Il volto del destino
di
Nicola Moscardelli
tempo di lettura: 7 minuti
Dopo aver tergiversato ed atteso che di sera in sera si leggesse nel giornale che la vaccinazione contro il vaiolo non è più necessaria, finalmente giunse il momento in cui i genitori doverono decidersi. Si fecero coraggio – tanta della loro vita era riposta nella vita della bambina – ed andarono dal medico di casa per prendere gli accordi.
Con la voce nasale di tutti i medici, con quella voce che essi hanno abituata a non rivelare nessun turbamento, egli disse:
— Signora, non c’è da farsi apprensioni, è una cosa da nulla. Che giorno è oggi? Lunedì? Bene: mi portino la bambina mercoledì prossimo, e due tubetti di vaccino. Mercoledì sera ed anche la notte la bambina starà bene, ma per precauzione la tengano ben riguardata. Giovedì nel pomeriggio essa comincerà ad avere un poco di febbre. Nella notte la febbre aumenterà: venerdì continuerà stazionaria, sui trentotto. Sabato comincerà a discendere e domenica in ogni caso se ne andrà del tutto. Come vedono è una cosa da nulla. Vaccinazioni se ne fanno centinaia ogni giorno.
La mamma ascoltava con una leggera apprensione, fissa negli occhi del dottore, senza tuttavia perder di vista, con altri occhi, la bambina che s’era avvicinata ad un armadio a vetri e, con gli occhi spalancati, osservava luccicanti bisturi, fiammanti forbici e tenaglie, calamitata da quel freddo splendore di giocattoli.
Il dottore si volse a guardarla:
— Luisella, – esclamò – mercoledì tornerai con la mamma ed io ti darò la cioccolata. Mi prometti che tornerai?
La bimba confusa alzò gli occhi verso la madre.
— Ringrazia il dottore, vedi come ti vuol bene, e prometti che tornerai se sarai buona.
— Sì – esclamò la bambina. La mamma la prese in braccio, si licenziarono ed uscirono.
Come tutti gli altri giorni Luisella era calma. Neppure una delle parole del dottore l’aveva sfiorata: guardava ora, in strada, le prime lampade accese, e la sua mente innocente fantasticava dietro quel bagliore come prima aveva fantasticato dietro i riflessi argentei dei bisturi e delle forbici chiuse in vetrina.
Una nube leggera già velava invece la mente della mamma. Senza volerlo, senza nemmeno pensarci, stringeva con un nuovo affetto la sua bambina fragile, tenera, pura.
A sera, quando l’ebbe messa a letto, restò seduta accanto a lei a guardarla dormire, e con una nettezza mai conosciuta riconobbe sul volto della figlia ad una ad una le ombre del sogno, simili ad ombre di voli lontani che increspavano appena il suo piccolo viso, o l’aprivano ad un fuggevole sorriso, o l’oscuravano un poco, appena appena. Ospite di un mondo tanto diverso da quello donde era ora uscita e da quello in cui vivevano i suoi genitori, sembrava essa stessa un sogno, e la mamma si levò piano piano senza respirare quasi per tema di dissolvere quel sogno.
Al mattino seguente il sole entrò come tutti i giorni furtivo tra le imposte, simile allo sguardo di uno che spii senza rumore, e la bimba lo salutò col grido consueto. Nulla del giorno innanzi erale rimasto appreso, e la sua vita ricominciava dalle fondamenta. Ma la mamma non ebbe cuore di sorridere come sempre, chè la nube della sera innanzi diventava sempre più grande ed oscurava la luce del giorno. Rientrata nel mondo dei suoi giocattoli la bimba ricominciò il discorso con essi tranquillamente, e quando la mamma che usciva per comprare il vaccino le disse che andava a comprar le caramelle, sorridendo le saltò al collo.
Nel pomeriggio di mercoledì la mamma, fingendo di ricordarsene all’improvviso, la prese in braccio e le ricordò della cioccolata promessa dal dottore. Nella borsetta aveva i due tubetti e nel cuore una grande apprensione. Uscirono di casa che il sole dorava ancora i tetti e le vie senza riuscire a dorare i pensieri. La nuvola velava l’orizzonte della mamma come un rimorso: il rimorso dell’innocenza tradita. Ma ad ogni fermata del tram la bimba guardava la mamma quasi per rammentarle che bisognava scendere: e invece la mamma non avrebbe voluto mai arrivare: ancora un poco, ancora un poco di strada, tanto da convincersi che non era nulla, assolutamente nulla.
Prima ancora che il dottore la toccasse, la bimba pianse. La mamma la sorreggeva e offriva all’incisione il roseo braccino dicendo che non era nulla: la bimba lasciò cader la cioccolata per divincolarsi, ma non vi riuscì. Allorchè si sentì prendere dalle mani del dottore divenute insensibili nonostante che egli pronunciasse parole scherzose, il pianto non ebbe più limiti, e parve che piangesse non tanto per il dolore, piccolo, quanto per l’inganno che le avevano fatto subire.
Naturalmente, fu cosa di qualche minuto e, giunti a casa, si calmò. Forse l’avventura le parve un sogno, inesplicabile, ma senza conseguenze. La mamma cercava di farle dimenticare l’accaduto e quasi avrebbe voluto farle intendere che anch’essa era stata ingannata, che veramente erano andati dal medico perchè è così gentile ed ama i bambini, mentre invece… ma chi l’avrebbe potuto immaginare? Ma negli occhi della bambina permaneva un’ombra, quasi un sospetto che stentava ad esser cancellato. Tuttavia di lì a poco anche quell’ombra si dileguò e il sole tornò a brillare nell’orizzonte della sua mente pacificata.
Seduta per terra essa giocava dinanzi ad una grande scatola piena di giocattoli d’ogni sorta, e tutta presa in quelli dimenticava ogni altra cosa. Solo di tanto in tanto un singhiozzo la scuoteva, un singhiozzo che apparteneva non al futuro nè al presente, ma al passato.
In piedi, la mamma, non vista, la fissava con la stessa attenzione con cui chi ha dato fuoco alla miccia attende che la bomba scoppi. E la bambina ormai rasserenata le chiedeva le cose di ogni giorno, le impossibili cose che solo nella mente dei bambini possono albergare.
— Domani – rispondeva la mamma trasalendo un poco: e la sua voce era velata dalla menzogna.
— Domani – ripeteva la bimba, e gli occhi le lucevano tanto che la mamma s’accostò e, senz’averne l’aria, le passò una mano sulla fronte per sentirne il calore.
Lente scorrevano le ore nel pomeriggio tranquillo: ad ognuna di esse la bimba si inoltrava di un passo in un mondo sconosciuto, di cui essa ignorava l’esistenza, ma che la mamma vedeva distintamente, come noi vediamo un cieco avvicinarsi al ciglio di un abisso.
Nella piccola stanza da letto, guernita di piccole inutili cose, fervida della vita di mille genietti chiamati dalla presenza di un essere simile a loro, improvvisamente era scesa la notte. Identico a quello di tutte le sere era il lettuccio nel quale la piccola era stata appena distesa: ma la mamma vi vedeva aleggiare già gli spiriti della febbre, venuti ad un appuntamento preciso al quale non potevano mancare: e la lampada che rischiarava tutte le notti non avrebbe potuto rischiarare quella notte così diversa dalle altre. Sicchè quando la piccola si addormentò, la mamma rimase a contemplarla lungamente, quasi avesse voluto cogliere il momento in cui nelle povere carni sarebbe scoppiata l’oscura lotta fra i germi del bene e del male.
Durante la notte la bimba spesso in sogno mormorò parole incomprensibili e più d’una volta levò le piccole mani in atto di allontanare qualcuno o qualcosa.
La mattina seguente il sole non fu salutato col grido consueto. Simile ad un fiore bruciato dal gelo la bambina giaceva nel suo lettuccio, poggiata la guancia accesa sul cuscino, le palpebre abbassate sulle pupille dilatate dalla febbre.
Ecco la profezia del dottore che cominciava ad avverarsi punto per punto. Durante tutto il giorno la febbre aumentò sempre. Venerdì si mantenne sempre alta dal mattino alla sera, come era stato previsto. Sabato mattina ce n’era appena una linea. Domenica la piccola era sfebbrata. Lunedì potè levarsi, senza memoria del male passato, e riprese il discorso interrotto con i suoi piccoli amici di stoppa e di cartapesta.
Intenta allo svolgimento della predizione del medico, la mamma si sentiva leggermente prendere dal capogiro. Tutto era successo all’insaputa della bambina. Con esattezza cronometrica era stato previsto il giorno e l’ora della febbre, dello sfebbramento e della guarigione. Ma la piccola, già con i piedi nel cerchio della febbre, aveva detto tranquillamente «domani», tranquilla, sicura, contenta. Era quindi caduta nel baratro, ignara di tutto, col sorriso in bocca.
Seduta sulla proda del letto, la faccia profondata nelle palme delle mani aperte la mamma era di fronte all’enigma come il sano di fronte al cieco; e si sentiva anch’essa cieca, smemorata ed ignara sull’orlo di chissà quale abisso. E con lei tutti gli esseri creati, tutte le creature che dicono «domani», ignorando se il domani sorgerà per loro. Come in uno specchio ella vide i casi umani esser tessuti da un invisibile mano, sentì ogni ora scoccare grave di un suo oscuro dolore o di una improvvisa gioia.
Nella piccola stanza la madre e la bimba tacquero per un attimo. Poi la piccola ricominciò a cullare la sua bambina, riprese il filo interrotto della sua semplice vita.
Allora la mamma ripensò al medico, ed ebbe l’impressione di aver visto in faccia il destino. Portava occhiali d’oro a stanghette; come ormai nessuno usa più, aveva una barbetta rada e rossiccia, e parlava con accento leggermente siciliano.
Fine.
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TITOLO: Il volto del destino
AUTORE: Nicola Moscardelli
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Il sole dell'abisso / Nicola Moscardelli. - Lanciano : G. Carabba, [1930]. - 268 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale