un anziano che gioca goffamente a palla con due bambini, e, di nuovo “splendidissimo“, riferito a Trimalcione, colto in un atteggiamento non certo edificante.
«… un vecchio calvo vestito di un palandrano rossiccio, che stava giocando alla palla con alcuni fanciulli a lunghi capegli. Nè furon tanto i fanciulli, che a quello spettacolo ci trattenessero, sebben degno ne fosse, quanto quel nonno che alla palla esercitavasi coi calzari… Intanto che ammiravamo cotai splendidezze, Menelao venne a noi dicendo: questi è colui, presso il qual mangerete. Non vedete voi che così principia la cena?… Ancor discorrea Menelao, quando lo splendidissimo Trimalcione fe’ scoccare i suoi diti, e a questo segno l’eunuco mise una mastelletta sotto al giocatore, il quale scaricovvi entro la vescica, poi chiese l’acqua alle mani, e i diti appena umidi sul capo di un ragazzo asciugò.»
L’ostentazione della ricchezza del parvenu Trimalcione balza agli occhi già all’ingresso del palazzo, dove anche gli oggetti d’uso comune sono di metalli preziosi:
«Stava sull’ingresso un guardaportone vestito di verde chiaro con una cintura color di ciriegia, il qual mondava piselli in un catino d’argento. Pendeva poi sopra la soglia una gabbia d’oro, dalla quale una gazza vario-pinta salutava i concorrenti.»
Imperdibile la descrizione di Trimalcione nel momento in cui, quando già gli ospiti sono tutti presenti, fa il suo ingresso trionfale nella sala del banchetto: Petronio non delinea un ritratto compiuto del padrone di casa, ma preferisce soffermarsi su quelli che agli occhi di un esteta spiccano come i dettagli più significativi del suo aspetto.
«Stavamo tra queste morbidezze, quando Trimalcione portato a suon di musica, e collocato sopra piccolissimi guancialetti, trasse il riso di qualche imprudente. Perocchè gli spuntava la testa pelata fuori di un mantello di porpora, e intorno alla collottola carica di quel vestimento tenea una cravatta guernita d’oro, le cui estremità pendeano di qua e di là: avea pure nel dito mignolo della man sinistra un grande anello indorato, e all’ultimo articolo del vicin dito un meno grande tutto d’oro, come a me parve, ma saldato con de’ ferruzzi, in forma di stelle. E per non mostrarci queste ricchezze soltanto, e’ si discoperse il braccio destro, ornato di smanigli d’oro legati in un cerchietto d’avorio con alcune lamette lucicanti. Come poi con un ago d’argento ebbesi nettati i denti, miei amici, disse, non piacevami ancora di venire al triclinio, ma perchè la mia assenza non vi facesse troppo aspettare, ogni mio divertimento ho sospeso. Permettete però, ch’io finisca un mio giuoco. Avea dietro un ragazzo con uno sbaraglino di terebinto e con dadi di cristallo. Cosa poi sopra le altre delicatissima osservai, ed era, che in luogo di pedine bianche e nere usava monete d’oro e d’argento.»
Cattivo gusto, ostentazione della ricchezza, mancanza di quella raffinata educazione che era nota distintiva di Petronio (da notare, di nuovo, l’antifrastico superlativo, “delicatissima”, riferito alla scelta di sostituire alle pedine della dama “monete d’oro e d’argento”).
Anche i piatti portati in tavola mirano non a compiacere il gusto dei commensali, ma a stupirli con la rarità dei cibi e soprattutto con la loro presentazione:
«Tenne dietro agli applausi una portata, non sì grande a dir vero, quanto credevasi. La novitá tuttavia trasse gli occhi di tutti. Ella era in forma di una credenza ritonda, e aveva in giro le dodici costellazioni distinte, sulle quali il cuoco avea posto il cibo proprio o conveniente alla figura. Sull’Ariete i ceci di Marzo, sul Toro un pezzo di bufalo, testicoli e reni sopra i Gemelli, una corona sul Cancro, sul Leone un fico d’Africa, sulla Vergine una vulva di troia lattante, sulla Libra una bilancia, che da una parte conteneva una torta, e nell’altra una focaccia, sullo Scorpione un pesciolino da mare, che chiamano scorpione, sul Sagittario un gambaro marino, sul Capricorno una locusta marina, sull’Acquario un’anitra, sui Pesci due triglie. In mezzo poi v’era un cespuglio di erbe recise, con un favo di sopra.»
Ma non basta: fra una portata e l’altra, Trimalcione si compiace nel mostrare la propria cultura, dissertando di astrologia, e le proprie doti di poeta:
«Quando men tu gli aspetti
Nascono i strani effetti:
Che fortuna fa suoi
I nostri affari e noi.
Ma a che darci pensiere?
Versa, fanciul, da bere.»
La sua esibizione viene entusiasticamente applaudita dagli ossequienti commensali, troppo servili perfino per l’ingenuo Encolpio:
«tutti gli spettatori gridarono: oh dio! quant’è bravo! oh dio!….. E come fu portato intorno il ritratto di Trimalcione, che tutti baciarono, noi non potemmo sebben con rossore scansarcene »
Ampio spazio viene dedicato, nella descrizione della cena, ai cortigiani, che parlano fra loro spettegolando e lamentandosi della decadenza dei propri tempi, infarcendo i loro vuoti discorsi di luoghi comuni.
«Allora il milionario Enchione interrompendolo disse: io ti prego di parlar meglio. Or la va, or la viene, disse quel villano, che avea perduto il porco grigio. Quello che non avvien oggi avverrà dimani: così passa la vita. Non si potrà, perdio, dir migliore la patria, quand’anche avesse degli uomini; oh adesso ella soffre! non è sua colpa: noi non dobbiam essere sì dilicati. Tutto il mondo è paese.»
Fuggiti dalla cena, i tre protagonisti della prima parte riprendono il loro viaggio ed i conflitti fra Encolpio e Ascilto per il possesso di Gitone si inaspriscono fino a portarli ad una violenta rottura: si separano e Gitone sceglie di seguire Ascilto. Encolpio, in preda alla disperazione, incontra un vecchio poeta, Eumolpo, che diverrà con lui protagonista della terza parte. Ad Eumolpo viene affidata da Petronio la denuncia di un popolo romano decaduto in tutte le sue classi, e soprattutto in quelle dominanti: al civis (il cittadino impegnato nella vita politica), al miles (soldato valoroso) e alla mulier (donna virtuosa, dedita alla famiglia), figure portanti della società repubblicana, si sono sostituiti uomini e donne alla ricerca del lusso sfrenato, insaziabilmente dediti solo al cibo ed alla lussuria:
«Venal senato, popolo venale;
Chi più spende ha favor: anche ai vecchiardi
Venuta è men la liberal virtute.
L’autorità gli avidi sguardi volge
Sui diffusi agi, e per danar corrotta
Prostrata è sin la maestà latina.»
In questa società non trovano più posto le arti, e i pochi letterati rimasti sono al servizio dei potenti come giullari di corte o come strumenti di vendette personali e sbeffeggiati perfin dal popolino.
Eumolpo aiuta Encolpio e Gitone a salvarsi dalle conseguenze delle loro azioni con un’ennesima fuga, stavolta per mare (parodia in questo caso dell’omerico tema del viaggio), che appena si sono imbarcati li porta ad affrontare imprevedibili rischi, avventure e disavventure. Fortunosamente approdato a Crotone, proprio quando le vicende sembrano volgere al meglio Encolpio, precedentemente dedito ad una sfrenata attività sessuale, per vendetta di Priapo viene colpito da disfunzione erettile e sarà costretto a tentare ogni via per recuperare la propria virilità…
Il Satyricon è un prosimetro, un’opera, cioè, in cui, come nella dantesca Vita Nova, si alternano prosa e poesia. All’inizio, ad esempio, il retore Agamennone espone le cause della decadenza dell’oratoria in prosa e presenta i possibili rimedi in versi. Le composizioni poetiche possono essere inserite anche come commenti alle vicende avvenute (perfino alla disfunzione erettile, con un carme dedicato da Eumolpo allo scellerato colpevole):
«Fisso il nemico avea lo sguardo al suolo,
Nè a quel parlar più sollevava il volto
Di quel che faccia il salcio illanguidito,
O il piegato papavero cadente.»
Spiccano all’interno del Satyricon due composizioni in versi di maggiore ampiezza: la narrazione della guerra civile fra Cesare e Pompeo, poemetto incompiuto di Eumolpo, e quella della presa di Troia, forse parodia di un’opera scritta sullo stesso argomento da Nerone, recitata dal vecchio poeta per illustrare ad Encolpio, in una pinacoteca, un dipinto che aveva attirato la sua attenzione.
Non mancano, abilmente inserite nella cornice del romanzo (come avverrà poi nel Decameron di Boccaccio) lunghe novelle, sul modello delle Fabulae milesiae, la più celebre delle quali è quella della matrona di Efeso. Altro genere letterario cui s’ispira il Satyricon è la Satira Menippea, alla quale l’accomunano l’alternarsi di prosa e poesia, di crudo realismo e di satira sociale, di toni alti (il poemetto sulla guerra civile) e bassi.
In quest’edizione, il romanzo è preceduto da un’ampia introduzione di Vincenzo Lancetti, che presenta la propria come prima traduzione completa, f**edele e letterale sino allo scrupolo, del Satyricon. Inserisce infatti anche alcuni frammenti che lui stesso definisce di incerta attribuzione, le “aggiunte nodoziane“. François Nodot, ufficiale d’artiglieria, nel 1693 aveva pubblicato una traduzione in francese del cosiddetto Codice di Belgrado, che ebbe inizialmente molto successo. Alla richiesta da parte di alcuni latinisti dubbiosi di visionare il codice, aveva ripubblicato la traduzione con un testo latino a fronte, che agli studiosi, per il lessico utilizzato e soprattutto per i numerosi gallicismi presenti, era apparso subito non un manoscritto petroniano, ma una retroversione della traduzione in francese, realizzata dallo stesso Nodot. Nelle ultime pagine del volume il traduttore inserisce poi alcune proprie lettere di risposta ad osservazioni dell’abate Carlo Bologna sulla sua traduzione della novella della matrona di Efeso, dalle quali emerge un malcelato fastidio nei confronti della puntigliosità dell’interlocutore. Anche gli Editori, nella Prefazione, esprimono qualche riserva sulla traduzione, in particolare dei versi, ed alla lettura salta all’occhio un uso piuttosto disinvolto degli accenti (sù, quà, stà, sà… ) degli apostrofi (qual’è, un’uomo…) e della punteggiatura.
Perché leggere un’opera incompleta e così lontana nel tempo? Per vivere le mille avventure dei personaggi, ma soprattutto per riuscire a vedere con gli occhi di Petronius un mondo remoto, non privo tuttavia di riscontri nel nostro presente. Petronio con il suo Satyricon lancia una sfida al lettore, e Biagio Conte, identificando nel “gioco parodico“ la componente essenziale della “raffinatezza letteraria“ e della grandezza dell’opera, gli attribuisce un ruolo attivo e “ intelligente“.
«Senza un lettore competente la strategia ironica è solo avviata, ma non trova ancora la sua piena attuazione. Se corrispondere alle strategie dell’autore è il compito di ogni lettore intelligente, il sorriso d’intesa (che rende il lettore complice dell’autore) sarà sempre il miglior compenso per un lettore ironico. Impariamo anche noi a sorridere con l’autore se vogliamo davvero leggere il Satyricon.»
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
Egli è sì gran tempo, ch’io vo’ promettendo di raccontarvi le cose mie, che oggi, dacchè in buon punto ci troviam radunati per favellare non solamente di materie scientifiche, ma sì anco di gaie, e per condirle di piacevoli fandonie, mi son pure risolto di mantener la parola.
Fabrizio Veientone ci ha sinora con molta finezza parlato dei difetti della religione, e manifestato come i sacerdoti con mentito furore di profezia isvelino sfacciatamente di quei misterj, che essi medesimi per lo più non intendono. Ma forse che i declamatori non son pur essi d’altra specie di furore agitati, allor che gridano: io queste ferite per la libertà pubblica riportai, quest’occhio ho perduto per voi: datemi una scorta che a’ miei figli mi guidi, ora che le storpie ginocchia non mi reggon le membra?
Scarica gratis: Satire di Petronius Arbiter.