La statuetta di sughero

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 8 minuti


Era venuto l’uomo del sughero, cioè il negoziante che ogni sette anni acquistava il prodotto non dato dalle ghiande delle querce sugherifiche centenarie del vastissimo bosco sull’altipiano della Serra, ma dalla corteccia dei tronchi; corteccia spugnosa, elastica, a strati ogni anno sovrapposti gli uni agli altri, compatti e leggeri, a maturazione completa, come un legno dolce e, alla superficie, rivestiti di una scorza fungosa grigiastra che serve ad accendere e avvivare il fuoco. Il sughero scelto veniva estratto da lavoratori abili, che lo incidono all’altezza e alla base del tronco, poi in lunghezza, in modo che si stacca a strisce larghe, alquanto concave, che vengono bagnate per allargarsi e appianarsi, e infine legate a pacchi come lastre di gomma rossastra, preziosa quanto il marmo. E viaggiano, queste umili escrescenze nate e cresciute nei boschi primordiali, dove pascolano i porcellini allegri e intelligenti, e i pastori solitari spezzano le ossa coi denti forti come zanne d’avorio; vanno dapprima al macero delle fabbriche di tappi e poi in tutto il mondo, a rendere più allegre le feste, a saltare con orgiastica violenza fra i pazzi zampilli delle bottiglie di vino spumante, ad accompagnare, con lo scoppio che provocano, le risate elegantemente perverse delle donnine già un po’ ebbre; ed anche nei cordiali simposi degli umili, dove la padrona ha cura di non buttare il turacciolo che può servire ancora.

Gli alberi padri di tanta chiassosa ricchezza rimangono fermi sulle loro profonde radici, scorticati e sanguinanti come martiri; ma a poco a poco l’aria balsamica li risana, la natura li riveste pietosa d’un primo velo poroso come la garza che avvolge le piaghe; i ciclamini e i funghi calpestati si risollevano ai loro piedi e la pernice d’oro svolazza fra i loro germogli. Un’altra èra deve passare prima che vengano di nuovo martirizzati; e donna Giacinta, in quei sette anni di abbondanza, nasconde le migliaia di lire ricevute dal loro fecondo sacrifizio, in ogni angolo della casa. Con qualche lastra di sughero sottratta al negoziante, il pastore porcaro ha, intanto, fabbricato non solo tutti i recipienti, le tazze, i vassoi necessari all’ovile, ma anche quelli che fanno comodo alla sua padrona: vasi cuciti col filo forte della pelle d’agnello, e tappati ermeticamente, vasi più grandi, concavi, buoni per lavare la roba di casa; recipienti per mettervi ad addolcire le olive, e altri più grandi ancora per la farina lievitata; e tazze per bere, secchie per attingere l’acqua, catinelle per lavarsi i piedi. Il sughero è amico dell’acqua e del vino, al quale serve da tutore fino all’ora della maggiore età e spesso anche fino alla più grande vecchiaia; è amico del fuoco che alimenta con prontezza devota, è amico dei bambini che facilmente vi possono incidere i loro giocattoli; ridotto in fogli sottili e quasi trasparenti si trasforma in decorazioni delicate, per quanto di gusto discutibile, e persino in biglietti da visita; e fra le altre mille cose alle quali può servire, ma questa volta in modo nocivo, alle donne che hanno qualche vendetta piccola o grande da compiere.

A una di queste singolari fattucchiere donna Giacinta aveva un tempo attribuito la sua disgrazia. Il suo unico figlio, Gioachino, bellissimo giovane esuberante di vita, Gioachino che era stato coraggioso e valoroso volontario di guerra, e, al ritorno, più agile e robusto di prima, s’era divertito nel miglior modo possibile consentito dall’ambiente del paese, era un giorno partito alla ventura con pochi soldi in tasca, come un disoccupato in cerca di lavoro, e dopo i primi anni non aveva più fatto sapere nulla di sé. Una ragazza al servizio della casa, ingannata e delusa da lui, aveva combinato la fattura, intagliando nel sughero una statuetta deforme, e anche poco decente, che rassomigliava allo Zeus degli scavi preistorici, e l’aveva flagellata di spille con la capocchia rossa. Così per opera di questo minuscolo mostro, ma soprattutto per la ferma volontà demoniaca della fanciulla delusa, la disgrazia doveva pesare a lungo sulla casa della benestante donna Giacinta: e la benestante donna Giacinta, trovata la statuetta proprio sopra la cornice antica di un uscio che dalla sua camera comunicava con quella del figlio, attribuiva la scomparsa di lui alle maledizioni della ragazza: senza ricordarsi che la sua avarizia, che raggiungeva una vera idolatria per il denaro, i suoi continui rimproveri, i menzogneri lamenti di mancanza di denaro, il cattivo nutrimento, le persecuzioni alle serve, e specialmente a quella piccola bruna dal viso di oliva che piaceva a suo figlio, lo avevano costretto a fuggire di casa.

Era dunque venuto l’uomo del sughero, a portare la caparra. Da molto tempo egli ricompariva ogni sette anni, a tempo giusto, al cominciare della primavera, dopo essere stato di persona a visitare il bosco e a valutarne il prodotto. Il sughero si sarebbe potuto estrarre con più frequenza, ma egli preferiva aspettare che fosse ben maturo: ci si guadagnava di più tanto lui che la proprietaria. Veniva di lontano; ma si teneva in corrispondenza con lei, perché non facesse il torto di preferire un concorrente; ed era puntuale, onesto, anzi il più generoso di tutti gli altri compratori.

Ecco che arriva. Donna Giacinta, lo chiamava l’annunziatore degli anni, o meglio dei periodi, delle sette vacche magre e delle sette vacche grasse, conforme la somma che egli, in rapporto del bosco, onestamente offriva. E questa volta si trattava proprio dei sette anni di abbondanza. Il primo a rallegrarsene era l’uomo, perché aveva una famiglia numerosa da aiutare e viveva solo per quello. In quei sette anni s’era un po’ invecchiato, ma di una luminosa vecchiaia; aveva un alto bastone, col manico ricurvo, intagliato da lui in un ramo di noce, e la barba lunga, di un bianco metallico, increspata come un’onda: rassomigliava al patriarca Giacobbe, vecchio, sì, ma ancora potente, col pastorale del comando.

Donna Giacinta, poiché non voleva che le serve sentissero dei suoi affari, lo ricevette nella camera di Gioachino dove c’era il suo scrittoio da studente che invece di intenerirla l’aveva sempre irritata, perché il ragazzo vi teneva, non i registri delle entrate e delle uscite, ma disordinati quaderni di poesie, minute di letterine amorose e altre dannose scritture.

Seduto davanti a questo scrittoio l’uomo parlò pacatamente dell’affare: disse che c’era una ottima produzione di sughero, questa volta, ed essendo questo cresciuto di prezzo per nuove applicazioni industriali, offriva una somma dalla proprietaria assolutamente inaspettata. La sola caparra raggiungeva una ragguardevole somma. Poi si parlò dei giovani, e il negoziante raccontò che i suoi figliuoli s’erano tutti sposati, e alcuni avevano già qualche bambino.

— Avranno sposato donne ricche, — dice la baffuta Giacinta, raccogliendo intanto i denari che l’uomo le aveva contato, — oh, certamente ricche.

— Ma perché ricche? Brave ragazze, sono piene di salute e di buona volontà. E allattano i loro marmocchi e fanno il pane per i loro uomini. Questa è la vera ricchezza. La mia casa è sempre allegra come una sala da ballo in giorno di festa. E di suo figlio, donna Giacinta, ha buone notizie?

Donna Giacinta raccoglie i denari e tende l’orecchio come per ascoltare il lieto frastuono della casa del patriarca. Ma non sente che il silenzio della sua; un silenzio che va di camera in camera come un fantasma, e se si ferma presso qualche mobile facendolo scricchiolare sinistramente. È il silenzio stesso della morte.

— Gioachino… — comincia, e vorrebbe mentire, dicendo che, sì, Gioachino ha scritto, ultimamente, che sta bene, lavora, campa; che lei naturalmente da buona madre lo aiuta come può e lo invita a ritornare presto, a crearsi anche lui una famiglia, a rianimare, a far rivivere la casa morta.

Ma il suono stesso di quel nome, da molto tempo non pronunziato, le sembra quello di un’eco; e, per la prima volta, le si presenta chiara l’idea che Gioachino sia morto: è il suo spirito, di ritorno dalle terre lontane, che va in camera, nella casa vuota.

Nascose il denaro in uno dei tanti suoi ripostigli. Non lo metteva alla Banca perché aveva paura: pezzi di carta per pezzi di carta meglio quelli che si possono spendere subito. Ma dove spenderli? Non lo sapeva neppure, come spenderli; e i soli che andavano a prendere aria, con suo grande affanno, erano quelli delle tasse. Eppure la visita e le notizie dell’uomo del sughero le avevano lasciato un’insolita inquietudine. Vedeva la casa di lui piena di gente, le donne che allattavano, o gramolavano la pasta; i giovani che alla festa tornavano mezzo brilli e con le tasche vuote, ma facevano ballare sul ginocchio il loro primo bambino, augurandosi di farne presto ballare un secondo sull’altro ginocchio.

Finalmente ebbe un’idea: tentare di aver notizie del figlio e, se non altro, mandargli denaro. Forse lo invoglierebbe a tornare. Ma dove cercarlo? Era più silenzioso e introvabile del fantasma che si appoggiava ai mobili e li faceva gemere.

L’idea che fosse morto, peggio che in guerra, che le sue ossa biancheggiassero in terra straniera, a poco a poco la vinceva e allargava intorno a lei un vuoto freddo e inumano: allora si ricordò di Dio e si mise a pregare.

— Signore, fatemi almeno avere sue notizie: lo aiuterò, gli manderò tutto il denaro che ho in casa.

Più grande offerta non poteva fare, scambiando Dio con un usuraio.

E fu esaudita; poiché qualche tempo dopo il figlio le scrisse dalle Indie inglesi: s’era fatta una magnifica posizione, ed anzi aveva il piacere di mandarle un assegno di cento sterline.


Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La statuetta di sughero
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)