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Essi pensano ad altro è un romanzo presumibilmente giovanile anche se la datazione esatta della sua stesura non è stato possibile determinarla con certezza. Da una lettera del collaboratore di Garzanti Pio Schinetti si deduce che fu rifiutato dall’editore in data 6 luglio 1939; analogo rifiuto l’autore ebbe da Vallecchi in data 22 maggio dello stesso anno. Il titolo della prima stesura avrebbe dovuto essere Ragazzo di città. La nuova stesura venne nuovamente rifiutata da Garzanti in data 24 marzo 1942; Aldo Garzanti scrisse come giustificazione del rifiuto che «ogni affermazione di vita viene dissolta dall’autore nel non essere». Solo nel 1976, a 24 anni dalla morte dell’autore, Garzanti diede finalmente alle stampe quest’opera.
La geometrica dinamica dello sdoppiamento, che abbiamo già visto in atto tra Lelio e il Funambolo (ne abbiamo parlato a proposito del Buon Corsiero), si fa più complessa in questo romanzo: non abbiamo più due individui bensì due coppie, da una parte i fratelli Nemo – suonatore di trombone –ed Enrico – addomesticatore di scimmie – formano un’unità inscindibile; dall’altra Arseni – imbalsamatore di animali – e Riccardo – suonatore di violino –. E vanno tenute presenti anche le intersezioni che avvengono con Ernestina – commessa di cartoleria innamorata di Riccardo – e Piàdeni – bevitore incallito che aiutato dal vino filosofeggia sul destino dell’uomo –; questi personaggi tutti si muovono con alle spalle la moltitudine indifferenziata ma palesemente ostile della città che sfuma in «un impossibile cielo da operetta» e dove tutti quanti loro «parevano personaggi dell’ultimo atto di una commedia triste, senza scampo». Questa città ostile è Bologna, dove Comparoni frequentò l’università. Ma non è una Bologna facilmente riconoscibile; sembra piuttosto come probabilmente appariva agli occhi del giovane studente Ezio che ogni cosa e ogni ambiente vedeva attraverso le sue difficoltà di vita a Reggio Emilia.
Come nel Buon Corsiero troviamo anche in questo testo il disagio dell’incomunicabilità, che determina il fallimento: anche i personaggi di questo romanzo sono in “casa d’altri”, proprio come il Funambolo. Il mondo circostante non comprende né la necessità di musica né quella di magici silenzi. Queste diverse necessità si intrecciano ed Enrico conosce una fine tragica precipitando dal balcone all’inseguimento di un animale di Arseni; Arseni stesso e Riccardo sono allontanati dall’appartamento e vagheranno alla ricerca di un’altra abitazione che non troveranno mai, sempre inseguendo la propria diversità sulla quale costruire un’individualità autonoma e specifica e alla quale non rinunciano in nessun momento, pur senza che questo sembri concretizzarsi in una consapevolezza ma anzi vedendo questa autonomia in maniera inespressa, indefinita. Le altre due coppie sembrano invece perseguire una parvenza di “normalità” pur se con risultati piuttosto modesti.
La narrazione si regge non su fatti e azioni ma su stati d’animo ed emozioni che si fanno a tratti sfuggenti e indefinibili, e il dialogo, frequente come strumento narrativo, non certifica effettiva comunicazione ma al contrario la sempre presente incapacità di comunicare. Gli oggetti, le “cose” che vengono anche accuratamente descritti, sono però più elementi favolistici che contorno concreto e reale al pensiero dei personaggi. Pensiero, appunto, come anche richiamato nel titolo, che è al contempo di stampo inglese e ironico. Sono forse i critici, che, almeno prima della metà degli anni ’70 dello scorso secolo, “pensano ad altro”? O forse l’autore voleva porre la fase introspettiva, individualista, del “pensare” in abbinamento e contemporaneamente in contrasto con la diversità, l’alterità, dell’“altro”?
Tutto questo è percepito da Aldo Garzanti ed esplicitato nella lettera di rifiuto già citata, dove afferma: «il vostro continuo dissolvere nel suo opposto, nel suo non essere, dà l’impressione di fatica, le pagine continuano in questo tormento senza che intervenga un colpo d’ala liberatrice». Quello che Garzanti percepì come limite, come ostacolo perché il romanzo potesse, in quell’epoca, essere compreso e accettato dal pubblico potenziale, è forse invece la forza principale della narrazione. Forza con la quale l’autore si dibatte tra gli obblighi di una visione convenzionale, fatta di “bisogna” e “si deve” (se cerchiamo quante volte nel testo ricorre la locuzione “bisogna” – dire, fare, parlare – c’è da rimanere sorpresi), e le possibili vie di fuga dalla morale corrente; e infatti tutti gli obblighi espressi sono in forma impersonale. L’autore ci offre degli indizi, non ci propone risposte, e sono spesso falsi indizi e più sembra ermetico e mascherato e più diventa in realtà “vero”. E con lui gli oggetti che descrive, come già detto, come parte di una desolazione vasta ma indistinta. Leggiamo nelle prime pagine, quasi come una dichiarazione programmatica:
«La stanza era tutta avvolta, o tutta presa, da uno strano disordine che però non dava quel senso di disagio e forse pena che invece causa di solito la vista di oggetti posti senza criterio o ammonticchiati, come quando si cambia di casa, sui carretti. Era folta di cose come tutte le stanze povere, quasi irta: e, appoggiata al parapetto del camino, c’era anche una bicicletta magra da operaio con un freno solo e impossibile. Altri oggetti, fuori in un certo senso dal comune o dalla pratica giornaliera degli uomini, balzavano subito all’occhio qua e là, senza stonare o urtare in qualche modo; e da quell’insieme anzi di ferri nichelati, stracci, boccette, pezzi di giornale ed altro ancora nasceva un’indefinibile singolare simmetria che arrivava subito al cuore o press’a poco senza riuscire a dire niente agli occhi.»
Il tempo stesso ristagna e sembra non scorrere neppure da un capitolo all’altro. È come se gli oggetti descritti nell’ambito della loro desolazione riescano ad intrappolare e coagulare la trama temporale del racconto nel loro soffocante guazzabuglio per far emergere una quotidianità angosciosa e soffocante. Testo giovanile, come abbiamo detto, ma non per questo marginale, iniziale piuttosto, e importantissimo per seguire e comprendere le successive conquiste stilistiche ed esistenziali della poetica darziana, sulla quale si innestano le successive opere maggiori e i romanzi destinati ai ragazzi che metteremo on line nelle prossime settimane.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Quando egli giunse al numero sette bis di Via Marsala, il cielo d’un color morto e compatto d’alluminio era malinconico come gli sbadigli e l’acqua delle pozzanghere, ed un po’ meno dell’asfalto forse su cui i pneumatici delle macchine e dei camion davano uno strano rumore.
«Forse non riuscirò a trovarla,» pensò poi. Perché viaggiava per la prima volta e le sue scarpe erano ancora così terribilmente goffe e lucide e quasi inesperte ancora di vie e pietre, da sentirsi vagamente convinto che arrivare a destinazione e trovare casa numero e cortile si potesse solo per un caso o una fortunata combinazione, non per altro.
Intanto si sentiva lontano dalle cose. La gente, passando svelta sotto l’acqua, mostrava un’indifferenza remota, quasi offensiva, e il colore degli impermeabili, più grigi ancora sotto quella pioggia, appariva anche più triste, sconsolante. Le spalle che si indovinavano in una magrezza rassegnata sotto la gomma, facevano provare un lontano ricordo di disagio.
Scarica gratis: Essi pensano ad altro di Silvio D’Arzo.