Il dramma in tre atti Spettri (Gengångare) venne composto da Ibsen nel 1881 durante il suo soggiorno a Roma e Sorrento. È di un paio di anni successivo al suo notissimo Casa di bambola, presente qui in Liber Liber in due traduzioni, che aveva reso internazionale la fama dell’autore.

Ancor più dello scandalo generato da Casa di bambola, il testo di Spettri fu considerato talmente scabroso e antiborghese, al limite dell’amoralità, da ottenere la prima rappresentazione solo un anno dopo, nel 1882, a Chicago, in lingua originale, e nel 1883 in Norvegia. A Parigi Spettri fu rappresentato nel 1890 e in Italia, dove pubblico e critica erano fortemente influenzati dagli eventi culturali d’oltralpe, la prima rappresentazione si tenne nel 1892 al Teatro Manzoni di Milano per la Compagnia Drammatica Giovan Battista Marini, che poi portò il dramma nei più importanti teatri della penisola. Nel 1906, con Spettri l’attore e regista austriaco Max Reinhardt inaugurò l’attività dei Kammerspiele – spettacoli da camera, una forma di rappresentazione in un piccolo ambiente in cui si crea un’intima relazione tra attori e pubblico – collegati al suo Deutsches Theater.

Ibsen si è ormai appropriato con sicurezza, come sua fonte d’ispirazione, dei temi sociali, di denuncia dell’ipocrisia borghese e di strenua difesa della libertà dell’individuo legato dalle convenzioni e dal perbenismo. Così come in Casa di bambola, protagonista di Spettri è una donna. Peraltro non necessariamente la denuncia di Ibsen è da considerarsi sotto una luce protofemminista. L’interesse del drammaturgo sembra piuttosto quello di spezzare le catene della società che opprimono, soffocano l’individuo, la persona in generale. Le donne, si riconosce, ne sono le principali vittime, ma non sono le sole.

Gli spettri sono le ombre, angosciose, dolorose, inquietanti, che continuano a turbare nel profondo l’esistenza dei protagonisti. Si possono riconoscere negli spettri tare ereditarie fisiche o psichiche: il positivismo aveva già affrontato il problema dell’ereditarietà in campo fisiologico. Ma Ibsen sembra identificarli anche come esseri che hanno vissuto la loro vita ma la cui presenza incorporea lega i vivi al passato, impedendo loro di costruire un qualsiasi futuro. Nessun tentativo di sopirli, di quietarli, di tacitarli, nel corso degli anni ha sortito un effetto. L’esplosione è inevitabile. La protagonista Helene, vedova del capitano Alving e madre di Osvald, decide addirittura di onorare la memoria del suo in-degno marito con l’intitolargli un asilo, quasi nel disperato ed ultimo tentativo di placarne lo spettro. La fama del capitano infatti è stata quella di uomo irreprensibile, elemento onorevole della società.

Ma la realtà, che solo Helene conosce, è tutt’altra. Il volto privato dell’uomo è stato quello di un essere dissoluto, spregevole. Quando, all’inizio del matrimonio, Helene aveva cercato disperatamente di fuggire, di abbandonarlo, di liberarsi, la società benpensante, nella figura del Pastore Manders, suo vecchio amico e forse qualcosa di più, aveva convinto la donna a riprendere la sua posizione e ad assumersi le sue responsabilità. Anche l’amore per il figlio viene sacrificato: meglio che viva lontano dalla madre, piuttosto che esserle vicino e subire il dannato esempio del padre. L’inaugurazione dell’asilo è l’occasione del ritorno del figlio ma anche la miccia che fa deflagrare il dramma.

Intorno alla protagonista Helene ruotano, ognuno con i suoi propri spettri, il povero figlio, l’ambiguo pastore Manders, il granitico e sgradevole falegname Engstrand e ‘sua figlia’ Regine: cinque personaggi che srotolano, in un crescendo di tensione, una trama tragica e fortissima, costruita sul rimpianto di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, sul terribile dubbio se tradire la verità, difesa, voluta da Helene, o gli ideali costruiti sul falso, sostenuti da Manders.

Dal dramma fu tratto il film muto Ghosts in b/n (1915) con la regia di George Nichols e co-regia di John Emerson. Il ruolo di Helene fu di Mary Alden. In Italia venne realizzato un film muto nel 1918 con la regia di A. G. Caldiera e Ines Cristina Zacconi nella parte della vedova Alving ed il marito Ermete Zacconi nella parte del figlio Osvald. Cosa straordinaria se si pensa che Ines era la moglie di Ermete Zacconi, di circa vent’anni più anziano di lei. Magie del teatro! Due versioni televisive furono prodotte dalla RAI: nel 1954 con Diana Torrieri, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi e la regia di Mario Ferrero; nel 1963 per la regia di Vittorio Cottafavi, con Sarah Ferrati, Tino Carraro e Umberto Orsini nei ruoli principali.

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del dramma:

ATTO PRIMO.
Un’ampia stanza che dà sul mare. Porta a sinistra. Due porte a destra. Nel mezzo della stanza una tavola rotonda circondata da seggiole; sulla tavola libri, riviste e giornali. Sul davanti a sinistra una finestra innanzi a cui sta un sofà e un tavolino da lavoro. Nel fondo una serra a vetri, in comunicazione colla stanza. A destra della serra una porta dalla quale si esce per discendere sulla spiaggia. Dietro i vetri il fiord appare melanconico attraverso un velo di pioggia.
SCENA I.
ENGSTRAND e REGINA.
(Engstrand se ne sta presso la porta che mena alla spiaggia. Egli ha la gamba sinistra più corta dell’altra e sotto il piede una suola di legno. Regina con un inaffiatoio vuoto in mano, cerca d’impedirgli d’entrare).
REGINA (a mezza voce). Che vuoi? Non moverti. Sei tutto grondante di pioggia.
ENGS. È la pioggia del buon Dio, figlia mia.
REGINA. Di’ piuttosto una pioggia del diavolo.
ENGS. Buon Gesù come parli, Regina! (fa alcuni passi zoppicando) Ascoltami, volevo dirti….
REGINA. Ehi, galantuomo non fate tanto rumore col piede! Il padroncino dorme quassù, proprio sopra noi.

Scarica gratis: Spettri di Henrik Ibsen.