Il testo raccoglie articoli e saggi apparsi su quotidiani e riviste, talvolta accorpati, come quello su Fucini, e rivisti. Più che critico sembra voler essere “indicatore librario” e le sue scelte appaiono orientate in più direzioni. Una è quella di quegli scrittori che all’indomani della guerra sembrano voler rientrare nei ranghi dell’ordine (per esempio Papini e Borgese) pur conservando qualche segno di novità; ci sono poi quelli, di cui Saba è l’esempio, che sia prima che dopo la guerra sembrano voler preservare intatta la loro classicità; quelli poi – e Pancrazi insiste con particolare attenzione su questi – come Fucini e Albertazzi che non rinnegano mai la loro appartenenza carducciana e che sembra possano riassaporare un ritorno all’arte che non sia separata dalla vita e che con questo ritorno abbiano possibilità di non sentirsi anacronistici.

Non si può però affermare davvero che Pancrazi fosse pregiudizialmente nemico di ogni sperimentazione linguistica e letteraria; vedeva tuttavia il migliore risultato di questa sperimentazione più nella scapigliatura milanese che non nella smania iconoclasta del Futurismo. Per cui può sembrare che l’opposizione che faceva nei confronti delle proposte delle avanguardie letterarie del periodo potessero essere carenti di una adeguata prospettiva storica. Ma lo stesso Pancrazi nella sua prefazione a questi articoli e saggi avverte chi legge:

«Dove sono andati a finire i letterati «d’eccezione», gli scrittori «preziosi», le anime «decadenti» che sorsero a un tratto, come una fungaia molliccia ma tenace, sul tronco della letteratura italiana dell’anteguerra? Non se ne ha più notizia. […] È possibile anche che l’Italia in genere non sia terreno adatto a fioriture letterarie difficili, decadenti o preziose; o che nel clima del nostro ’900 non potessero attaccare che in via transitoria e rapida i residui del simbolismo francese. Frutti, lì per lì, ne avemmo; e tali anche da sembrare, se non splendidi, assai gustosi. Ma fu breve stagione. […] Se oggi tiriamo le somme, vediamo che certe forme decadenti o preziose furono forse meglio connaturali ai lombardi dell’ultimo romanticismo – da Praga e Tarchetti, fino a Dossi e a Lucini – che non lo fossero più tardi a molti di quei toscani che, dalla Voce a Lacerba, si assunsero il monopolio della sinistra letteraria.»

E così l’autore passa a prendere in esame i «venti uomini» – ci sono anche le donne naturalmente, Ada Negri, Grazia Deledda – uomini, si badi bene, non scrittori, e la scelta non è casuale ma evidenzia la volontà del critico di andare oltre a una fredda esegesi letteraria per individuare invece le caratteristiche umane, attraverso gli scritti, degli autori che prende in considerazione. Per esempio per presentare Eugenio Giovannetti ce lo descrive come un bizzarro e un po’ trasognato soldato che si fa sostituire quando è di guardia e marcia in guanti bianchi e caramella. Il ritratto letterario sembra poi quasi conseguente e coerente con questa premessa. Insiste forse troppo sul “classicismo” di Fucini e Albertazzi; riscatta Saba dall’influenza dei crepuscolari e ne scopre praticamente per primo le grosse potenzialità poetiche; dà conferma di quanto sia stato importante per lui, durante il suo soggiorno veneziano, il clima europeo che si respirava a Trieste – oltre che con l’attenzione anticipatrice nei confronti di Saba – con il ritratto che riserva a Benco.

Ma in ogni caso Pancrazi sa scrivere con finezza e senso della misura. Sa proporre malizie prive di malignità, si pone dei limiti che non appaiono mai come ristrettezze. Non si atteggia a grande critico e non scrive per imporre la propria opinione. Opinione che viene presentata come fosse priva di importanza, ma che si insinua in chi legge, quasi senza che se ne avveda, e raggiunge lo spirito. Il suo senso critico si spinge quindi oltre la letteratura e verso la vita; con il suo tipo di scrittura discorsiva e un po’ ironica riesce a dire quasi sottovoce tante cose che preferisce non dire con voce altisonante.

Il Satiro è protagonista del capitolo Intermezzo d’autunno, già pubblicato su “Il Secolo” del 3 novembre 1921 con il titolo Calendario; tra ironia e scherzo sembra cercare una via di fuga, da tempi che appaiono oppressivi e snervanti, verso una sorta di religione della natura. In una lettera a Papini scrive:

«la mia fede è così anemica che non vuole e teme di esporla a prove. Anzi si sforza di mantenere una certa continuità di impegno nella ricerca, di cui restano sensibili tracce in una “prosa campagnola”».

E il satiro ci dà un esempio di questa prosa campagnola e del richiamo alla religione della natura con le sue parole:

«Hai visto le lodole, la mattina…. Brillano contro le zolle lustre; si staccano, s’alzano su e trillano al sole…. E da quella macchia di ginepri, hai sentito gli zirli amari dei tordi al tramonto? I grappoli di questo filare, davvero tutt’oggi li hai visti cogliere e calar nei panieri, o pigiar nei bigoni, pensando solo al vino da vendere? […] lo spirito, la coscienza, la storia; devono davvero essere cose difficili, se vi fan tanto pallidi e cattivi….»

La lettura di Pinocchio in chiave morale è una costante per Pancrazi. L’elogio di Pinocchio era stato pubblicato su “Il Secolo” del 7 marzo 1922, ma l’argomento viene poi ripreso anche nella prefazione a Tutto Collodi – nel 1948 – intitolata Capolavoro scritto per caso. Pinocchio riesce sempre ad essere l’eroe di tutti, ma soprattutto dei semplici, che possono immaginare quello che non possono avere, come Geppetto che dipinge sulla parete il camino che non ha. E Pancrazi rivede nel capolavoro di Collodi la buone e vecchia Toscana che cerca di schivare le insidie, anche quella della giustizia che colpisce il meno colpevole, ma che non è in contrasto con una «morale modesta e solida». Anche la fata abbandona presto il suo luccicante apparato fiabesco per trasformarsi in una buona donnina del popolo, dopo essersi mostrata in un primo momento nel suo sfavillante apparato fiabesco:

«Se la rivedo come vuole il disegno, le mani ai fianchi, e le maniche rimboccate; e poi il grembiule con le tasche; e, ai piedi, le sue brave pianelle; la buona fata mi sembra allora piuttosto una serva del Casentino….»

Dice Pancrazi che Pinocchio non rappresenta per lui una nostalgia dell’infanzia; possiamo credergli, testimonia però, come tante altre cose che legge e scrive, la nostalgia dell’apparente quieta Italia di fine Ottocento.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del primo articolo citato L’ultimo D’Annunzio:

Avevamo creduto tutti a un D’Annunzio nuovo. Da quando? Forse gli accenti primi di questa novità – una novità d’animo, una novità di tono – erano avvertibili già in alcune pagine del ‘Forse che sì, forse che no’. Nasceva lì un D’Annunzio interiore; ripiegato su se stesso a cogliere i momenti di un’inquietudine nuova. D’improvviso non gli bastavano più nè la vita nè l’arte di un tempo. Poichè anche da un romanzo è possibile cavare un senso lirico e personale, il ‘Forse che sì’ fu il libro del trapasso all’ultima vita nuova. L’osservazione apparve lì per la prima volta più breve; la frase meno soddisfatta e più densa. In tutto, un freno, una contenutezza, un chiuso ardore, insoliti. Gruppi di periodi, pur nella loro compiutezza, apparivano così densi, abbreviati e urgenti ciascuno al segno del taglio, che si pensava alla chioma di una potatura perfetta. Il mondo lirico, morale, psicologico del poeta, non variava ancora da quello di un tempo. Ma la materia di un tempo era vista ora con occhio nuovo; un occhio che per la prima volta, dietro la cosa, vedeva l’ombra della cosa: dietro la vita, la morte. E più l’occhio s’affissava, più la striscia d’ombra cresceva, consumava il sole e la luce.

Scarica gratis: Venti uomini, un satiro e un burattino di Pietro Pancrazi.