di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Storia di Marzavan

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Tra le molte scienze che Marzavan aveva studiato nella sua giovinezza la sua inclinazione l’aveva portato particolarmente allo studio dell’astrologia giudiziaria, della geomanzia, e d’altre scienze segrete, nelle quali erasi reso valentissimo.

Dopo un’assenza di molti anni, Marzavan ritornò finalmente alla capitale della China. Quantunque la nutrice, madre di Marzavan, fosse occupata moltissimo presso la principessa della China, non pertanto appena seppe che il suo caro figlio era di ritorno, trovò il mezzo di uscire per andarlo ad abbracciare e parlare alcuni momenti con lui.

Dopo avergli raccontato lo stato miserando in cui versava la principessa, Marzavan le chiese se poteva procurargli il mezzo di vederla in segreto.

Dopo averci pensato alcuni momenti:

— Figliuol mio, io non posso dirvi nulla su ciò presentemente, ma aspettatemi e ve ne darò la risposta.

Appena fu notte, la nutrice andò dal suo figliuolo Marzavan, e travestitolo da femmina, lo condusse seco.

L’eunuco non dubitando di nulla, aprì loro la porta, e li lasciò entrare insieme. Prima di presentare Marzavan, la nutrice s’approssimò alla principessa, e le disse:

— Signora, non è già una femmina come voi vedete, ma sibbene mio figlio Marzavan da poco ritornato da’ suoi viaggi; spero che vorrete accordargli l’onore di presentarvi i suoi omaggi.

Al nome di Marzavan la principessa manifestò una gran gioia:

— Avvicinatevi, fratel mio – diss’ella subito a Marzavan – e toglietevi questo velo; non è proibito ad un fratello e ad una sorella di vedersi a viso scoperto. – Marzavan la salutò con gran rispetto.

— Principessa – rispose – io vi sono infinitamente obbligato della vostra bontà. M’aspettava al mio ritorno di sapere di voi novelle migliori, d’altra parte son compreso di gioia d’esser giunto a tempo per portarvi, dopo tanti altri, i quali non vi sono riusciti, la guarigione di cui avete bisogno.

— Che! fratel mio, credereste anche voi ch’io sia pazza? Disingannatevi ed ascoltatemi.

Allora la principessa raccontò a Marzavan tutta la sua storia, non tralasciando le più piccole particolarità, fino all’anello cangiato col suo che gli mostrò.

Quando la principessa ebbe terminato di parlare, Marzavan disse:

— Principessa, se quanto m’avete raccontato è vero, come ne son persuaso, io non dispero di procurarvi la soddisfazione desiderata. Vi supplico solamente di armarvi di pazienza ancora per qualche tempo, finché io non abbia percorso regni ove non ho ancora approdato, e quando saprete il mio ritorno, siate certa che quello per cui sospirate con tanta passione non sarà lungi da noi.

Ciò detto Marzavan tolse congedo dalla principessa e partì il giorno dopo.

A capo di quattro mesi il nostro viaggiatore arrivò a Tarf città marittima, grande e popolatissima, ove non intese più a parlare della principessa Badoure, ma del principe Camaralzaman che dicevasi essere infermo, e di cui raccontavasi la storia, presso a poco simile a quella della principessa Badoure.

Marzavan ne provò una gioia inesprimibile ed informatosi in qual angolo del mondo fosse questo principe, gli venne insegnato. Marzavan imbarcossi sopra un vascello mercantile il quale ebbe una prospera navigazione fino presso la capitale del regno di Schahzaman: ma prima d’entrare nel porto, il vascello sciaguratamente investì in uno scoglio per l’imperizia del pilota, e si sommerse a vista, e poco lungi dal castello dove era il principe Camaralzaman ed il re suo padre col gran Visir.

Marzavan sapeva nuotare, onde non esitò a gettarsi nell’acqua, ed andò ad approdare a piè del castello del re Schahzaman, ove fu ricevuto e soccorso per ordine del re.

Il gran Visir narrò allora a Marzavan lo stato in cui era il principe di Camaralzaman, cominciando dalla sua origine. A questo discorso del gran Visir, Marzavan si consolò infinitamente.

Ei conobbe come il principe Camaralzaman fosse quello per cui la principessa della China ardeva di amore, e costei l’oggetto degli ardentissimi voti del Principe. Senza palesar nulla al gran Visir, disse solamente che se avesse veduto il principe, avrebbe potuto giudicar meglio del soccorso da apprestargli.

— Seguitemi – gli disse il gran Visir – troverete a lui vicino il re suo padre, il quale mi ha espresso il desiderio di vedervi.

La prima cosa da cui Marzavan fu tocco, entrando nella camera del Principe, fu di vederlo steso nel letto cogli occhi chiusi.

Benché fosse in questo stato, e senza aver riguardo al re Schahzaman padre del principe, che gli stava seduto vicino, né al principe cui questa libertà poteva riuscire incomoda, non tralasciò di esclamare:

— Cielo! Nulla v’è nell’universo di più somigliante – volendo significare che lo trovava simile alla principessa della China, e per vero avevan molta somiglianza nei lineamenti.

Queste parole di Marzavan cagionarono gran curiosità al principe, il quale aprì gli occhi e guardò Marzavan, che dotato di grandissimo ingegno, profittò del momento, per fargli i suoi complimenti in versi estemporanei, in un modo oscuro, per cui il re ed il gran Visir non ne compresero nulla: ma gli dipinse così bene l’accaduto colla principessa della China, da non lasciar dubitare ch’ei la conosceva e poteva dargliene notizie.

Il principe fu compreso da una gioia ineffabile, di cui lasciò trasparire i segni negli occhi e nel viso.

Quando Marzavan ebbe terminato il suo complimento in versi, costui si prese la libertà di far segno al re suo padre d’aver la compiacenza di cedere il posto suo a Marzavan.

Il re, esultante di vedere nel principe suo figliuolo un cangiamento che gli dava buona speranza, s’alzò e prendendo Marzavan per la mano l’obbligò a sedersi al posto da lui abbandonato.

Gli chiese chi era e donde venisse, e dopo che Marzavan gli ebbe risposto essere suddito del re della China, e venire da’ suoi stati:

— Dio voglia – gli disse – che togliate mio figlio dalla sua profonda melanconia! Io ve ne avrò una obbligazione infinita.

Ciò detto lasciò il principe suo figliuolo in perfetta libertà di conversare con Marzavan.

Marzavan, approssimatosi all’orecchio del principe Camaralzaman e parlandogli chetamente, gli disse:

— Principe, è tempo ormai che cessiate d’affliggervi sì crudelmente. La donna per cui voi soffrite mi è nota: ed è la principessa Badoure, figlia di Gaiour, re della China. Io posso accertarvene su quanto essa medesima m’ha detto della sua sventura, e su quello che ho già saputo della vostra. La principessa non soffre meno per amor vostro di quanto voi soffriate per amor suo. Voi siete il solo che possiate guarirla perfettamente, presentatevi perciò senza timore: ma prima d’intraprendere un sì gran viaggio, fa d’uopo star bene in salute, ed allora prenderemo le misure necessarie. Non pensate dunque ad altro se non a rimettervi. – Il discorso di Marzavan produsse un potente effetto.

Il principe Camaralzaman fu talmente sollevato, da sentirsi sufficiente forza per alzarsi, onde pregò il re suo padre a permettergli di vestirsi, facendogli provare un’incredibile gioia.

Il re abbracciò Marzavan per ringraziarlo, senza cercare il mezzo di cui si era servito per produrre un sì sorprendente effetto. Il principe di Camaralzaman, ebbe in poco tempo ricuperata la sua primiera salute.

Quando sentì d’esser ben forte per sopportare la fatica del viaggio, prese Marzavan in disparte e gli disse:

— Caro Marzavan, egli è tempo di mettere ad effetto la promessa fattami. Una cosa m’affligge e me ne fa temere il ritardo: la tenerezza importuna del re mio padre, il quale non si risolverà giammai di accordarmi il permesso d’allontanarmi da lui.

— Principe – rispose Marzavan – voi non siete ancora uscito dacché io son qui giunto; mostrate a vostro padre il desiderio di fare una partita di caccia di due o tre giorni: egli ve ne accorderà senza dubbio il permesso. Quando ve l’avrà accordato, ordinerete di apprestare a ciascun di noi due buoni corridori, uno per cavalcare e l’altro di ricambio, e lasciate a me la cura del rimanente.

L’indomani, il principe di Camaralzaman, colta l’occasione, mostrò al re suo padre il desiderio di uscire, e lo pregò di permettergli d’andare a caccia un giorno o due con Marzavan.

— Volentieri – gli rispose il re – a condizione che non dormiate più d’una notte fuori; troppo moto nel principio potrebbe nuocervi, ed una più lunga assenza mi cagionerebbe pena.

Il Re comandò che gli si scegliessero i migliori cavalli. Quando fu tutto pronto, lo abbracciò e dopo aver raccomandato a Marzavan di aver cura di lui, lo lasciò partire.

Al romper dell’alba i due cavalieri si trovarono in una foresta in un punto ove la strada dividevasi in quattro. Là, Marzavan pregò il principe di attenderlo un momento, ed entrato nella foresta sgozzò il cavallo del palafreniere, lacerò l’abito fattosi dar dal principe, lo tinse di sangue, indi portò ogni cosa in mezzo alla strada, al punto ove si divideva.

Il principe Camaralzaman chiese quale fosse il suo disegno.

— Principe – rispose Marzavan – appena il re vostro padre non vi vedrà di ritorno, non mancherà di mandar persone sulle nostre tracce. Coloro che verranno da questa parte, rinvenendo quest’abito insanguinato, crederanno che qualche bestia feroce vi abbia divorato, e che io me ne sia fuggito pel timore della collera del Re. Vostro padre, non ritenendovi più per vivo, cesserà dal farvi cercare, e in tal modo noi avremo tempo di continuare il nostro viaggio senza timore di essere perseguitati.

— Saggio Marzavan – rispose il principe Camaralzaman – io approvo uno stratagemma tanto ingegnoso e ve ne professo un novello obbligo.

Il principe e Marzavan, continuarono il viaggio.

Finalmente giunsero alla capitale della China, ove Marzavan, invece di condurre il principe in casa sua, lo fece scendere all’albergo degli stranieri. Vi stettero tre giorni a riposarsi dalle fatiche del viaggio ed in questo tempo Marzavan fece fare un abito da astrologo per travestire il Principe.

Passati tre giorni andarono insieme al bagno, ove Marzavan fece vestire il principe da astrologo, ed all’uscire del bagno lo condusse innanzi al palagio del re della China, ove lo lasciò per andare ad avvertire sua madre, nutrice della principessa Badoure, del suo arrivo, onde ne facesse consapevole la principessa.

Il principe Camaralzaman, istruito da Marzavan di quanto doveva fare, e munito di quel che abbisognava ad un astrologo, s’avanzò fino alla porta del palagio del re della China, e fermatovisi, esclamò:

— Io sono un astrologo e vengo a dare la guarigione alla rispettabile principessa Badoure, figliuola dell’alto e potente monarca Gaiour, re della China, alle condizioni proposte dalla Maestà Sua di sposarla se vi riesco, o se no di perder la vita!

Finalmente il gran Visir in persona venne a prenderlo da parte del re della China, e glielo condusse innanzi. Il principe, non appena lo vide seduto sul trono, si prostrò e baciò la terra innanzi a lui.

Il re, il quale fra tutti coloro del quali una smisurata presunzione aveva spinto ai suoi piedi le teste non aveva veduto ancora nessuno sì degno d’interessarlo, ebbe una vera pietà di Camaralzaman pel pericolo a cui si esponeva. Laonde gli fece più onore, volendo che gli fosse avvicinato e seduto vicino.

Il re della China comandò all’eunuco custode della principessa Badoure, il quale era presente, di condurre il principe Camaralzaman dalla principessa sua figliuola.

L’eunuco condusse il principe Camaralzaman, e quando furono in una lunga galleria, a capo della quale era l’appartamento della principessa, il principe siccome era fornito del necessario per un astrologo, tolse il calamaio e la carta, e scrisse il seguente biglietto alla principessa della China.

«Il principe Camaralzaman
alla principessa della China.

«Adorabile principessa, l’amoroso principe Camaralzaman non vi parla più degli inesprimibili mali che soffre dalla notte fatale in cui le vostre bellezze gli fecero perdere la libertà che aveva risoluto di conservare per tutta la vita sua, ma sibbene vi fa osservare avervi dato il cuore, durante il vostro dolcissimo sonno; osò anche darvi il suo anello in segno del suo amore, e prendere il vostro in cambio, che vi manda in questo biglietto.

«Se vi degnate rinviarglielo, egli si stimerà il più felice degli amanti; altrimenti il vostro rifiuto non gl’impedirà di ricevere la morte con una rassegnazione tanto più grande inquantoché gli sarà data per amor vostro.

«Egli attende la vostra risposta nella vostra anticamera».

Finito questo biglietto, il principe Camaralzaman ne fece un involto con l’anello della principessa, senza farlo vedere all’eunuco, e dandoglielo gli disse:

— Amico, prendi e porta questa lettera alla tua padrona: se essa non guarisce dal momento che l’avrà letta ed avrà veduto ciò che vi è racchiuso, ti permetto di pubblicare esser io il più indegno ed il più impudente di tutti gli astrologhi.

L’eunuco entrò nella camera della principessa della China, e presentandole la lettera che il principe Camaralzaman le inviava, le disse:

— Principessa, un astrologo più temerario degli altri è giunto e pretende che sarete guarita appena avrete letta questa lettera e veduto quel che vi è dentro.

La principessa Badoure prese il biglietto con molta indifferenza: ma appena ebbe veduto il suo anello non pensò più a terminare di leggere, ed alzatasi precipitosamente, sì che ruppe la catena che la teneva legata, corse alla cortina e l’aprì.

Ella subito riconobbe il principe, ed egli lei, e corsero l’uno verso l’altra e si abbracciarono teneramente.

La nutrice accorse, li fece entrare nella camera, dicendogli:

— Riprendetelo, io non potrei ritenerlo senza rendervi il vostro, il quale voglio custodire per tutta la mia vita. Essi non possono stare in migliori mani.

L’eunuco intanto era andato sollecitamente ad avvertire il re della China di quanto era accaduto, dicendogli:

— Sire, tutti gli astrologhi, medici ed altri che hanno osato intraprendere di guarire la principessa finora non erano che ignoranti. Quest’ultimo l’ha guarita senza vederla. – Gliene raccontò la maniera, ed il re, piacevolmente sorpreso, andò subito dalla principessa, che abbracciò, ed abbracciato anche il principe, prese la sua mano e mettendogliela in quella della principessa, gli disse:

— Fortunato straniero! Chiunque voi siate, io mantengo la mia parola, e vi do la mia figlia in isposa.

Il Principe Camaralzaman ringraziò il re coi più rispettosi termini.

— Per quanto riguarda la mia persona, Sire – proseguì egli – è vero che io non sono astrologo, ma ne ho preso solo le vesti per viemeglio riuscire a meritar l’alta alleanza del potente monarca dell’universo; io son nato principe, figliuolo di re e di regina. Il mio nome è Camaralzaman; mio padre si chiama Schahzaman, e regna nell’isola assai conosciuta, dei Fanciulli di Khaledan.

La cerimonia delle nozze si fece nello stesso giorno e vi furono feste solenni in tutta la China.

Marzavan non fu obliato, dandogli quel re accesso nella Corte, ed onorandolo col dargli un impiego in un ufficio colla promessa d’innalzarlo poscia a gradi più considerevoli.

Il principe Camaralzaman e la principessa Badoure, giunti al colmo del loro desiderio, godettero delle delizie dell’imene, e per più mesi il re della China non lasciò di manifestare la sua gioia con continue feste.

In mezzo a tali piaceri, il principe Camaralzaman sognò una notte vedere il re Schahzaman vicino ad esalare lo spirito, che dicea:

— Questo figliuolo da me procreato, che ho amato sì teneramente, mi ha abbandonato, ed è causa della mia morte!

A questo punto il principe svegliossi, fortemente sospirando: ei risvegliò eziandio la principessa, la quale domandandogli perché sospirasse a quel modo:

— Ohimè! – rispose il principe – forse nel momento in cui parlo il re mio padre non vive più – e le raccontò il soggetto che aveva di sì tristo pensiero.

La principessa, senza dirgli nulla del disegno da lei concepito dietro questo racconto, cercando solo di compiacerlo, il giorno stesso ne parlò al re della China in particolare.

— Sire – gli disse baciandogli la mano – ho a chiedervi una grazia. Ma affinché non crediate essere istigata a far ciò dal principe mio marito, protesto anzitutto non avervi egli niuna parte. La grazia è di volermi concedere che io vada con lui a vedere il re Schahzaman, mio suocero.

— Figliuola mia qualunque dispiacere possa costarmi la vostra partenza, io non posso disapprovare questa risoluzione la quale è degna di voi, ad onta della fatica d’un sì lungo viaggio. Andate, io ve lo prometto: ma a condizione che non restiate più d’un anno alla corte del re Schahzaman.

La principessa annunziò il consenso del re al principe Camaralzaman, il quale ne provò grandissima gioia. Il re della China ordinò i preparativi del viaggio. La separazione avvenne con molte lacrime da ambe le parti.

Dopo circa un mese di cammino giunsero ad una prateria vastissima, dove eranvi piantati di tratto in tratto dei grandi alberi. Essendo in quel giorno eccessivo il calore, il principe Camaralzaman giudicò essere a proposito di fermarvisi.

Scesero a terra in un piacevole luogo, e come fu innalzata la tenda, la principessa Badoure vi entrò, mentre il principe dava i suoi ordini pel resto dell’accampamento. Per stare con più comodo, si fece a togliere il cinto, che le sue ancelle deposero vicino a lei, e poscia essendo assai stanca si addormentò, e le sue donne la lasciarono sola.

Quando tutto fu regolato nel campo, il principe Camaralzaman entrò nella tenda. Aspettando forse d’addormentarsi ancor egli, prese il cinto della principessa, guardò uno dopo l’altro i diamanti ed il rubini di cui era arricchito, e scorse una piccola borsa cucita sotto la fodera legata con un cordone.

Curioso di sapere quello che vi fosse nascosto, aprì la borsa e ne trasse una corniola.

Era un talismano che la regina della China avea donato alla principessa sua figliuola, per renderla felice, come essa diceva, finché l’avrebbe portato addosso.

Per meglio vederlo il principe Camaralzaman uscì fuori della tenda, e siccome lo teneva sulla palma della mano, un uccello scese improvvisamente dall’aria e glielo tolse.

L’uccello, dopo quanto aveva fatto, s’era posato a terra a poca distanza col talismano nel becco. Il principe Camaralzaman s’avanzò colla speranza che lo lascierebbe, ma quando fu vicino, l’uccello s’alzò a volo, e posò a terra, una seconda volta. Egli continuò a perseguitarlo. L’uccello dopo aver inghiottito il talismano, si posò più lontano.

Di valle in collina, e di collina in valle, l’uccello trasse dietro a sé il principe Camaralzaman, allontanandolo sempre più dalla principessa Badoure e a sera invece di gettarsi in un cespuglio, salì alla cima di un grand’albero ov’era in sicurezza.

Oppresso dalla fatica, dalla fame e dalla sete, si coricò e passò la notte ai piedi dell’albero.

L’undecimo giorno, l’uccello sparve volando, e Camaralzaman, sempre seguendolo, giunsero ad una gran città. Quando l’uccello fu presso alle mura, prese il volo e disparve agli occhi di Camaralzaman, il quale perdé la speranza di rivederlo, e di ricuperare il talismano della principessa Badoure.

Camaralzaman, afflitto oltre ogni dire, entrò nella città fabbricata sulla riva del mare con un bellissimo porto.

Camminò lungo tempo nelle strade senza sapere dove arrestarsi, ed arrivò al porto. Quivi fu incerto ancora sul da fare, e camminò lungo il molo fino alla porta d’un giardino trovata aperta.

Il giardiniere che era un buon vecchio occupato a lavorare, non appena lo vide, l’invitò ad entrare.

Camaralzaman ringraziò quel buon uomo con molta riconoscenza dell’asilo sì generosamente accordatogli.

— Lasciamo stare i complimenti: voi siete stanco e dovete aver bisogno di mangiare, però, venite a riposare.

E lo condusse in una piccola casa, ove dopo che il principe ebbe sufficientemente mangiato di quanto presentogli con una cordialità meravigliosa, lo pregò di partecipargli la cagione di questo suo arrivo.

Camaralzaman soddisfece il giardiniere, e quando ebbe finito la sua storia senza nulla celargli, gli chiese a sua volta per quale strada avrebbe potuto ritornare agli Stati del re suo padre.

In risposta di quel che Camaralzaman chiedeva, il giardiniere gli disse che dalla città ove si trovava vi voleva un anno di cammino fino a’ paesi ov’erano mussulmani comandati da principi della loro religione, che per mare si giungeva all’isola d’Ebena in molto minor tempo, e che di là era più agevole il passare all’isola dei Fanciulli di Khaledan, che ciascun anno un naviglio mercantile andava all’isola d’Ebena e che avrebbe potuto cogliere quell’opportunità per ritornare al suo paese.

— Intanto, attendendo quello che partirà l’anno venturo, se aggradite di restare con me, io vi offro la mia casa qual è di buonissimo grado.

Il principe Camaralzaman si stimò felice d’aver trovato tale asilo in un luogo ove non conosceva nessuno, e dove non aveva nessun desiderio di far delle conoscenze, laonde accettò l’offerta e restò col giardiniere.

Lo lasceremo quivi per ritornare alla principessa Badoure, che noi abbiamo lasciata addormentata sotto la sua tenda.

La principessa Badoure dormì lungo tempo, e destandosi, stupì non vedendosi accanto il principe Camaralzaman.

Chiamate le sue ancelle, chiese loro se sapevano ov’egli fosse: e mentre quelle l’assicuravano d’averlo veduto entrare ma non uscire, ella scorse, ripigliando il suo cinto, la piccola borsa aperta e il talismano sparito. Dal che non dubitò che Camaralzaman l’avesse preso per vederlo e quindi riportarglielo: ma vedendo che sebbene fosse già notte avanzata egli non tornava, ne provò un’afflizione inesprimibile, maledicendo mille volte il talismano e chi l’aveva fatto.

Desolata oltre modo di tale avvenimento, prese una risoluzione poco comune alle persone del suo sesso.

Nel campo non v’erano che la principessa e le sue ancelle le quali sapessero esser Camaralzaman scomparso. Temendo ella non la tradissero, se l’avessero saputo, moderò il suo dolore e proibì alle sue donne di nulla dire, o di nulla fare che potesse destare il minimo sospetto. Poscia dimise il suo abito, e ne vestì uno di Camaralzaman al quale rassomigliava tanto, che i suoi famigliari la presero per lui quando loro impose di far fagotto e porsi in cammino. Allorché tutto fu pronto, fatta entrare una delle sue donne nella lettiga, salì a cavallo e si posero in cammino.

Dopo un viaggio di più mesi per terra e per mare la principessa giunse alla capitale dell’isola del regno d’Ebena, il di cui sovrano chiamavasi Armanos.

Tosto si sparse la voce che il vascello allora giunto portava il principe Camaralzaman di ritorno da un lungo viaggio e la fama ne andò sino al re, il quale accompagnato da gran parte della sua Corte, andò incontanente incontro alla principessa, la trovò sul punto di sbarcare.

Egli la ricevette come figliuolo di un re suo amico, con cui era andato sempre d’accordo e la condusse al suo palazzo. Le fece d’altra parte tutti gli onori immaginabili, e la trattò per tre giorni con una straordinaria magnificenza.

Quando i tre giorni furono passati vedendo il re Armanos come la principessa, da lui creduta il principe di Camaralzaman, parlava di rimbarcarsi e di continuare il suo viaggio, preso di amore per un principe sì ben fatto e di sì bell’aspetto, la chiamò in disparte e le disse:

— Principe, nell’età inoltrata in cui mi vedete, e con poca speranza di vivere ancora lungo tempo, ho il cordoglio di non avere un figliuolo cui lasciare il mio Regno. Il cielo m’ha dato solamente un’unica figliuola d’una bellezza sorprendente che non potrebbe meglio accompagnarsi se non con un principe sì ben fatto, di sì alta nascita e così cortese come voi. Invece di pensare a far ritorno al vostro regno, accettatela di mia mano colla mia corona, di cui mi spoglio sin d’ora.

L’offerta generosa del re dell’isola d’Ebena di dare la sua unica figliuola in consorte alla principessa Badoure, che non poteva accettarla essendo femmina, e di cedere i suoi Stati, l’immersero in un’angustia cui non s’attendeva.

Dichiarare al re non esser ella il principe Camaralzaman ma la sua consorte, era indegno di una principessa come lei di smentirsi dopo averlo assicurato d’essere questo principe ed averne sì ben sostenuta la parte sino allora.

Queste considerazioni e quelle d’acquistare un regno al principe suo marito, caso lo ritrovasse, determinarono la principessa ad accettare il partito proposto da Armanos.

Però, dopo esser rimasta alcuni momenti senza parlare, col viso in fiamme, che il re attribuì alla modestia, rispose:

— Sire, sono infinitamente obbligato a Vostra Maestà della buona opinione che ha di me, dell’onore che mi fa, e d’un sì gran favore da me immeritato, ma che non oso ricusare: io non accetto peraltro una sì grande alleanza se non a condizione che Vostra Maestà mi assisterà co’ suoi consigli, e che io non farò nulla prima ch’ella non l’abbia approvato!

Le nozze concluse in tal modo, la cerimonia ne fu fissata il giorno dopo.

Terminate le cerimonie, furon lasciate sole, e si coricarono. L’indomani, mentre la principessa Badoure riceveva in un’assemblea generale i complimenti di tutta la corte intorno alle sue nozze e come nuovo re, Armanos e la regina madre andarono all’appartamento della nuova regina loro figliuola, e le chiesero come avesse passata la notte.

Invece di rispondere ella chinò gli occhi, e la tristezza che le appariva sul viso fece chiaramente conoscere quanto poco fosse contenta.

Per consolarla, Armanos le disse:

— Figliuola mia ciò non deve farti disgusto, imperocché il principe Camaralzaman, qui approdando, non pensava se non ad andare il più presto possibile dal re Schahzaman suo padre. Pazientate ancora fino alla notte prossima; ho elevato vostro marito sul mio trono e saprò ben farnelo discendere e scacciarlo vergognosamente, se non vi dà la soddisfazione di cui ne avete diritto.

Quel dì, la principessa Badoure entrò assai tardi da Hayatalnefous, come nella notte precedente, conversò di nuovo con lei, e voleva fare anche la sua preghiera mentre ella si coricava: ma Hayatalnefous la rattenne, e l’obbligò a sedersi.

— Come – diss’ella – ditemi, ve ne supplico, in che può dispiacervi una principessa come me, la quale non solo vi ama, ma vi adora, e si stima la più felice di tutte le principesse del suo grado, avendo un principe sì amabile per marito? Ogni altra, all’infuori di me, oltraggiata in tal modo, avrebbe una bella occasione di vendicarsi abbandonandovi al vostro destino. Peraltro, anche quando non vi amassi come vi amo, commossa come sono alle sciagure delle persone che mi sono più indifferenti, non tralascerei d’avvertirvi qualmente il re mio padre è assai sdegnato del vostro procedimento, e se voi continuate in tal guisa farà pesar su voi non più lungi di domani gli effetti della sua giusta collera. Fatemi la grazia di non ispingere alla disperazione una principessa che non può a meno di amarvi!

Questo discorso pose la principessa Badoure in un inesprimibile impaccio.

Siccome la principessa Badoure era rimasta interdetta, Hayatalnefous proseguiva il suo discorso, quando l’interruppe dicendole:

— Amabile e troppo leggiadra principessa, io ho torto, lo confesso, e mi condanno da me medesima: ma spero terrete il secreto il quale sto per palesarvi, onde giustificarmi presso di voi.

Ciò detto, la principessa Badoure si scoprì il seno, soggiungendo:

— Vedete, principessa, se una donna come me non merita di esser perdonata. Son persuasa lo farete di buon grado quando vi avrò narrata la mia storia, e soprattutto l’affliggente sciagura che m’ha costretta a rappresentare la parte di cui siete testimone.

Quando la principessa Badoure ebbe terminato di farsi conoscere interamente alla principessa dell’isola d’Ebena, la supplicò una seconda volta di tenerle il segreto fino all’arrivo del principe Camaralzaman, il quale presto sperava rivedere.

— Principessa – rispose Hayatalnefous – sarebbe strano destino che un matrimonio felice come il vostro dovesse essere di sì poca durata dopo un amore reciproco pieno di meraviglie. Fo voti onde il cielo vi riunisca subito col vostro marito. Intanto io vi accerto di tenervi religiosamente il segreto confidatomi: e provo il più gran piacere d’esser la sola che vi conosca nel gran regno dell’isola d’Ebena, mentre continuerete degnamente a governare, come avete incominciato. Io vi chiedea amore, e presentemente mi dichiaro felicissima se non isdegnate concedermi la vostra amicizia!

Ciò detto le due principesse s’abbracciarono teneramente, e dopo mille dimostrazioni di reciproca amicizia si coricarono.

L’indomani il re Armanos andò nuovamente dalla figliuola, e avendola trovata ridente e festevole, argomentò che gli ardenti suoi voti fossero venuti soddisfatti.

Intanto il principe di Camaralzaman stava sempre nella città degl’Idolatri in casa del giardiniere.

Un giorno di buon mattino, mentre il principe si preparava a lavorare nel giardino secondo il solito, il frastuono che facevano due uccelli sopra un albero, l’obbligò ad alzare la testa.

Vide con sorpresa che quelli si battevano crudelmente col becco, cadendo poco dopo morto l’uno de’ due a piè dell’albero, mentre il vincitore postosi a volare, disparve. In quel mezzo due altri uccelli più grossi, avendo osservato il combattimento da lontano, arrivarono da un altro lato, si collocarono l’uno a piè e l’altro alla testa del morto, lo guardarono alcun tempo rimovendo la testa in segno di dolore, e gli scavarono una fossa colle loro zampe; poscia ve lo seppellirono.

Compiuta tal pietosa funzione i due uccelli disparvero, ritornando poco dopo tenendo col becco uno per un’ala e l’altro per un piede l’uccello assassino, il quale mandava spaventevoli grida e faceva grandi sforzi per sfuggire: ma gli altri due lo portarono sulla sepoltura del morto e là sacrificandolo per giusta vendetta dell’assassinio commesso, lo tolsero di vita a colpi di becco.

Da ultimo gli apersero il ventre, e lasciando il corpo sul luogo, se ne fuggirono.

Camaralzaman restò grandemente stupito di tale spettacolo. Si avvicinò all’albero, ove la scena era avvenuta, e guardando a caso le sparse interiora, scorse alcunché di rosso nello stomaco, abbandonato dagli uccelli vendicatori.

Osservando attentamente quanto aveva veduto di rosso, vide essere il talismano della principessa Badoure.

— Crudele – esclamò egli guardando l’uccello – eccomi vendicato del male fattomi!

Ciò detto, Camaralzaman baciò il talismano, l’avviluppò e lo legò accuratamente attorno al braccio.

L’indomani, appena giorno, quand’ebbe vestito il suo abito da lavoro, andò a prender gli ordini del giardiniere, il quale lo pregò di abbattere e sradicare un vecchio albero sterile.

Camaralzaman prese una scure, e pose mano all’opera; ma tagliando una radice dette su qualche cosa di resistente producendo gran rumore. Togliendo la terra scoprì una gran piastra di bronzo avente sotto una scala di dieci gradini, la quale immantinenti discese, e quando fu al basso vide una caverna di due o tre tese quadrate, ove contò cinquanta vasi di bronzo disposti con ordine e ciascuno con un coperchio.

Li scoprì l’uno dopo l’altro e li trovò tutti pieni di polvere d’oro. Uscì dalla caverna tutto lieto della scoperta fatta di un sì ricco tesoro; ripose la piastra sulla scala, e finì di sradicare l’albero aspettando il giardiniere di ritorno.

Questi aveva saputo il giorno innanzi che il vascello sarebbe partito di lì a pochi giorni, e ritornò con un volto allegro.

— Figliuol mio – gli disse – rallegratevi e preparatevi a partire fra tre giorni.

— Nello stato in cui sono – soggiunse Camaralzaman – non potevate annunziarmi nulla di più aggradevole: ed io in ricambio ho a parteciparvi una notizia oltremodo consolante. Abbiate la pazienza di venire con me, e vedrete la buona fortuna che il cielo vi manda!

Camaralzaman condusse il giardiniere al luogo ove aveva sradicato l’albero, lo fece discendere nella caverna, e quando gli ebbe fatta vedere la quantità dei vasi pieni di polvere d’oro, gli manifestò la sua gioia nel veder come Dio ricompensava la virtù.

— Che v’intendete dire – rispose il giardiniere – Voi v’ingannate, io non voglio appropriarmi questo tesoro: esso vi appartiene, ed io non vi ho nessuna pretensione, imperocché da ottant’anni dacché è morto mio padre, non ho fatto altro se non muovere la terra di questo giardino senza mai scoprirlo, laonde è una prova che era a voi destinato, poiché Dio ve l’ha fatto trovare.

Il principe Camaralzaman, non volendo cedere in generosità al giardiniere, ebbe seco una lunga discussione su ciò, protestando da ultimo che non avrebbe preso nulla assolutamente, se non si fosse tenuta la metà per sé: al che il giardiniere avendo acconsentito, si divisero i cinquanta vasi.

— L’operazione è fatta – disse il giardiniere. – Figliuol mio, si tratta presentemente d’imbarcare queste ricchezze sul vascello, e farlo sì segretamente che nessuno ne abbia sentore, altrimenti correte rischio di perderle. All’Isola d’Ebena non vi si trovano ulive, e quelle che vi si portano di qui sono di grande smercio. Come sapete, io ne ho una gran provvisione; però fa d’uopo prendere cinquanta vasi e riempirli metà di polvere d’oro e il resto di ulive al di sopra facendoli portare al vascello quando vi imbarcherete.

Camaralzaman seguì questo buon consiglio, adoperando cinquanta vasi: e siccome temeva perdere di nuovo il talismano della principessa Badoure, il quale portava al braccio, ebbe la precauzione di metterlo in uno di quei vasi, e di farvi un segno onde riconoscerlo.

Quando ebbe terminato di metter i vasi in istato di esser trasportati, siccome si avvicinava la notte, si ritirò col giardiniere e gli raccontò il combattimento de’ due uccelli, e come avesse ricuperato il talismano della principessa Badoure.

Fosse per la sua avanzata età, o per essersi dato troppo moto in quel giorno, il giardiniere passò una cattiva notte: il male aumentò e si trovò anche più infermo la mattina del terzo giorno.

Il Capitano del vascello e più marinai andarono alla porta del giardino, e chiesero a Camaralzaman qual fosse il passeggiero che doveva imbarcarsi sul loro vascello.

— Son io stesso – rispose egli – il giardiniere il quale ha noleggiato il posto per me è infermo e non può parlarvi, ma entrate e portate a bordo questi vasi di ulive, unitamente ai miei bagagli: vi seguirò appena avrò preso congedo da lui.

I marinai caricarono i vasi e i bagagli e il capitano partendo disse a Camaralzaman:

— Non mancate di venir subito, perché il vento è buono ed io aspetto voi solo per mettere alla vela.

Appena il capitano e i marinai furono partiti, Camaralzaman entrò dal giardiniere per prendere commiato da lui e in pari tempo ringraziarlo di tutti i buoni servigi resigli, ma lo trovò agonizzante e di lì a poco lo vide spirare.

Nella necessità in cui era il principe Camaralzaman d’andare ad imbarcarsi, si dette tutta la cura possibile per rendere gli ultimi uffici al defunto.

Lavò il suo corpo, lo seppellì e dopo avergli scavata una fossa nel giardino, lo sotterrò, indi senza por tempo in mezzo partì per andare ad imbarcarsi, portando seco anche la chiave del giardino, collo scopo di consegnarla a qualche persona di confidenza. Ma arrivando al porto seppe che il vascello aveva levato l’àncora da circa tre ore.

Il principe Camaralzaman, non ebbe altro partito a prendere se non di ritornare al giardino, d’onde era uscito, di prenderlo in affitto dal proprietario cui apparteneva, e di continuare a coltivarlo, deplorando la sua sciagura e la sua avversa fortuna.

Non potendo coltivarlo solo, prese a salario un servo, e per non perdere l’altra parte del tesoro, che per la morte del giardiniere rimasto senza eredi a lui ritornava, pose la polvere d’oro in cinquanta altri vasi, i quali finì di riempire di ulive, per imbarcarsi seco, quando gliene sarebbe venuto il destro.

Mentre il principe Camaralzaman ricominciava un’altr’anno di pene, di dolori e d’impazienza, il vascello continuava a navigare con un vento favorevolissimo giungendo felicemente all’isola d’Ebena.

Siccome il palagio era sulle rive del mare, il nuovo re o piuttosto la principessa Badoure, la quale scorse il vascello che stava per entrare in porto con tutte le bandiere spiegate al vento, domandò qual vascello fosse, e le fu risposto che veniva ogni anno dalla città degl’idolatri nella stessa stagione, e ordinariamente carico di ricche mercanzie.

Sotto pretesto di prendere essa medesima contezza delle mercanzie, e scegliere le più preziose, comandò di condurle un cavallo sul quale andò al porto accompagnata da molti ufficiali, e vi giunse quando il capitano era in procinto di sbarcare. Essa lo fece condurre al suo cospetto, e gli chiese donde venisse.

Il capitano soddisfece a tutte le domande; in quanto ai passeggieri assicurò non avere se non mercanti, i quali eran forniti di ricche stoffe, ambra grigia, canfora, droghe, ulive e diverse altre cose. La principessa Badoure amava le ulive appassionatamente, sì che appena ne intese parlare, disse al capitano:

— Io compro tutte quelle che avete; però fatele sbarcare subito, affinché ci combiniamo col prezzo. Riguardo alle altre mercanzie, avvertite i mercanti di portarmi quanto hanno di più bello, prima di farlo vedere ad altri.

— Sì – rispose il capitano, che la prendeva per il re d’Ebena, com’essa lo era di fatto per l’abito che vestiva – ve ne sono cinquanta vasi molto grandi che appartengono ad un mercante, che è rimasto a terra, dopo averlo io stesso avvertito ed atteso lungo tempo: ma veduto poi che non veniva più e che il suo ritardo m’impediva di profittare del buon vento, perdetti la pazienza e sciolsi le vele.

— Non tralasciate però di farle sbarcare – disse la principessa – questo non impedisce di convenirne il prezzo.

Il capitano mandò la sua scialuppa al vascello, la quale ritornò ben presto carica dei vasi d’olive.

Siccome era vicina la notte, Badoure si ritirò nell’appartamento della principessa Hayatalnefous; si fece portare i cinquanta vasi d’ulive, ne aprì uno per assaggiarne e darne ad altri, e le versò in un piatto.

Restò assai meravigliata al vedere le ulive mischiate alla polvere d’oro, sicché esclamò:

— Quale avventura! Qual meraviglia! – fece poscia aprire e vuotar gli altri vasi in sua presenza dalle ancelle di Hayatalnefous, e sempre più aumentava la sua ammirazione vedendo esser le ulive di ciascun vaso mischiate di polvere d’oro.

Ma quando si venne a vuotare quello in cui Camaralzaman aveva posto il suo talismano, e che ella lo ebbe scorto, ne fu tanto sorpresa che svenne.

La principessa Hayatalnefous e le sue ancelle soccorsero Badoure, e la fecero rinvenire gettandole dell’acqua sul viso.

Quand’ebbe ricuperato i sensi, prese il talismano e lo baciò più volte; poscia, non volendo dir nulla al cospetto delle ancelle della principessa, le accomiatò.

— Principessa – diss’ella ad Hayatalnefous appena furono sole – dopo quanto v’ho raccontato della mia storia, avete senza dubbio veduto che allo scorgere di questo talismano sono svenuta. Esso fu la causa che mi ha strappata dal principe Camaralzaman, mio marito.

Il giorno dopo, di buon’ora, la principessa mandò a chiamare il capitano del vascello, al quale disse quando le venne condotto innanzi:

— Datemi maggior contezza del mercante al quale appartenevano le ulive ch’io comperai ieri.

— Sire – rispose il capitano – Io aveva convenuto pel suo imbarco con un giardiniere assai vecchio, il quale mi disse che l’avrei trovato nel suo giardino di cui mi insegnò il luogo ove lavorava sotto di lui.

— Se la cosa è in tal guisa – soggiunse la principessa Badoure – egli è mestieri che mettiate di nuovo alla vela oggi medesimo, che ritorniate alla città degl’Idolatri e che mi conduciate qui quel giovane giardiniere il quale è mio debitore; altrimenti vi dichiaro che confischerò non solo le mercanzie che vi appartengono e quelle dei mercanti venuti con voi, ma anche la vostra vita e quella dei mercanti me ne risponderanno.

Il capitano non ebbe nulla da replicare a simile comando. Il vascello ebbe una felicissima traversata, e il capitano prese così bene le sue disposizioni da giungere di notte innanzi alla città degl’Idolatri: non fece gettar l’ancora, e mentre il vascello era in panna, sbarcò nella sua scialuppa in luogo poco discosto dal porto, andando tosto al giardino di Camaralzaman, con sei marinai. Camaralzaman intese picchiare alla porta del giardino.

Andò mezzo spogliato ad aprire: senza dirgli nulla il capitano ed i marinai s’impadronirono di lui: lo condussero alla scialuppa per forza, e menatolo a bordo del vascello, questi tosto partì.

Il vascello non ebbe una navigazione meno felice nel portar Camaralzaman all’isola d’Ebena, di quella avuta nell’andarlo a prendere nella città degl’Idolatri.

Sebbene fosse notte quando entrò nel porto, ciò nonostante il capitano non tralasciò di sbarcar subito e condurre tosto il principe Camaralzaman al palazzo.

La principessa Badoure, che già s’era ritirata nel palazzo interno, non appena fu avvertita del ritorno del capitano e dell’arrivo di Camaralzaman uscì per parlargli.

Immantinente guardò il principe Camaralzaman, per cui aveva versato tante lacrime dopo la loro separazione, e subito lo riconobbe sotto il suo umile abito.

Quando la principessa Badoure ebbe ben provveduto a quanto riguardava il principe Camaralzaman, si volse al capitano per ricompensarlo del servigio resole. Incaricò all’uopo un altro ufficiale d’andare imantinente a levare il suggello apposto alle sue mercanzie ed a quelle de’ mercanti, e l’accomiatò col dono di un ricco diamante, il quale lo risarcì al di là della spesa del viaggio fatto.

Gli disse anche di tenersi le mille piastre d’oro pagategli pe’ vasi di ulive, perché ne avrebbe convenuto essa medesima col mercante da lui condotto. Finalmente ritirossi nell’appartamento della principessa dell’isola d’Ebena cui partecipò la sua gioia, pregandola nondimeno di tenerle tuttavia il segreto.

L’indomani la principessa della China, sotto il nome, l’abito e l’autorità di re dell’isola d’Ebena, dopo aver preso cura di far condurre il principe Camaralzaman la mattina prestissimo al bagno e di farle vestire un abito d’Emir, o Governatore di provincia, lo fece introdurre nel consiglio, ove si cattivò l’ammirazione di tutti i signori ch’erano presenti pel suo bell’aspetto e pel maestoso suo portamento.

La principessa Badoure eziandio rimase appagata nel vederlo amabile come l’aveva scorto le tante volte, il che l’animò di più a farne l’elogio in pieno consiglio.

Uscendo dal Consiglio, il principe fu condotto da un ufficiale in un grande appartamento fatto preparare per lui dalla principessa Badoure, ove trovò ufficiali e servitori pronti a ricevere i suoi ordini, e una scuderia fornita di bellissimi cavalli, il tutto per sostenere la dignità d’Emiro statagli conferita.

Quando si fu ritirato nel suo scrittoio, il suo intendente gli presentò un forziere pieno d’oro per le sue spese. A capo di due o tre giorni, la principessa Badoure, per dare al principe Camaralzaman maggiore accesso alla sua persona, ed insieme per fargli godere maggior riguardo, gli conferì l’ufficio di gran Tesoriere.

Adempì a’ suoi doveri con tanta integrità, obbligando oltre a ciò tutti, che s’acquistò non solo l’amicizia dei signori della Corte, ma anche si guadagnò il cuore di tutto il popolo.

La principessa Badoure, d’accordo colla principessa Hayatalnefous, chiamò in disparte il principe Camaralzaman, dicendogli:

— Camaralzaman, ho a parlarvi d’un affare di lunga discussione su cui ho bisogno di consultarvi: e siccome non vedo possa farsi più comodamente della notte, venite questa sera, e lasciate detto di non attendervi, perché penserò io a darvi un letto.

Camaralzaman non mancò d’andare a palazzo all’ora indicata dalla principessa. Ella lo fece entrare con lei nel palazzo interno, e dopo aver detto al capo degli eunuchi, di non aver bisogno dei suoi servigi, e che tenesse solamente la porta chiusa, lo condusse in un appartamento, diverso da quello della principessa Hayatalnefous, ove era solito coricarsi.

Quando il principe e la principessa furono nella camera da letto, e ne fu chiusa la porta, la principessa trasse il talismano da una cassa e presentollo a Camaralzaman dicendogli:

— Non ha guari un astrologo m’ha donato questo talismano; essendo voi valente in tutto, potreste dirmi a che serve?

Camaralzaman prese il talismano ed avvicinossi ad una candela per considerarlo: ma appena l’ebbe riconosciuto, con una sorpresa che fece piacere alla principessa, esclamò:

— Sire, Vostra Maestà mi chiede a che serve questo talismano: ohimè! serve a farmi morir di cordoglio, se non trovo subito la più leggiadra ed amabile principessa dell’universo cui ha appartenuto, e di cui m’ha cagionato la perdita! E me l’ha cagionata per una strana avventura il cui racconto ecciterà la compassione di Vostra Maestà, per un marito e per un amante sciagurato come me, se vuol avere la pazienza di ascoltarmi.

— Me ne parlerete un’altra volta – rispose la principessa – ho il piacere di dirvi che ne so già qualche cenno. Intanto aspettatemi un momento, or ora ritorno.

Ciò detto la principessa Badoure entrò in un camerino, ove si spogliò del turbante reale, e dopo aver presa in pochi minuti un’acconciatura ed una veste da donna, col cinto che aveva nel giorno della loro separazione, rientrò nella camera.

Il principe Camaralzaman riconobbe subito la sua cara principessa, e corse a lei allacciandola teneramente, esclamando:

— Ah! quanto sono obbligato al re d’avermi sì piacevolmente sorpreso!

— Non aspettate di rivedere il re – disse la principessa abbracciandolo a sua volta con le lagrime agli occhi – vedendo me, voi vedete il re. Sediamoci, affinché io vi spieghi l’enigma.

Eglino s’assisero, e la principessa raccontò al principe ogni cosa. Quando la principessa Badoure ebbe terminato, volle che il principe le narrasse per quale avventura il talismano era stato causa della loro separazione. Egli gliene portò le ragioni di cui abbiamo parlato: indi siccome era molto tardi, andarono a dormire.

La principessa avea smesso l’abito reale per ripigliare l’abito femminile, e quando fu vestita, mandò il capo degli eunuchi a pregare il re Armanos, suo suocero, di compiacersi di andare nel suo appartamento.

Quando il re Armanos vi giunse, fu assai meravigliato di vedere una donna sconosciuta ed il gran Tesoriere. Sedendosi chiese ove fosse il re.

— Sire – rispose la principessa – ieri io era il re, ed oggi sono la principessa della China, moglie del vero principe Camaralzaman, legittimo figlio del re Schahzaman. Se la Maestà Vostra vuol avere la pazienza di ascoltare la nostra istoria, spero non mi condannerà d’averlo tratto in un sì innocente inganno.

Il re Armanos le prestò orecchio, ed ascoltò con maraviglia dal principio alla fine ciò che quella narrogli. Nel terminare aggiunse:

— Sire, avvegnaché nella nostra religione le donne sian poco contente della libertà che hanno i mariti di prendere più mogli, pur nondimeno se la Maestà Vostra consente di dare la principessa Hayatalnefous, sua figliuola, in isposa al principe Camaralzaman, io volentieri le cedo il grado e la qualità di regina che per diritto le appartiene, e mi contento del secondo grado.

Il re Armanos ascoltò il discorso della principessa con ammirazione, e quando ella ebbe terminato, rivoltosi al principe Camaralzaman gli disse:

— Figliuol mio, poiché la principessa Badoure vostra consorte, che io ho tenuta finora come mio genero per un inganno di cui non posso lagnarmi, mi assicura di esser contenta di dividere il vostro letto colla mia figliuola, non mi resta più se non sapere se voi la volete sposare.

— Sire – rispose il principe Camaralzaman – sebbene sia vivissimo il desiderio di rivedere mio padre, le obbligazioni che professo sì alla Maestà Vostra come alla principessa Hayatalnefous sono tanto grandi, che non posso per nulla ricusarmi.

Camaralzaman fu proclamato re e maritato lo stesso giorno con grande magnificenza, restando soddisfattissimo della bellezza, dello spirito e dell’amore della principessa Hayatalnefous.

In seguito le due regine continuarono a vivere insieme colla stessa amicizia e la stessa unione di prima, e paghe dell’uguaglianza con cui le trattava il principe Camaralzaman.

Esse gli dettero ciascuna un figliuolo lo stesso anno, quasi nello stesso tempo, e la nascita dei due principini fu celebrata con grandi feste.

Camaralzaman impose il nome di Amgiad al primo che la regina Badoure aveva partorito, e Assad a quello che la regina Hayatalnefous aveva messo alla luce.

I due principini furono allevati con una gran cura e quando vennero grandi ebbero lo stesso agio, i medesimi precettori nelle scienze e nelle belle arti, e lo stesso maestro in ciascun esercizio. La grande amicizia che nutrivano l’uno per l’altro fin dalla loro infanzia aumentò sempre più.

Come i due principi erano egualmente belli, le due Regine avevano concepito per essi un’incredibile tenerezza, sì che la principessa Badoure aveva maggiore inclinazione per Assad, figliuolo della regina Hayatalnefous, anzi che per Amgiad suo proprio figliuolo: e viceversa.

Le due regine, non essendosi fatto un segreto della loro passione e non avendo il coraggio di dichiararla a voce al principe che ciascuna di essa amava in particolare, convennero di palesarla ognuna per mezzo di un biglietto: e per l’esecuzione di un sì pernicioso disegno approfittarono dell’assenza del re Camaralzaman per una caccia.

Il giorno della partenza del re, il principe Amgiad, presiedette il consiglio, e fece giustizia fino a due o tre ore dopo mezzogiorno.

All’uscir del consiglio, siccome rientrava nel palazzo, un eunuco lo prese in disparte e gli presentò un biglietto da parte della regina Hayatalnefous, che Amgiad prese e lesse con orrore.

— Come, perfido – disse all’eunuco – è questa la fedeltà che serbi al tuo padrone, al tuo re?

Ciò detto gli tagliò la testa.

Poscia Amgiad incollerito andò dalla regina Badoure sua madre, con un volto che mostrava il suo risentimento, le presentò il biglietto, e le dette contezza del contenuto dopo averle palesato da qual parte venisse.

La regina Badoure poteva ben giudicare dall’esempio del suo figliuolo Amgiad che il principe Assad, il quale non era men virtuoso, non riceverebbe più favorevolmente la di lei dichiarazione.

Ciò peraltro non l’impedì dal persistere in un disegno sì abbominevole, l’indomani scrisse un biglietto, il quale confidò ad una vecchia che aveva accesso nel palazzo. La vecchia colse anch’essa l’occasione di dare il biglietto al principe Assad all’uscir del consiglio, dopo ch’egli avea finito di presiederlo.

Il principe lo prese, e nel leggerlo si lasciò talmente trasportare dallo sdegno che senza finir di leggere trasse la sciabola e punì la vecchia. Corse all’appartamento della regina Hayatalnefous sua madre col biglietto in mano, e voleva mostrarglielo: ma essa non gli dette nemmeno il tempo di parlare:

— So quello che volete dirmi, voi siete un impertinente come vostro fratello Amgiad: andate, ritiratevi e non comparite mai più innanzi a me!

Assad rimase interdetto a tali parole che non si attendeva, e si ritirò senza replicare.

Le due regine, disperate d’aver rinvenuto nei due principi una virtù che avrebbe dovuto farle entrare in loro medesime, rinunciarono ad ogni sentimento di natura e di madre e s’accordarono sul modo di farli pentire.

Laonde dettero ad intendere alle loro donne d’averle i principi volute forzare, facendone tutte le finzioni, colle loro lacrime, colle loro grida, e colle maledizioni, e si coricarono nell’istesso letto, come se la resistenza ch’esse finsero d’aver fatta, le avesse ridotte agli estremi.

L’indomani il re Camaralzaman, al suo ritorno dalla caccia, maravigliato di vederle coricate insieme in uno stato che seppero ben fingere, e che lo mosse a compassione, le richiese quanto fosse loro accaduto.

A questa domande, le dissimulatrici regine raddoppiarono i loro gemiti ed i loro singhiozzi, e dopo molte istanze la regina Badoure prese alfine la parola dicendogli:

— Sire, pel giusto dolore cui siamo oppresse, non dovremmo vedere la luce dopo l’oltraggio che i principi vostri figliuoli ci hanno fatto con una brutalità senza esempio. Per un complotto indegno della loro nascita, la vostra assenza ha inspirato loro l’ardire e l’audacia d’attentare al nostro onore.

Il re fece chiamare i due principi, ed avrebbe loro tolta la vita di propria mano. Il vecchio re Armanos, suo suocero, lo pregò onde volesse ben bene esaminare se avessero commesso il delitto di cui venivano accusati.

Camaralzaman seppe padroneggiare sé stesso per non essere il carnefice dei suoi propri figliuoli, ma dopo averli fatti imprigionare, fece venire verso sera un emiro chiamato Giondar, cui commise di andar loro a tor la vita fuori della città e di non tornare senza portargli i loro abiti in segno dell’esecuzione dell’ordine datogli.

Giondar camminò tutta la notte, ed il giorno appresso, sceso da cavallo, comunicò a’ principi colle lacrime agli occhi l’ordine ricevuto.

— Fate il vostro dovere! – risposero i principi.

Ciò detto, s’abbracciarono, e si dettero l’estremo addio. Il principe Assad pel primo si mise in istato di ricever la morte, dicendo a Giondar:

— Cominciate da me, affinché non abbia il dolore di veder morire il mio caro fratello Amgiad!

Amgiad vi si oppose. Finalmente terminarono quella reciproca deferenza sì commovente, e pregarono Giondar di legarli insieme, e di metterli nella più comoda situazione per dar loro il colpo di morte nell’istesso tempo.

Giondar concesse a’ due principi quanto desideravano, e dopo averli situati nel modo che credé più acconcio per tagliar loro il capo d’un sol colpo, li legò e domandò loro se avevano qualche cosa a domandargli prima di morire.

— Non vi preghiamo che d’una sola cosa – risposero i principi – cioè di assicurare il re nostro padre, al vostro ritorno, che moriamo innocenti, ma che non gl’imputiamo l’effusione del nostro sangue. Difatti noi sappiamo che egli non sa bene la verità sul delitto di cui siamo accusati!

Giondar, dopo aver loro promesso di obbedirli trasse fuori la sciabola, dalla quale azione e dal luccicar del ferro, spaventato il suo cavallo, ruppe la briglia, e fuggì, mettendosi a correre con quanta lena aveva per la campagna.

Era un cavallo di gran prezzo e riccamente bardato che Giondar avrebbe avuto grandissimo dispiacere di perdere; laonde turbato da questo accidente, invece di tagliar la testa ai principi, gettò la sciabola e gli corse dietro per afferrarlo.

Il cavallo, lo condusse fino ad un bosco, ove entrato Giondar ve lo seguì e i nitriti del cavallo avendo svegliato un leone, questo accorse, ed invece di andare verso il cavallo, andò dritto a Giondar: appena lo ebbe veduto, Giondar non pensò più al suo cavallo, e fu in grandissimo impaccio per la conservazione della sua vita.

— In questo frangente Iddio non mi manderebbe questo castigo – disse egli tra se stesso – se i principi cui mi si è comandato togliere la vita non fossero innocenti, e per mia maggior sciagura non ho neppure la sciabola per difendermi!

Durante l’allontanamento di Giondar ai due principi venne una sete ardente. Il principe Amgiad fece osservare al principe suo fratello una vicina sorgente d’acqua, e gli propose di sciogliersi e di andare a bere.

Amgiad si sciolse e sciolse anche il principe suo fratello: indi andarono alla sorgente ove dopo essersi rinfrescati intesero il ruggito del leone, e grandi grida nel bosco in cui il cavallo e Giondar erano entrati.

Amgiad prese subito la sciabola che Giondar aveva gettata, e disse al fratello:

— Assad, corriamo in soccorso dello sciagurato Giondar: forse arriveremo in tempo per liberarlo dal pericolo che lo sovrasta.

I due principi, senza perder tempo, arrivarono mentre il leone atterrava Giondar.

Il leone, vedendo il principe Amgiad avanzar verso lui colla sciabola alzata, lasciò la sua preda e gli andò furiosamente incontro ma il principe lo ricevette con intrepidità, e gli dette un colpo con tanta forza e destrezza, che lo fece cader morto.

Appena Giondar ebbe conosciuto di dover la vita ai due principi, si gettò ai loro piedi.

— Principi – disse – Dio non voglia ch’io attenti alla vostra vita dopo il grandissimo soccorso datomi. Non si rimprovererà mai all’emiro Giondar d’essere stato capace di tanta ingratitudine!

— Il servigio resovi – risposero i principi – non deve farvi tralasciare di eseguire l’ordine ricevuto, ma riprendiamo prima il vostro cavallo, e poscia ritorneremo al posto ove ci avete lasciati.

Non durarono molta fatica a riprendere il cavallo il quale per la stanchezza s’era fermato, ma quando furono di ritorno alla sorgente, non poterono persuadere l’emiro di toglier loro la vita.

— La sola cosa che prendo la libertà di domandarvi, – disse loro – si è di accomodarvi alla meglio con quello che vi posso dare del mio abito, di darmi ciascuno il vostro, e di andare a vivere in lontani paesi onde il re vostro padre non senta mai più parlare di voi.

I principi fecero quanto voleva, e dopo avergli dato ciascuno il proprio abito ed essersi coperti di quanto loro dette del suo, insieme all’oro e all’argento che aveva indosso, l’emiro Giondar tolse commiato da essi. Separandosi Giondar dai principi, tinse i loro abiti nel sangue del leone, e continuò il suo cammino fino alla capitale dell’isola d’Ebena.

Al suo arrivo il re Camaralzaman gli chiese se avea fedelmente eseguito l’ordine datogli.

— Sire – rispose Giondar presentandogli gli abiti de’ due principi – eccone le prove.

— Ditemi – soggiunse il re – in qual modo hanno ricevuto il mio castigo?

— Sire, con un’ammirabile costanza e con somma rassegnazione, la quale mostrava la sincerità con cui professavano la loro religione:

— Noi morriamo innocenti – dicevano essi – ma non ce ne lagnamo e riceviamo la nostra morte dalla mano di Dio, e la perdoniamo al re nostro padre, essendo certi che non ha saputa la verità!

Camaralzaman sensibilmente commosso dal racconto dell’emiro Giondar, volle frugare nelle tasche degli abiti dei due principi, cominciando da quello di Amgiad, nel quale trovò un biglietto, che aprì e lesse.

Com’ebbe conosciuto esser la regina Hayatalnefous che l’aveva scritto, non solo dal carattere ma eziandio da una piccola ciocca di capelli in esso contenuti, fremette.

Poscia frugò in quello d’Assad ed il biglietto della regina Badoure rinvenutovi gli cagionò uno stupore sì subitaneo che svenne.

Nessun dolore fu eguale a quello cui Camaralzaman dette segni non dubbi appena ricuperò i sensi.

— Che hai tu fatto, barbaro padre! – esclamò egli – Io mi sono gettato da me stesso in questa abbominevole azione, ed è questo il castigo di cui Dio m’affligge per non aver persistito nell’avversione delle femmine, nella quale son nato. Io non laverò il vostro delitto col sangue, come meritereste, detestabili donne, perché siete indegne della mia collera: ma che il cielo mi fulmini se mai più vi rivedo!

Il re Camaralzaman tenne religiosamente il suo giuramento. Fece passare le due regine lo stesso giorno in un appartamento separato, ove restarono sotto buona guardia, e per tutta la vita non le avvicinò.

Mentre il re Camaralzaman si affliggeva in tal modo per la perdita dei principi suoi figliuoli, essi erravano nei deserti. In capo ad un mese giunsero ai piedi d’una spaventevole montagna tutta di pietre nere ed inaccessibile. Pur nondimeno s’accorsero d’un cammino battuto: perciò fattisi coraggio salirono.

Più s’avanzavano, più sembrava loro alta e scoscesa, e furono più volte tentati di desistere dalla loro impresa.

Dopo una mezz’ora di riposo, Assad fece uno sforzo, ed arrivarono finalmente alla cima della montagna, ove fecero un’altra pausa. Amgiad s’alzò, ed avanzandosi, scorse un albero a poca distanza, a cui si accostò, e vide che era un melagrano carico di grossi frutti, vicino al quale eravi una fontana.

Ei corse ad annunciare la buona notizia ad Assad, e condottolo sotto l’albero vicino alla fontana, si rinfrescarono mangiando ciascuno una melagrana: dopo di che si addormentarono.

Il giorno dopo, quando i principi furono desti, Amgiad disse ad Assad:

— Andiamo, fratel mio, proseguiamo il nostro cammino; vedo che la montagna è meno aspra da questa parte che dall’altra, d’altronde non dobbiamo che discendere. – Ma Assad era stanco.

— Fratel mio – disse allora Amgiad ad Assad – se siete del mio avviso, resterete in qualche luogo, ove verrò a ritrovarvi, mentre io andrò ad informarmi come si chiama quella città, in qual paese siamo, e ritornando vi porterò dei viveri.

— Io non lo permetterò mai – replicò Assad – e se mi accade qualche cosa, avrò almeno la consolazione di sapervi in libertà.

Amgiad fu obbligato a cedere e si fermò sotto gli alberi. Il principe Assad prese del denaro nella borsa comune, e continuò a camminare fino alla città. Appena entrato nella prima strada, vide un venerabile vecchio, ben vestito e con un bastone in mano. Egli lo chiamò dicendogli:

— Signore, vi supplico d’insegnarmi per dove si va alla piazza pubblica.

— Siate il benvenuto – rispose il vecchio. – Il nostro paese si tien molto onorato quando un giovane ben fatto come voi si è presa la pena di venirlo a vedere. Ditemi, quali affari avete sulla piazza?

— Signore – rispose Assad – son quasi due mesi che un mio fratello ed io siamo partiti da un paese assai lontano di qui e senza mai interrompere il nostro cammino siamo arrivati oggi soltanto. Mio fratello, stanco d’un sì lungo viaggio, è rimasto alle falde della montagna, mentre io son venuto a cercare dei viveri per me e per lui.

— Figliuol mio – continuò nuovamente il vecchio – voi siete giunto molto opportunamente, e ne godo per voi e per vostro fratello. Io ho dato oggi un gran pranzo a parecchi miei amici, e del quale è restata una quantità di vivande non toccate da nessuno: venite meco, io ve ne darò a mangiare finché vi satolliate, e quando avrete fatto ciò, ve ne dorò dell’altro per voi e per vostro fratello da poter vivere più giorni.

— Io vi sono infinitamente obbligato – rispose il principe Assad – della vostra bontà, e confidando intieramente in voi, son pronto a venire ovunque vi piacerà.

Il vecchio, continuando a camminare con Assad a fianco, si rideva di lui, e per timore ch’egli non se ne accorgesse, gli diceva molte cose, onde restasse nella buona opinione che aveva concepito.

Il vecchio arrivò finalmente a casa, e introdusse Assad in una gran sala, ove eranvi quaranta altri vecchi, intorno a un gran fuoco. A tale spettacolo il principe Assad ebbe orrore e spavento nel vedersi ingannato, e trovarsi in un sì abbominevole luogo.

Mentre era immobile per lo stupore, lo scaltro vecchio salutò i quaranta compagni, dicendo:

— Devoti adoratori del fuoco, ecco un felicissimo giorno per noi. – Ed aggiunse: – Ov’è Gazban? Lo si faccia venire.

A queste parole, un nero apparve, si avvicinò ad Assad, lo gettò a terra con un schiaffo, lo legò per le braccia con una maravigliosa destrezza, e quando ebbe terminato:

— Conducilo là a basso – gli comandò il vecchio – e non mancar di dire alle mie figliuole Bostane e Cavame di bastonarlo ciascun giorno, dandogli un pane la mattina ed un altro la sera per tutto nutrimento: ciò è sufficiente onde farlo vivere fino alla partenza del vascello pel Mare azzurro e la Montagna del fuoco, ove ne faremo un piacevole sacrificio alla nostra Divinità!

Appena il vecchio ebbe dato l’ordine crudele, Gazban afferrò Assad, lo fece discendere sotto la sala e dopo averlo fatto passare per più porte, lo cacciò in un carcere, e l’attaccò pei piedi ad una catena molto grossa e pesante. Come ebbe fatto questo andò ad avvertire le figliuole del vecchio.

Bostane e Cavame, nudrite dell’odio contro i Mussulmani, ricevettero quell’ordine con gioia e condottesi incontanente nel carcere spogliarono Assad bastonandolo spietatamente, fino a fargli zampillar il sangue e perdere i sensi. Dopo un’esecuzione sì barbara, gli posero vicino un pane con un vaso d’acqua e si ritirarono.

Il principe Amgiad attese suo fratello Assad fino alla sera alle falde della montagna con grande impazienza. Passò la notte in una inquietudine desolante, e quando il giorno apparve, s’incamminò verso la città nella quale fu dapprima meravigliato di vedere se non pochissimi Musulmani, di cui fermò il primo nel quale s’imbatté, pregandolo di dirgli come la città si chiamasse. Gli venne risposto essere la città de’ Magi, così detta, a cagione che i Magi adoratori del Fuoco vi erano in gran numero, essendovi pochi mussulmani.

E continuò il suo cammino andando in tutta fretta.

Amgiad, percorrendo la città si fermò innanzi alla bottega di un sarto che conobbe per mussulmano al suo abito, come aveva conosciuto quello a cui aveva parlato: ed entratovi si sedé vicino a lui dopo averlo salutato, e gli raccontò la cagione del dolore da cui era oppresso. Quando il principe Amgiad ebbe terminato, il sarto gli rispose:

— Se vostro fratello è caduto nelle mani di qualche mago, potete accertarvi di non rivederlo mai più. Egli è perduto senz’altro: ed io vi consiglio a consolarvene, e a preservarvi da siffatta disgrazia. Però se vi piace, resterete con me, ed io v’istruirò di tutte le astuzie di questi Magi, affinché vi guardiate da essi quando uscite.

Amgiad, afflittissimo d’aver perduto il suo fratello Assad, accettò l’offerta, e ringraziò mille volte il sarto della bontà che avea per lui. Il principe Amgiad non uscì per la città se non in compagnia del sarto per tutto un mese, ma finalmente s’avventurò di andare solo fino al bagno. Al ritorno, passando per una strada ove non era alcuno, vide venirgli di fronte una signora, la quale nello scorgere un giovane di bell’aspetto e tutto fresco, alzossi il velo e gli domandò con volto ridente ed adocchiandolo ove andasse.

Amgiad non poté resistere ai di lei vezzi e rispose:

— Signora, io vado a casa mia, o a casa vostra, come desiderate, – e così dicendo pensava di lasciarsi condurre dal caso pur di godere le carezze di una sì bella signora.

Il principe la condusse lungo tempo di strada in strada, di viottolo in viottolo, ed erano l’uno e l’altra stanchi di camminare, quand’egli s’internò in una strada al cui termine era una casa bell’apparenza con una gran porta chiusa e con due sedili, l’uno da un lato, e l’altro dalla parte opposta.

Amgiad si sedette sopra l’uno come per voler riprender fiato, e la signora, più stanca di lui, si sedette sull’altro. Quando la signora fu seduta, disse al principe Amgiad:

— È questa dunque la vostra casa?

— Voi la vedete, signora – rispose il principe.

— Perché dunque non aprite – soggiunse ella – che aspettate?

— Mia bella – replicò Amgiad – non ho la chiave, avendola lasciata al mio schiavo.

— Ecco uno schiavo impertinente.

Ciò detto s’alzò, prese una pietra e andò per rompere la toppa, la quale era di legno e assai debole, secondo l’uso del paese.

— Entrate – soggiunse ella – attenderemo meglio dentro, anziché fuori, l’arrivo del vostro schiavo.

Il principe Amgiad entrò assai di malgrado in una corte spaziosa e magnificamente selciata. Dalla corte salì ad un gran vestibolo, donde videro egli e la signora una gran camera aperta e molto ben addobbata, ed in essa una mensa su cui erano apprestate squisite vivande, con un’altra carica di bottiglie di vino. Quando Amgiad vide quegli apparecchi, non dubitò più della sua perdita, e disse tra sé:

— È finita per te, povero Amgiad; tu non sopravviverai lungo tempo al tuo caro fratello Assad.

La signora al contrario, rapita da quel piacevole spettacolo, esclamò:

— Eh, signore, il vostro schiavo ha fatto più che voi non credevate. Ma se non m’inganno, questi preparativi sono per ben altra signora: ma non monta; venga pure questa signora, io vi prometto di non esserne gelosa.

Dopo i primi bocconi, la signora prese un bicchiere ed una bottiglia, si versò da bere e bevve la prima alla salute d’Amgiad. Quando ebbe bevuto, riempì il bicchiere, e glielo presentò ed egli le rese il contraccambio.

Erano alla frutta quando giunse il padrone di casa il quale era grande scudiere del re dei Magi, e si chiamava Bahader. La casa gli apparteneva, ma ne aveva un’altra ove ordinariamente abitava. Questa non gli serviva se non a’ sollazzi con tre o quattro amici eletti.

Bahader giunse senza seguito, e travestito, come ordinariamente faceva, rimanendo non poco sorpreso di vedere la porta della sua casa forzata. Entrò senza far strepito, e avendo inteso parlare nella camera, andò rasente al muro facendo capolino alla porta per vedere chi vi fosse dentro.

La signora, stando colle spalle voltate, non poteva vedere il grande scudiere: ma Amgiad lo scorse subito; egli cangiò di colore nel vederlo, e guardava fisso Bahader, il quale gli fece segno di non dir parola e di andare a parlargli. Amgiad si alzò, al che la signora gli chiese:

— Dove andate?

— Signora – ei le rispose – restate, vi prego, or ora vengo.

Bahader lo condusse nella corte onde parlargli senza essere inteso dalla signora.

Quando Bahader ed il principe Amgiad furono nella corte, Bahader chiese al principe per quale avventura si trovasse in casa sua colla signora, e perché ne avesse forzata la porta.

— Signore – rispose Amgiad – io debbo sembrare assai colpevole agli occhi vostri, ma se volete aver la pazienza di ascoltarmi, spero mi troverete innocentissimo.

Proseguì il suo discorso e gli raccontò in poche parole come stava la cosa, senza nulla occultare: e per ben persuaderlo non esser capace di un’azione tanto indegna quanto quella di forzare una porta, non gli celò esser egli principe.

— Principe, provo una gioia estrema di potervi servire in questa occasione strana, come quella che m’avete raccontata. Lungi dal turbar la festa, avrò un grandissimo piacere di contribuire alla vostra soddisfazione. Prima di comunicarvi quel che penso a tale proposito, ho l’onore di dirvi essere io grande scudiere del re, e mi chiamo Bahader. Ho una casa ove dimoro ordinariamente, e in questa vengo qualche volta per stare con più libertà co’ miei amici. Voi avete fatto credere alla vostra bella di avere uno schiavo, quantunque non l’abbiate; or io voglio essere questo schiavo. Andate intanto a rimettervi al vostro luogo, e quando verrò fra poco presentandomi a voi in abito di schiavo, sgridatemi e battetemi; vi servirò per tutto il tempo che starete a tavola e fino alla notte, restando a dormire in casa mia, voi e la signora, cui domani mattina congederete onorevolmente. Dopo ciò sarà mio pensiero di rendervi dei servigi di maggior conseguenza. Intanto per ora andate, e non perdete tempo.

Non appena Amgiad rientrò nella camera, giunsero gli amici del grande scudiere, il quale li pregò cortesemente di volerlo scusare se non li riceveva, quel giorno, dicendo loro che ne approverebbero la cagione, quando il dì successivo ne li avrebbe informati.

Appena se ne furono andati, uscì e corse a mettersi in abito da schiavo.

Il principe Amgiad raggiunse la signora, contentissimo che il caso l’avesse condotto in un’abitazione appartenente ad un uomo tanto distinto, il quale l’aveva trattato così cortesemente.

Riponendosi a tavola, disse alla signora:

— Vi chieggo mille perdoni della mia inciviltà, e della collera che provo per l’assenza del mio schiavo: ma il tristo me la pagherà, e gli farò vedere se deve star fuori tanto tempo!

— Ciò non deve inquietarvi – soggiunse la signora.

Essi dunque continuarono a stare a tavola con maggior piacere, bevendo e mangiando fino all’arrivo di Bahader travestito da schiavo, che appena entrato si gettò a’ suoi piedi baciando la terra, per implorare la sua clemenza.

— Iniquo – gli disse Amgiad con sguardo e tono di collera – dimmi, se trovasi nell’universo uno schiavo più tristo di te?

— Signore, vi chieggo perdono – rispose Bahader – non credeva che vi ritiraste così per tempo.

— Tu sei un briccone – ripigliò Amgiad – ed io t’accopperò per insegnarti a non mentire, e a non mancare al tuo dovere!

Ciò detto s’alzò, prese un bastone e gli dette due o tre colpi assai leggermente, dopo la qual cosa si rimise a tavola.

Ma la signora, non contenta di simile castigo, alzatasi prese il bastone e gli dette una gran quantità di legnate.

Amgiad scandalizzato di vedere maltrattare in quel modo un Ufficiale del re, aveva bel gridare esser ciò sufficiente; ella batteva sempre. Amgiad fu costretto ad alzarsi ed a strapparle il bastone: ma essa non potendolo più battere, si sedette al suo posto dicendogli mille ingiurie.

Bahader si asciugò le lacrime, e rimase in piedi per versar loro da bere; poscia, sparecchiò la tavola, spazzò la sala, pose ogni cosa al suo posto, e quando fu notte accese le candele.

Ogni qualvolta usciva od entrava, la dama non mancava d’ingiuriarlo e minacciarlo con gran malcontento di Amgiad, il quale voleva chiedergli scusa e non osava dirgli nulla.

Quando fu ora di coricarsi, Bahader preparò un letto sul sofà e si ritirò in una camera dirimpetto, dove non istette molto ad addormentarsi, dopo tanta fatica durata. Amgiad e la dama conversarono ancora per una buona mezz’ora e prima di riposarsi la dama ebbe bisogno di uscire.

Passando sotto il vestibolo, udì russare Bahader, e ricordandosi d’aver veduta una sciabola nella sala, nel rientrarvi disse ad Amgiad:

— Signore, vi prego di fare una cosa per amor mio.

— Di che si tratta, ed in che posso farvi piacere? – rispose Amgiad.

— Fatemi la grazia di prender questa sciabola – soggiuns’ella – e di andare a tagliar la testa al vostro schiavo.

— Signora, vi compiacerò, poiché lo desiderate; datemi la sciabola.

— Venite, seguitemi senza far rumore, affinché non si desti.

Entrarono nella camera ov’era Bahader, ma invece di ferir lui, Amgiad dette un colpo alla dama e le tagliò la testa, la quale rotolò su Bahader.

Il grande scudiere, svegliatosi di soprassalto, stupì nel vedere Amgiad colla sciabola insanguinata e il corpo della dama a terra, onde gliene chiese il motivo.

Amgiad gli raccontò come fosse la cosa, terminando così la sua narrazione:

— Per impedire a questa furibonda di togliervi la vita, non ho trovato altro mezzo se non quello di toglierla a lei medesima.

— Signore – rispose Bahader pieno di riconoscenza – le persone del vostro grado e tanto generose non sono capaci di favorire azioni così inique. Voi siete il mio liberatore, ed io non posso a sufficienza ringraziarvene.

Dopo averlo abbracciato per dimostrargli quanto gli fosse obbligato, gli disse:

— Prima che faccia giorno è mestieri trasportare questo cadavere fuori di qui, ciò che m’accingo a fare.

Amgiad vi si oppose, dicendo doverlo egli trasportare, avendo commesso l’omicidio: ma Bahader soggiunse:

— Un nuovo venuto in questa città come voi non vi riuscirebbe. Lasciate fare a me, e restate qui in riposo. Se non vengo prima di giorno è segno che la pattuglia mi ha sorpreso: nel qual caso vi faccio in iscritto una donazione della casa e di tutte le suppellettili.

Appena Bahader ebbe scritta e data la donazione al principe Amgiad, pose il corpo della dama colla testa in un sacco, che si caricò sulle spalle, e cominciò a camminare di strada in istrada, prendendo la via del mare.

Non aveva fatto che pochi passi, quando s’imbatté nel giudice di polizia, il quale faceva in persona la sua ronda. Le genti del giudice l’arrestarono e aprirono il sacco, nel quale rinvennero il corpo della dama uccisa, e la sua testa.

Il giudice, riconoscendo il grande scudiere ad onta del suo travestimento, lo condusse in sua casa; e come non osò farlo morire, a cagione della sua dignità, senza parlare al re: lo menò da costui la mattina seguente. Non avendo il grande scudiere voluto difendersi venne condannato a morte.

Il giudice lo ricondusse seco, e mentre si preparava la forca, mandò a pubblicare per tutta la città la giustizia che stavasi per fare a mezzogiorno, d’un omicidio commesso dal gran scudiere.

Il principe Amgiad, avendo inutilmente atteso il grande scudiere, fu costernato in un modo da non potersi immaginare quando intese quel bando dalla casa in cui era, e disse tra sé:

— Se qualcuno deve morire per l’uccisione di una sì trista donna, son io, e non il gran Scudiere: ed io non permetterò mai che l’innocente sopporti la pena del colpevole!

Uscì e andò subito alla piazza, dove si doveva fare l’esecuzione. Appena Amgiad vide comparire il giudice, il quale conduceva Bahader alla forca, andò a presentarsi a lui e gli disse:

— Signore, io vengo a dichiararvi e ad assicurarvi essere il gran scudiere innocentissimo dell’uccisione di quella donna. Son io che ho commesso il delitto, se delitto può dirsi l’aver tolto la vita ad una detestabile donna, la quale voleva toglierla ad un grande scudiere: ed ecco come la cosa è andata.

Quando il principe Amgiad ebbe detto al giudice in qual modo s’era incontrato colla donna, il giudice sospese l’esecuzione e lo guidò al re con quest’ultimo.

Il re volle essere informato della cosa dallo stesso Amgiad, il quale per fargli meglio comprendere la sua innocenza e quella del grande scudiere, profittò dell’occasione per narrargli la sua storia e quella di suo fratello Assad, dal principio fino al punto in cui gli parlava. Quando il principe ebbe terminato, il re gli disse:

— Principe, son io felice che questa occasione mi abbia dato luogo a conoscervi, e non solo vi dono la vita con quella del grande scudiere, cui lodo della buona intenzione avuta per voi, e il quale rimetto nella sua carica, ma vi nomino anche mio gran Visir per compensarvi dell’ingiusto trattamento, quantunque scusabile, che vostro padre vi ha fatto. Riguardo al principe Assad, io vi permetto d’adoperare tutta l’autorità che vi do per ritrovarlo.

Intanto Assad stava legato nel carcere ov’era stato chiuso dall’iniquo vecchio, e Bostane e Cavame, figliuole del vecchio, lo maltrattavano ogni giorno colla stessa crudeltà.

Essendo prossima la solenne festa degli Adoratori del Fuoco, si equipaggiò il vascello che ordinariamente faceva il viaggio della montagna del fuoco.

Venne caricato di mercanzie, mercé le cure d’un capitano chiamato Behram, zelantissimo della religione de’ Magi.

Quando fu in istato di mettere alla vela, Behram vi fece imbarcare Assad in una cassa a metà piena di mercanzie, con molte aperture ai fianchi per concedergli il necessario respiro, e fece discendere la cassa in fondo alla stiva.

Dopo alcuni giorni di navigazione, il vento divenne contrario, e s’aumentò in modo da suscitare una furiosissima tempesta. Il vascello non solo perdé la sua strada, ma Behram e il suo pilota non sapevano più dove erano e temevano ad ogni momento di dare in qualche scoglio.

Nel forte della tempesta scoprirono terra, e Behram riconobbe essere il regno della regina Margiana, e ne ebbe un gran dispiacere; imperocché quella regina, essendo mussulmana, era perciò mortale nemica degli Adoratori del Fuoco.

In questo estremo tenne consiglio col suo pilota e co’ suoi marinai, dicendo loro:

— Amici, voi vedete la necessità in cui siamo ridotti; or bisogna scegliere tra questi due partiti: o farci inghiottir dai flutti o salvarci nel porto della regina Margiana. Ma il suo odio implacabile contro la nostra religione e contro tutti quelli che la professano vi è conosciuto, perciò non mancherà d’impadronirsi del nostro vascello, e di far togliere la vita a tutti noi. Io vedo un solo rimedio, il quale forse ci uscirà. Sono d’avviso di levare dalla catena il mussulmano e di vestirlo da schiavo. Quando la regina Margiana mi farà chiamare innanzi a lei, e mi domanderà qual è la mia professione, le risponderò esser io mercante di schiavi, aver venduti tutti quelli che avevo, tranne un solo, cui ho serbato per servirmi da segretario, sapendo egli leggere e scrivere.

Ella vorrà vederlo, e siccome egli è ben fatto, e d’altra parte è della sua religione, ne avrà compassione, non mancando di propormi di venderglielo, ed a questa considerazione ci permetterà trattenerci nel suo porto sino all’apparir del buon tempo.

Behram fece togliere il principe Assad dalla catena, e lo fece vestir riccamente da schiavo, secondo il grado di segretario del suo vascello, sotto il quale voleva presentarlo alla regina Margiana.

Appena questa ebbe veduto il vascello, mandò ad avvertire il capitano di andare a parlarle. Behram sbarcò col principe Assad, e dopo aver avuto la sua promessa di confermar esser egli suo schiavo e suo segretario, venne condotto innanzi alla regina Margiana. Assad era subito piaciuto alla regina ed essa fu lieta di sapere esser egli schiavo. Determinata di comprarlo a qualunque prezzo si fosse, chiese ad Assad come si chiamasse.

— Ohimè! – rispose Assad – io mi chiamavo altra volta, Assad il gloriosissimo, ed oggi mi chiamo Motar, destinato ad essere sacrificato!

Margiana, non potendo penetrare il vero senso di quella risposta, la riferì al capo della sua schiavitù.

— Poiché voi siete segretario – continuò la regina – non dubito non sappiate bene scrivere; però fatemi vedere la vostra scrittura.

Assad si trasse un poco in disparte, e scrisse queste sentenze riferibili alle sue miserie:

«Il cieco si allontana dalla fossa in cui il chiaroveggente si lascia cadere.

«L’ignorante s’innalza alla dignità con discorsi che non dicono nulla.

«Il sapiente giace nella polvere colla sua eloquenza.

«Il mussulmano è nella più grande miseria con tutte le sue ricchezze.

«L’infedele trionfa in mezzo a’ suoi beni.

«Non si può dunque sperare che le cose cangino, essendo decreto dell’Onnipotente Iddio che rimangano sempre in questo stato».

Assad presentò la carta alla regina Margiana, la quale non ammirò meno la moralità delle sentenze, che la bellezza del carattere.

Non appena ebbe finito, si rivolse così a Behram:

— Scegliete tra il vendermi questo schiavo, o donarmelo.

Behram rispose insolentemente che aveva bisogno del suo schiavo per sé.

La regina Margiana, sdegnata di quest’audacia, non volle parlare oltre a Behram, ma preso il principe Assad lo fece camminare innanzi a lei, lo condusse nel palazzo, mandando a dire a Behram che avrebbe fatto confiscare tutte le mercanzie, e mettere il fuoco al suo vascello in mezzo al porto, se vi passava la notte.

Behram fu costretto a ritornare al suo vascello tutto confuso, e di far preparare ogni cosa per rimettere alla vela.

La regina Margiana, dopo aver comandato, entrando nel suo palagio, che si servisse prontamente la cena, condusse Assad nel suo appartamento, ove lo fece sedere vicino a lei ad onta ch’ei volesse esentarsene, dicendo non esser conveniente ad uno schiavo tale onore.

— Ad uno schiavo? – esclamò la regina – un momento fa lo eravate, ma ora non lo siete più! Sedetevi a me vicino, vi dico, e raccontatemi la vostra storia.

Il principe Assad obbedì, e quando fu seduto, disse:

— Potente regina. I mali, i tormenti incredibili che ho sofferti, e il genere di morte al quale era destinato, e da cui mi avete liberato, vi faranno conoscere la grandezza del vostro benefizio che non oblierò mai. Ma prima di venire a questi particolari orribili, vorrete concedermi di parlarvi dell’origine de’ miei mali.

Dopo questo preambolo, Assad cominciò dall’informarla della sua nascita reale, di quella di suo fratello Amgiad, della reciproca amicizia, della riprovevole passione delle loro madri, cangiata in un odio accerrimo, origine del loro strano destino.

Quando ebbe terminato, la regina sdegnata più che mai contro gli Adoratori del Fuoco, gli disse:

— Principe, ad onta dell’avversione sempre avuta contro gli Adoratori del Fuoco, non ho lasciato mai di comportarmi con molta umanità: ma dopo il trattamento barbaro usatovi e l’esecrabile loro disegno di fare una vittima della vostra persona al loro fuoco, io dichiaro ad essi da questo punto una guerra implacabile!

Quando la mensa fu tolta, Assad ebbe bisogno di uscire, e colse l’occasione in cui la regina non poté accorgersene; andato fino ad una fontana, vi si addormentò.

La notte intanto s’approssimava, e Bahram, non volendo dar cagione alla regina Margiana di eseguire la sua minaccia, aveva già levato l’ancora assai dolente della perdita fatta di Assad. Pur nondimeno cercava di consolarsi. Appena si trasse fuori del porto coll’aiuto della sua scialuppa, prima di ritrarla sul vascello, disse ai marinai:

— Amici, aspettate; non risalite ancora; io vado a farvi dare i barili per prendere dell’acqua e vi aspetterò qui sul vascello. Andate ad approdare innanzi al giardino del palagio, scalate il muro e troverete da provvedervi sufficientemente di acqua nel bacino, in quel giardino.

I marinai andarono a sbarcare ove Behram aveva loro detto, e scalarono agevolmente il muro.

Avvicinandosi alla fontana, scorsero un uomo addormentato, s’avvicinarono a lui e riconobbero Assad: mentre gli uni presero alcuni barili di acqua col minor rumore possibile, gli altri circondarono Assad e lo custodirono, nel caso che si svegliasse.

Egli ne dette loro il tempo ed appena i barili furono pieni e caricati sulle spalle di quelli che dovevan portarli, altri lo afferrarono, lo condussero con essi, e senza dargli il tempo di riconoscersi, l’imbarcarono co’ loro barili, trasportandolo al vascello a forza di remi. Colà giunti gridarono festosamente:

— Capitano, fate battere i vostri tamburi, noi vi riconduciamo il vostro schiavo.

Behram, non potendo comprendere come i suoi marinai avessero potuto ritrovare e riprendere Assad, attese con impazienza onde saper che cosa volessero dire, ma quando l’ebbe veduto non poté contenere la sua gioia: e senza informarsi di qual modo avessero operato per fare sì bella cattura, lo fece rimettere alla catena, e fatta tirare sollecitamente la scialuppa sul vascello, ordinò di far forza di vele.

La regina Margiana, quando s’accorse che il principe Assad era uscito, non dubitando ch’ei ritornasse ben presto, non provò dapprima alcuna inquietudine; ma poi cominciò ad essere molto angustiata. Comandato alle sue donne di vedere ove fosse, queste, invano lo cercarono. Nell’impazienza e nel dolore in cui era, Margiana andò a cercarlo essa medesima, e avendo veduta la porta del giardino aperta, vi entrò e lo percorse colle sue donne.

Passando vicino alla fontana osservò una pantofola sulle zolle; la riconobbe per una di quelle del principe; ciò la fece credere che Behram avesse potuto farlo rapire.

Allora essa mandò tosto ad avvertire il comandante di dieci vascelli da guerra che aveva nel suo porto sempre equipaggiati e pronti a partire al primo cenno, che ella voleva imbarcarsi in persona ad un’ora di giorno. Il comandante apprestò tutto, riunì i capitani, gli altri ufficiali, i marinai e i soldati, e tutto fu pronto all’ora indicata. Essa s’imbarcò, e quando la sua squadra fu fuori del porto ed alla vela, dichiarò la sua intenzione al comandante, dicendogli:

— Io voglio che facciate forza di vele e diate la caccia al vascello mercantile ch’è partito dal nostro porto iersera. Io ve lo dono, se lo prendete, altrimenti la vostra vita ne andrà di mezzo!

I dieci vascelli diedero la caccia a quello di Behram per due giorni interi, senza vederlo: ma nel terzo lo scopersero e lo circondarono.

Appena il crudele Behram ebbe veduto i dieci vascelli, non dubitò non fosse la squadra della regina Margiana che lo perseguitava. Fece bastonare il principe Assad. Finalmente lo fece scatenare, e fattolo salire dal fondo della stiva lo gettò in mare.

Il principe Assad sapendo nuotare, non durò fatica a raggiunger la terra.

Giunse finalmente vicino ad una città che riconobbe esser quella dei Magi, ove era stato tanto maltrattato. Siccome era tardi, e chiuse essendo le botteghe, prese il partito di arrestarsi nel cimitero vicino alla città, ove erano più sepolcri elevati a foggia di mausolei. Cercando, ne trovò uno ove entrò, per passarvi la notte.

Behram, accompagnato dai suoi marinai, giunse alla città dei Magi nella stessa notte in cui Assad erasi fermato nel cimitero. Siccome la porta della città era chiusa, fu anch’egli costretto a cercare qualche tomba nel cimitero per aspettare il giorno.

Per disgrazia d’Assad, Behram passò innanzi a quella dov’egli era, ed entratovi vide un uomo avviluppato nel suo abito.

Behram subito lo riconobbe, e gli disse:

— Ah! ah! voi siete dunque la cagione per cui io son rovinato durante tutto il tempo della mia vita? Non siete stato sacrificato quest’anno, ma non mancherete d’esserlo l’anno venturo.

Ciò detto, si gettò su lui, gli pose un fazzoletto sulla bocca, onde impedirgli di gridare, e lo fece legare da’ suoi marinai.

L’indomani appena la porta della città fu aperta, Bahram ricondusse Assad nella casa del vecchio Mago, informandolo della trista cagione del suo ritorno, e dello sciagurato successo del suo viaggio.

L’iniquo vecchio non dimenticò d’ingiungere alle sue due figliuole di maltrattare lo sfortunato principe più di prima, s’era possibile.

Bostane trattò lo sciagurato principe tanto crudelmente, quanto l’aveva fatto durante la sua prigionia. I lamenti, i pianti, le preghiere di Assad, il quale la supplicava di risparmiarlo, insieme alle sue lacrime furono sì efficaci, che Bostane non poté restarsi dall’esserne intenerita, e dal versar lacrime con lui.

— Signore – gli disse – ricoprendogli le spalle, – vi domando mille perdoni della crudeltà con cui vi ho trattato finora! Consolatevi, i vostri mali son finiti ed io cercherò di riparare tutti i miei delitti, di cui conosco l’enormità, con migliori trattamenti! Voi m’avete tenuta finora come un’infedele, ma sappiate esser io mussulmana, nella quale religione sono stata istruita qualche poco da una schiava, e spero vorrete continuare quanto essa ha incominciato. Per provarvi la mia buona intenzione, chieggo perdono al vero Dio di tutte le offese fattevi, e nutro la speranza ch’ei vorrà farmi trovare il mezzo di rimettervi in libertà.

Alcuni giorni dopo, quando Bostane alla porta di casa intese un banditore il quale pubblicava il seguente bando ad alta voce:

— L’eccellente ed illustre gran Visir, in persona, cerca suo fratello, separatosi da lui più d’un anno! Esso è fatto in tale e tal modo. Se qualcheduno lo ritiene in casa o sa dov’egli è, sua Eccellenza comanda glielo si conduca o gliene si dia avviso, con promessa di ben compensarlo. Se qualcuno lo nasconde o non lo vuol consegnare, sua Eccellenza dichiara che punirà di morte lui, la sua famiglia e farà demolire la casa!

Bostane non appena ebbe intese queste parole chiuse la porta prestamente, e andò a trovare Assad nei suo carcere, dicendogli con gioia:

— Principe, son finite le vostre disgrazie, seguitemi senza por tempo in mezzo!

Assad, al quale essa aveva tolta la catena dal primo giorno in cui era stato ricondotto in quel carcere, la seguì fin nella strada, ove appena giunti, essa gridò:

— Eccolo! eccolo!

Il gran Visir si voltò indietro, ed Assad riconosciutolo per suo fratello, corse a lui abbracciandolo.

Amgiad, che eziandio lo riconobbe subito, l’abbracciò teneramente, lo fece montare sul cavallo d’un suo ufficiale, e lo condusse al palagio in trionfo, ove lo presentò al re il quale lo fece tosto Visir.

Bostane, non avendo voluto rimanere presso suo padre, la cui casa venne demolita lo stesso giorno, fu mandata all’appartamento della regina.

Il vecchio Mago e Behram condotti innanzi al re furono condannati ad aver mozzo il capo.

Essi si gettarono ai suoi piedi implorando la sua clemenza: ma il re rispose loro:

— Non v’ha grazia per voi, se non rinunciate all’adorazione del fuoco, e non abbracciate la religione mussulmana!

Quelli si salvarono la vita appigliandosi a questo partito. Behram, informato pochi giorni dopo della storia d’Amgiad suo benefattore e d’Assad suo fratello, propose loro di far equipaggiare un vascello, e ricondurli al re Camaralzaman loro padre.

I due fratelli accettarono l’offerta di Behram, e ne parlarono al re, il quale accordò la sua approvazione, ordinando di equipaggiare un vascello: il che Behram fece con tutta la sollecitudine possibile.

Quando fu pronto a mettere alla vela, i principi andarono a prender commiato dal re un giorno prima d’imbarcarsi. Ma mentre facevano i loro complimenti e lo ringraziavano della sua bontà, s’intese un gran tumulto per tutta la città, e in pari tempo un ufficiale venne ad annunciare che un grande esercito si approssimava. Il principe Amgiad non istette molto a scoprir l’esercito che gli parve potente e che avanzavasi sempre. L’avanguardia lo ricevette favorevolmente e lo condusse innanzi ad una principessa.

Amgiad le fece una profonda riverenza, e le chiese se veniva come amica o nemica, e qual motivo di sdegno aveva contro il re suo signore.

— Io vengo come amica – rispose la principessa – e non ho alcun motivo di malcontento contro il re dei Magi. Vengo solo a domandare uno schiavo chiamato Assad, statomi rapito da un capitano di questa terra chiamato Behram, il più insolente tra gli uomini.

— Potente regina – rispose il principe Amgiad – sono il fratello dello schiavo che voi cercate con tanta premura. Io l’avevo perduto e da poco tempo l’ho ritrovato. Venite, ve lo consegnerò io stesso: il re mio padrone sarà contento di vedervi.

Mentre l’esercito della regina Margiana si fermò allo stesso posto per ordine di lei, il principe Amgiad l’accompagnò alla città ed al palagio, ove la presentò al re, il quale dopo averla accolta come meritava, il principe Assad, essendo presente ed avendola incontanente riconosciuta, le fece i suoi complimenti.

Ella gli dimostrò la gioia che provava rivedendolo quando si venne a dire al re che un esercito più formidabile del primo si scorgeva da un altro lato della città.

Amgiad salì tosto a cavallo e corse a briglia sciolta incontro a quel nuovo esercito. Chiese ai primi in cui s’imbatté di parlare a colui che comandava, e venne condotto innanzi ad un re, che riconobbe per tale dalla corona che portava in testa.

Appena lo scorse da lungi, scese a terra, e quando gli fu vicino, dopo essersi prostrato a’ suoi piedi, gli chiese quali fossero le sue intenzioni verso il re de’ Magi suo padrone.

— Io mi chiamo Gaiour e sono re della China! Il desiderio di saper nuove d’una figliuola chiamata Badoure maritata da diversi anni al principe Camaralzaman, figliuolo di Schahzaman re dell’isola dei Fanciulli di Khaledan, m’ha obbligato ad uscire da’ miei Stati. Io aveva permesso a quel principe d’andare a veder suo padre, a condizione di venire a rivedermi ciascun anno colla mia figliuola; pur nondimeno da molti anni non ne ho inteso parlare.

Il principe Amgiad, riconoscendo nel re Giaour il suo avolo, gli baciò con tenerezza la mano dicendogli:

— Sire, la Maestà Vostra mi perdonerà questa libertà, quando saprà non far io ciò se non per rendere i dovuti omaggi come mio avolo. Io son figliuolo di Camaralzaman, oggi re dell’isola d’Ebena, e della regina Badoure, per cui siete stato tanto in pena.

Il re della China, lieto di vedere il suo nipote, lo abbracciò teneramente, e quest’incontro così inaspettato, li fece piangere ambedue.

Mentre il re della China fece accampare il suo esercito nel luogo ove Amgiad l’aveva incontrato, questi tornò a dar la risposta al re de’ Magi il quale lo aspettava con grande impazienza, e fu estremamente sorpreso nel sentire che un re così potente come quello della China, avesse intrapreso un viaggio tanto lungo e penoso, spinto a questo dal solo desiderio di rivedere la sua figliuola. Dette incontanente gli ordini pei doni da fargli, e si dispose a riceverlo.

In questo intervallo si vide innalzare una gran polvere da un altro lato della città, e si seppe ben presto che era un terzo esercito che arrivava: il che obbligò il re a pregare nuovamente il principe Amgiad di andare a vedere che cosa mai volesse.

Amgiad partì, e questa volta l’accompagnò anche il principe Assad. Giunti sul luogo, seppero da alcuni esploratori che quello era l’esercito del re Camaralzaman, il quale veniva a cercarli.

Egli aveva dato segni d’un sì gran dolore d’averli puniti che alla fine l’emiro Giondar non avea potuto fare a meno di palesargli in qual modo avesse loro conservata la vita.

Appena che i due principi s’incontrarono col re Camaralzaman si fecero subito riconoscere.

Dopo che ognuno ebbe dato sfogo alla propria gioia, i due principi dissero al padre che nello stesso giorno era giunto il re della China suo suocero.

Il re Camaralzaman appena saputo questo, si staccò da essi e con poco seguito andò a vederlo nel suo campo. Non aveva fatto molto cammino che scorse un quarto esercito che si avanzava in bell’ordine, e sembrava venire dalla parte della Persia.

Camaralzaman disse ai principi suoi figliuoli di andare a vedere che esercito fosse, dicendogli intanto che gli avrebbe attesi in quel luogo. Dessi partirono subito, e al loro arrivo furono presentati al re cui l’esercito apparteneva.

Il gran Visir, che era presente, prese la parola, e così disse:

— Il Sovrano a cui parlate, è Schahzaman, re dell’isola dei Fanciulli di Khaledan, che viaggia da molto tempo nel modo che vedete, cercando il principe Camaralzaman suo figliuolo, ch’è uscito da’ suoi Stati molti anni or sono.

I principi non risposero altra cosa se non che avrebbero subito portata la risposta, e ritornarono a briglia sciolta ad annunziare a Camaralzaman che l’ultimo esercito allora giunto era quello del re Schahzaman, e che egli stesso lo comandava in persona.

Da lungo tempo non s’era veduto un incontro così tenero tra padre e figlio!

Schahzaman si dolse cortesemente col re Camaralzaman dell’insensibilità che aveva avuta nell’allontanarsi da lui in un modo così crudele, e Camaralzaman gli mostrò un vero dispiacere del fallo che l’amore gli aveva fatto commettere.

I tre re e la regina Margiana restarono tre giorni alla corte del re de’ Magi, il quale fece loro dei magnifici doni.

Continua…


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TITOLO: Storia di Marzavan

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale