Nel 1988 il filosofo Gilles Deleuze parlò di arte connessa a territorio: «costituire un territorio per me è quasi la nascita dell’arte». Savinio fa nascere dunque l’arte passeggiando per Milano, alla ricerca e alla delimitazione del «suo territorio». Territorio che stava per essere sconvolto, nel momento nel quale l’autore completava il suo libro per darlo alle stampe. Nell’agosto del 1943 Milano fu atrocemente bombardata e questi bombardamenti “mutarono la faccia di Milano”. Per questo ci fu un ritardo nella pubblicazione: Savinio volle aggiungere delle pagine che parlassero del corpo di Milano «insudiciato dalla morte». E così il libro di Savinio si è trasformato nel ritratto di una Milano che non esiste più, che nessuno potrà rivedere. Ma è anche una testimonianza di grande speranza, quasi una descrizione e un auspicio per la Milano che sarà. Ascolto il tuo cuore, città verrà quindi pubblicato nel febbraio del 1944.
Anche in questo suo lavoro Savinio si mostra formidabile interprete di un certo surrealismo italiano. Si può dire che ogni concetto che esprime sia mediato da questa ricerca in atmosfera surreale: attento a ogni parola che serve a descrivere, in omaggio al concetto, che lui stesso esprime nel corso delle sue riflessioni, in base al quale «la ricerca etimologica è una variante della psicologia, una delle più profonde e sorprendenti fonti di felicità». Il suo occhio è sempre attento e critico. Coglie accanto alla facciata settecentesca la nota stonata di una torre in stile fascista, costruita per celebrare la fondazione dei fasci di combattimento:
«Di fronte alla chiesa del san Sepolcro è il palazzo degli Esercenti, che costeggia parte della piazza con l’angolo ottuso della sua facciata. Accanto al palazzo, come il campanile allato alla chiesa, sorge improvvisa una torre altissima, quadra, bianca, neogenita. È la torre commemorativa dell’adunata del 1919. La sua fronte è regolarmente forata di finestre rettangolari, all’altezza del secondo piano sporge un balcone di bronzo […] Di dietro la torre s’incammina una via che si chiama Valpetrosa, nome bellissimo per una via cittadina, e che della via cittadina dà un simbolico ritratto: “petrosa valle tra monti di case”».
Chi vuol provare a immergersi nel “caro passato” troverà pagine che non potranno non commuoverlo: si imbatterà nel confronto tra il “gigantismo fotografico” e le opere d’arte contenute nel Museo di Milano; incontrerà illustri letterati che Milano hanno amata:
«Ogni volta che faceva ritorno a Milano, Stendhal si fermava in questo stesso luogo, e a pieni polmoni respirava l’odore della sua cara città, ch’è l’odore di legno bruciato esalato dai camini e custodito dalla nebbia.»
Ma non solo Stendhal, il cui amore per Milano è noto, ma anche l’aretino Petrarca subì il fascino di Milano al punto di lasciar scritto nel testamento di voler essere seppellito nella basilica di Sant’Ambrogio e che acquistò una rustica villa fuori da Porta Magenta, oggi in Fratelli Zoia. E non manca l’excursus gastronomico: gli aneddoti su Giulio Cesare e gli asparagi introducono il contrasto “territoriale” tra l’uso del burro e quello dell’olio e una rassegna delle più famose trattorie. Al termine del capitolo nessuno può più dubitare che l’idea dei romani che gli usi culinari milanesi siano “barbari” non trovi riscontro se ci si addentra nelle reali tradizioni locali.
Per Savinio, questo “lungo e tranquillo conversare” è il mezzo per penetrare una civiltà e la sua cultura; l’indifferenza e superficialità è solo apparente. E con una certa mestizia l’autore avverte che «solo c’è voce per un discorso calmo. Poi, più oltre, più su, luogo non ci sarà nemmeno per un discorso; ma solo per il silenzio.» E la ricerca del silenzio ricorre più volte nel corso del testo. Il rumore e l’esteriorità sono
«Segni di immaturità agnostica. Dall’incoltura alla coltura si ripete il moto dall’esteriore all’interiore, dal rumore al silenzio. Diffidate del rumore: siete fra gente incolta; rispettate il silenzio: la scienza vi circonda.»
E dopo la desolazione dei bombardamenti:
«Non saprei rispondere neppure se mi domandaste quale impressione mi ha fatto il corpo di Milano “insudiciato” dalla morte. Meglio: non voglio rispondere. Più che l’idea di liberazione, più che l’idea di salvamento, più che l’idea di vendetta che in verità non ci ha neppure sfiorati, l’idea che più insistente batte in questi tempi nella nostra mente è l’idea di educazione. Educare il popolo italiano. Raddrizzare il suo corpo e rinettarlo. Rinettare soprattutto la sua anima affinché libera e illuminata essa possa operare nel bene, nella intelligenza, nella dignità. Mondare l’italiano dal meridionalismo e soprattutto dall’orientalismo. Salvarlo dall’asiatismo, ossia dalla peste e dalle religioni. Insegnargli a comportarsi non da “orientale” con la donna; insegnargli a combattere fino all’annientamento la cieca e bestiale autorità; insegnargli a compiere senza passione e senza servilismo il proprio dovere, ossia con libera coscienza; insegnargli a opporre una incrollabile e “muta” dignità al dolore, alla sofferenza, alla morte. Le prefiche che urlano al funerale ci ripugnano, questa più bestiale delle retoriche, ma più ancora ci ripugnano le prefiche che dalle colonne dei giornali, dagli altoparlanti della radio urlano sulle sciagure che attraversiamo e a tutte danno lo stesso grido stupido e impersonale. Silenzio dunque. Silenzio e dignità.»
Milano rimane in mente, dopo la lettura di questo testo, come un canovaccio sul quale Savinio innesta le sue descrizioni di fatti e personaggi che diventano il veicolo per poter trovare frammenti di una sua personale biografia.
Sinossi a cura di Virginia Vinci
Dall’incipit del primo racconto El Vanièr:
Arrivo a Venezia che è notte. Il lungo tragitto attraverso il cantiere della stazione nuova, è una preparazione al gagliardo podismo, alle tremende scarpinate, alle feroci maratone che mi aspettano in questa «città del riposo ». A detta del mio amico Gigino, il simile avviene anche nel centro di Milano, ove la vita degli affari è ormai così sapientemente raccolta, che l’uomo d’affari fa a meno di tram e tassì, ma dopo poche ore cade morto ai piedi del monumento a Leonardo circondato dai suoi discepoli, che gl’intenditori chiamano ‘on liter in quater’.
Venezia sta seduta nell’acqua, ma io dubito che questa sia una ragione sufficiente perché il parlare dei suoi abitanti sia così «inzuppato». Il dialetto restringe la vita, la rimpicciolisce, la puerizza. «Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti», dice Francesco De Sanctis nel capitolo della sua Storia della letteratura italiana dedicato ai siciliani.
Scarica gratis: Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio.