Il testo di Giovannetti sul liberalismo fu pubblicato nel 1917, quando l’autore stava partecipando, come soldato, alla prima quella mondiale. Giovannetti era all’epoca condirettore della rivista “San Giorgio. Giornale dei nuovi romantici” che incarnava le idee della tradizione religiosa misticheggiante. E infatti Giovannetti affronta il tema del liberalismo e della sua nascita attraverso impulsi di tipo religioso – in particolare la riforma protestante e il dibattito tra Lutero e Zwingli e la cosiddetta disputa di Morpurgo – il tutto prendendo le mosse dal noto libro di Naumann Mitteleuropa del 1915, che per primo delinea il passaggio tra l’economia liberale e l’economia di organizzazione, passaggio che affonda le sue ragioni d’essere in “quella vivida corrente del cosmopolitismo evangelico in cui l’idea liberale ebbe origine”.

Dice infatti Giovannetti nella prefazione (e ribadirà il concetto a più riprese)

«Il vero liberalismo non è altro che il prodotto storico, l’essenza ideale stillata da questo perenne processo dissolutivo della Riforma.»

Benedetto Croce in un suo articolo (rintracciabile oggi nel volume L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra) dà un giudizio abbastanza lusinghiero su questo lavoro del Giovannetti definendolo “largo nelle guardature sintetiche e vivace nell’artistica rappresentazione”. Non è un caso quindi che il liberalismo italiano qualche anno dopo decise di far virare la propria idea di base verso un’economia di organizzazione, che fu quella fascista. Ci volle l’omicidio di Matteotti per far vacillare quell’appoggio, ma il liberalismo italiano (ed oggi europeo) non troverà, per affermare le proprie idee, più nulla di diverso dall’appoggio strumentale a gruppi di potere economico che hanno tuttavia radici lontane (ad esempio nella politica di Francesco Crispi). Questa trasformazione viene analizzata e argomentata da Giovannetti che esplicita le ragioni, in questo suo scritto, di un’evoluzione del liberalismo in liberal-democrazia; lo stesso Panunzio, dalle colonne de “Il Mondo” negli anni ’50 dello scorso secolo, evidenzia lo stato ormai di totale emarginazione della tradizione culturale liberale:

«Come mai correnti di ispirazione liberale e democratica, fedeli a una tradizione di pensiero di grande nobiltà, che trae le sue origini dal sorgere dell’Italia moderna e che ha avuto maestri come Cavour, Mazzini, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, hanno trovato e trovano così poca udienza nel nostro paese e insieme una così unanime, agguerrita ostilità da renderle simili a pattuglie isolate di frontiera, quasi separate dal tessuto vitale della nazione? La pressione di enormi masse che votano per i cattolici, per i comunisti e perfino per monarchici e i fascisti impone con la forza del numero ideali e concezioni politiche, culturali e morali, lontane, bisogna pur dirlo, dal mondo moderno. Parlano le cifre. Su un elettorato di trenta milioni di individui, ventidue milioni di voti vanno a partiti diciamo così indigeni che, ad esempio, in Inghilterra, in America, in Scandinavia in pratica neppure esistono.»

Le radici di questo allarme di Mario Pannunzio le possiamo in realtà ritrovare nell’analisi di Giovannetti e in questo senso possiamo trovare quasi profetica l’idea dell’autore che vede l’ideale liberale sfumare sempre più nell’idea di organizzazione statale. Scrive in una nota al termine del suo lavoro:

«Allora per gli spiriti forti, lo Stato non era che “un male necessario” e si esigeva piuttosto la libertà dallo Stato, che la libertà nello Stato»

riassumendo in questa frase l’idea che la sorte del liberalismo non poteva essere altro che un appiattimento su un tipo di prospettiva socialdemocratica dove lo strapotere statalista avrebbe ripreso il sopravvento, forse al di là delle aspettative degli stessi “liberal-democratici” che questa via hanno spianato.

Sembra quindi chiaro che il liberalismo di cui parla Giovannetti e che prende le mosse da situazioni di ferreo controllo statalista come quelle emerse dalla riforma protestante, mal si attaglia, fin dal principio con quello storico e tradizionale; Adam Smith per esempio afferma:

«Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione del loro personale interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità» (La ricchezza delle nazioni, libro I, capitolo II).

E Bastiat:

«Lo Stato – non dimentichiamolo mai – non ha risorse proprie. Esso non ha nulla e non possiede che ciò che sottrae ai lavoratori. Nel momento in cui si intromette in ogni cosa, esso sostituisce all’attività privata la triste e costosa attività dei suoi funzionari» (“Proprietà e legge” [1848], in Ciò che si vede e ciò che non si vede, e altri scritti).

E Luigi Einaudi ancora nel 1942 scriveva:

«La pianta della concorrenza non nasce da sé, e non cresce da sola; non è un albero secolare che la tempesta furiosa non riesce a scuotere; è un arboscello delicato, il quale deve essere difeso con affetto contro le malattie dell’egoismo e degli interessi particolari, sostenuto attentamente contro i pericoli che da ogni parte lo minacciano sotto il firmamento economico» (Economia di concorrenza e capitalismo storico).

Oggi che lo stato europeo moderno è divenuto decisamente “stato etico” possiamo ricordare ancora Bastiat:

«La fraternità è spontanea o non è più tale. Decretarla significa annientarla. La legge può anche obbligare l’uomo a essere giusto; vanamente si sforzerà di obbligarlo ad essere affettuoso e devoto nei confronti del prossimo» (“Giustizia e fraternità” [1848], in Ciò che si vede e ciò che non si vede, e altri scritti).

E sulla compressione della libertà ancora Luigi Einaudi scrisse:

«La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica» (“Chi vuole la libertà?”, Corriere della sera, 13 aprile 1948).

Naturalmente ancora oggi nel panorama politico c’è chi si autoproclama “liberale”, ma il liberalismo è divenuto sempre più idea di “nicchia”, culturalmente solida (e non al tramonto) ma certamente lontana dalle mode politiche del momento. Credo che in Italia sia oggi rappresentata dall’Istituto Bruno Leoni e niente altro. E Bruno Leoni stesso disse:

«L’accettazione cieca del punto di vista giuridico condurrà alla distruzione graduale della libertà individuale di scelta, nella politica come nel mercato e nella vita privata, perché il punto di vista legale contemporaneo comporta una sempre maggiore sostituzione delle decisioni collettive alle scelte individuali e l’eliminazione progressiva degli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda e offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento, attraverso procedure rigide e coercitive come quella della regola di maggioranza […] Secondo le idee liberali, è necessario accettare solo pochi punti generali per fondare e sviluppare un ordinamento liberale, perché appartiene alla stessa natura di tale sistema lasciare che la gente lavori come meglio crede, purché non interferisca con l’analogo lavoro altrui» (La libertà e la legge).

Quello che Giovannetti vedeva al tramonto è quindi un liberalismo già lontanissimo dalle sue radici storiche e culturali, e immerso fino agli occhi nella logica della conservazione del privilegio.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del saggio:

A Marburgo, il castello dei langravi di Hesse si ridestò una mattina con un insolito trambusto. Il giovane langravio Filippo, coll’impazienza entusiastica della gioventù, muoveva incontro a due ospiti egualmente straordinari, l’uno venuto dal nord, l’altro dal sud. L’ospite meridionale era Zwinglio, il settentrionale era Lutero: carissimi l’uno e l’altro al langravio che avrebbe voluto mettere finalmente d’accordo i due uomini. Filippo di Hesse si era fatto pacere non tanto per quell’eclettismo esuberante che è comune ai giovani quanto per una sua studiosa acutezza politica che lo metteva molto al disopra dei suoi anni. Il langravio di Hesse pensava all’unità della Germania.
Innanzi a lui i due Riformatori s’incontrarono e si misurarono con lo sguardo. Erano degni l’uno dell’altro: due corpi robusti, due volontà inflessibili. Guance rosse e occhio gaio nel montanaro meridionale, una durezza fosca nell’occhio di Lutero. Nei modi di Zwinglio la scioltezza arguta dell’umanista, nei modi di Lutero una certa bonaria ruvidità fratesca; nell’uno la fluidità limpida delle idee, l’ampiezza armoniosa dei grandi disegni e, insieme, un’agilità di cacciatore montanaro, l’attitudine a colpire al balzo un’idea con un frizzo tagliente: nell’altro la tenacia di invisibili nodi, un ardore cupo, un affannoso alternarsi di luci e di ombre, di gioie sanguigne e di mistici terrori. Poeti entrambi, agguerriti nella politica come nella teologia, legislatori, musicisti e soldati, Zwinglio e Lutero si trovarono di fronte a Marburgo come due opposte forme della perfezione terrena, come due uomini integri e però inconciliabili.

Scarica gratis: Il tramonto del liberalismo di Eugenio Giovannetti.